Quando aprì la porta fu assalito da un’ondata di profumo al bergamotto. Agrumi insomma, qualcosa del genere, non sapeva nello specifico ma era senza dubbio un odore pungente e fresco.
Rimase colpito più da quello che dall’aspetto anonimo della paziente, una biondina timida e smunta che non riusciva nemmeno a guardarlo negli occhi. La ragazza si sedette e abbassò lo sguardo, rimanendo in silenzio.
L’analista si mise in attesa. Quel profumo gli fece venire subito in mente l’estate siciliana in cui aveva conosciuto Silvia. Avevano quindici anni e lui era impacciatissimo. Ma non tipo normale quindicenne che non sa se mettere il braccio sulla spalla alla ragazza e finisce per baciarle l’orecchio, no. Proprio uno che cadeva, letteralmente, ai loro piedi.
Quella sera, in campagna, la sua famiglia aveva incrociato per la prima volta quella di Silvia e lui era entrato in scena così, inciampando da dieci metri di distanza fino a rimbalzarle addosso trascinandola per terra. A dire il vero non era andata per niente male dopo. Silvia aveva già la pazienza necessaria per prendersi cura di quel tizio e dargli tempo di tirare fuori delle qualità.
E ne aveva motivo, perché mica era diventato analista per caso.
La paziente, seduta di fronte a lui, continuava col suo mutismo. Già al telefono era stata di poche parole ma ora si percepiva chiaramente il suo disagio di essere lì.
Sprofondato in poltrona, buttò l’occhio all’orologio digitale mentre la paziente continuava a guardarsi i piedi. 17.12. Forse è il caso di dire qualcosa, si disse. Dodici minuti di silenzio sono un tempo sufficiente per intervenire prima che la stanza si riempia d’angoscia, no? D’altra parte forse la ragazza ha solo bisogno di acclimatarsi, sta cercando di uscire da sola, sarebbe un peccato vanificare tutto…
Facciamo così, si disse, alle 17.14 le dico qualcosa. Niente di che però, insomma, muovo le acque e le faccio vedere che sono vivo. Un grande classico tipo “sembra dura essere qua oggi” sarebbe stato sufficiente.
Alle 17.13 gli tornò in mente quella volta che un supervisore lo aveva maltrattato perché aveva parlato troppo. Ma insomma, gli disse, per cosa viene il paziente? Per uscire fuori lui o per sentire parlare lei? Aveva avuto l’ardire di rispondere “Per tutte e due le cose?” e il supervisore era esploso in un rimbrotto fluviale sul farsi concavo dell’analista, e l’ascolto, le identificazioni e tutta una serie di cose che non erano entrate proprio perché era troppo stordito per ascoltarle. Da quella volta si era ben guardato dall’essere del tutto onesto con lui ma gli era rimasta addosso l’incertezza sull’uso del silenzio, come fosse uno strumento meccanico e non il risultato complesso di una serie di percezioni più o meno consapevoli.
Sono ancora le 17.13, pensa. Com’è lungo questo minuto. La sera prima di partire dalla Sicilia aveva baciato Silvia per la prima volta. Era stato un sollievo: il suo confino nel club dei mega sfigati che non hanno mai baciato una ragazza era finito per sempre, per quanto quel bacio gli fosse sembrato più un intreccio tra lumache che un incontro d’amore. Era stato un bacio goffo, melmoso e vagamente puzzolente ma ancora una volta Silvia lo aveva guardato con sopportazione e magnanimità. Si era sentito fortunato, a ripensarci ora. Lì per lì sentiva un misto di schifo e orgoglio, sintetizzato nel suo dirsi “da domani me le bacio tutte tutte, anche se in fondo non è che sia tutto questo granché”.
La paziente si voltò un poco in direzione della finestra. Si è mossa: ancora pochi secondi e dico qualcosa. Ma erano sempre le 17.13.
Pensò allora che forse l’orologio si fosse bloccato e, rompendo il patto con se stesso, fece per dirlo, questo qualcosa, una cosa d’emergenza qualsiasi, un commento, un intercalare, un mh tattico. Ma la lingua gli rimase appiccicata al palato. Gli uscì solo un leggero colpo di glottide che la paziente parve non udire. Fece allora per spostare il braccio ma quello rimase lì pietrificato. Non riuscì a muovere neanche un dito, perfino le palpebre parevano arenate.
Vide allora un leggero luccichio negli occhi della ragazza. Cazzo, pensò, sta piangendo. Vedi che qualcosa doveva uscire? Per fortuna che sono riuscito a starmene zitto, è la magia della capacità negativa.
No, un attimo, quella è smorfia. Una faccia strana, che non si vede bene bene perché ha tutti i capelli davanti alla faccia. Com’è che me n’ero accorto prima, di questi capelli, ora si è voltata verso di me, sta spalancando la bocca, il supervisore mi ammazza.
La biondina inibita ora lo guardava attraverso capelli neri liscissimi, trafitti da un luccichio che non era di tristezza ma di ferocia.
Dal nulla il silenzio si dissolse.
“Io lo so che hai pensato ai cazzi tuoi per tutto questo tempo”, disse con voce abissale, i lineamenti sfigurati in una maschera pallida e spaventosa.
L’analista sobbalzò cercando di dire qualcosa ma la lingua era perfettamente aderente al palato. Lo stomaco si svuotò in un attimo e iniziò a sudare freddo.
Aveva rimandato per anni la visione di The Ring perché aveva troppa paura di Samara, lo spirito vendicativo che moriva nel pozzo e usciva dalla televisione, e ora, ecco chi era, se la trovava davanti come paziente. A questo il mio supervisore non crederà, pensò in un attimo di lucidità, proprio mentre la ragazza o quel che ne rimaneva allungava una mano nera e ritorta verso di lui.
Se solo arrivassero le 17.14, potrei dirle qualcosa, spezzare questa maledizione. Ma l’orologio era sempre lì fermo che batteva i 13, nel minuto più lungo della sua vita. Samara, perché il nome della paziente non se lo ricordava nemmeno più, chissà se glielo avesse mai chiesto, si protese sulla scrivania con un ghigno di denti marci, investendolo col fetore di una cantina dimenticata.
Il minuto restava lì immutabile, i secondi pulsavano infiniti vorticando su loro stessi.
Così l’analista chiuse gli occhi, rinunciando all’orologio e preparandosi con rassegnazione a essere ghermito e divorato da quella paziente furiosa.
Se non altro, pensò, l’ho messa in contatto con la sua aggressività primaria.

Ci fu un attimo di buio assoluto poi fu percorso da un rapido tremito, come una piccola scarica di tensione elettrica.
Quando aprì gli occhi vide la paziente andare verso la porta del suo studio. Era in punta di piedi, tutta preoccupata e piena di imbarazzo.
Stava cercando di girare la maniglia il più dolcemente possibile, si capiva che davvero, poveretta, non avrebbe proprio voluto svegliarlo.

 

Filippo Barosi, psicologo-psicoterapeuta, candidato al IV anno presso la sezione veneto-emiliana. È romagnolo e vive e lavora a Bologna come libero professionista. Ha lavorato presso il Servizio di Aiuto Psicologico dell'Università di Bologna.

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