Il giorno di quel mese di quell’anno avrebbe significato una rivoluzione nella vita del dottor Arnold B. e di sua moglie Eva. O meglio: la rivoluzione era in atto, ma solo quel giorno ne avrebbero preso coscienza.
Per il dottor Arnold B. tutto cominciò quando infilò la chiave nella toppa della porta del suo studio professionale e provò a girarla, ma non accadde nulla. La serratura sembrava bloccata. L’imprevisto gli mise addosso una lieve agitazione. Estrasse la chiave dalla toppa e solo allora si rese conto di una cosa straordinaria: in venticinque anni quella era la prima volta che si sbagliava. Quella chiave gli bastava accarezzarla con i polpastrelli per riconoscerla in ogni singolo intaglio e dentino, ma quella mattina non era successo. Per mettere a tacere l’ansia pensò che se fosse accaduto un’altra volta avrebbe apposto un bordino di plastica colorato sull’impugnatura… Ma perché, poi? L’aveva sempre identificata al primo colpo. L’inaspettato incidente lo aveva turbato oltre misura.
Sono un esagerato, pensò facendo ingresso nel suo studio psicoanalitico, muovendosi in giro e aprendo le imposte per far cambiare l’aria alle stanze. Anche quella rimasta vuota da alcuni anni, dopo che un collega l’aveva lasciata libera per trasferirsi in un’altra città. Aveva sempre detto a sua moglie che avrebbero dovuto chiedere nel loro ambiente se qualcuno fosse interessato a prenderla in affitto, ma nessuno dei due si era mai seriamente impegnato nella ricerca. Così con il passare degli anni l’aveva sistemata in una sorta di “sala di transito” dove spesso trovavano rifugio, in compagnia di qualche buona lettura, i pazienti che arrivavano con troppo anticipo sull’orario concordato per il loro appuntamento.
La stanza d’analisi era sobria. Due poltroncine si fronteggiavano con in mezzo un tavolino basso in vetro e metallo, mentre perpendicolare alla poltrona che il dottore occupava durante le sedute, era posizionato il lettino analitico. A fianco alla poltrona, poggiata su una mensola bassa che ogni tanto ospitava l’International Journal of Psychoanalysis e qualche altra rivista, una pulsantiera con cui lo psicoanalista apriva il portone dello stabile e poi la porta dello studio, senza che si scomodasse, quando sentiva suonare il paziente successivo a quello che era in seduta. Dall’altro lato della stanza, un piccolo scrittoio e una comoda sedia erano deputati ad angolo di studio e concentrazione. Posata sul ripiano della scrivania un’agenda. Il dottore l’aprì nel punto in cui era posizionato il segnapagina e lesse più volte e ad alta voce il giorno, il mese e l’anno. Fu proprio in quel mentre che sentì suonare. Si avvicinò alla pulsantiera e premette i due pulsanti. Poco dopo nella stanza apparve un giovane uomo che si premurò di salutare e, dopo aver chiuso l’uscio della stanza, si accomodò sul lettino. Automaticamente l’analista si sedette dietro di lui. Seguirono alcuni minuti di silenzio, poi il paziente dette voce ai suoi pensieri:
«Ho fatto un sogno… Ho sognato che mi ero smarrito per strade a me sconosciute in una giornata piena di luce, quando a un certo punto la mia attenzione è stata attirata dal quadrante di un grande orologio senza lancette, sospeso sopra un negozio. Il non poter leggere l’ora mi turbò e per fuggire quella dimensione senza tempo guardai il mio per sapere che ora fosse, ma anche il mio era senza lancette. Più avanti di qualche passo c’era un uomo fermo di spalle. Decisi di chiedere a lui, ma si rivelò essere un manichino che rovinò per terra dissolvendosi. Fu in quel mentre che vidi sbucare da una strada un carro funebre che avanzando nel suo percorso perdette una ruota urtando contro un palo e dal carro, reso sbilenco, scivolò la bara che si scoperchiò mettendo in mostra il cadavere di un uomo…».
Questo sogno mi sembra di averlo già sentito, pensò l’analista. O forse ne ho fatto anche io uno simile o qualche altro paziente. Ma chi? E mentre pensava queste cose non si accorse che sua moglie Eva, aprendo con un altro mazzo di chiavi, era appena entrata nell’anticamera dello studio.

Per sua moglie Eva tutto era cominciato invece un quarto d’ora prima con una telefonata. Un impiegato della banca le comunicava che il conto cointestato con suo marito era in rosso. La notizia ebbe su di lei lo stesso effetto di un tornado in piena bonaccia estiva.
«Ma ci deve essere un errore…» protestò con l’impiegato. «Non abbiamo fatto grandi spese negli ultimi tempi».
L’impiegato con pazienza le spiegò che non si trattava delle uscite, ma degli accrediti che i pazienti facevano regolarmente su quel conto e che da tempo non avvenivano più. La signora Eva si scusò debolmente con l’impiegato dicendo che avrebbero provveduto.
Si sentì confusa. Ripercorse precipitosamente la sua vita coniugale per capire se qualcosa non andava. Forse Arnold si era innamorato di un’altra donna e con questo stratagemma cercava di mettere da parte più denaro possibile per non dividere con lei, in vista di una separazione. Ma Arnold non era mai stato una persona incline a questi meschini sotterfugi e poi a sessant’anni suonati non riusciva a vederlo impegnato in una nuova relazione. Cercò di evocare qualche situazione che potesse darle un’imbeccata, ma l’unica cosa che le sembrò distonica fu un leggero distacco affettivo nell’ultimo anno verso di lei e i loro due figli e un’ansia esasperata nei confronti dei pazienti. Spesso quando meno se l’aspettava lo vedeva controllare l’orologio e prendere la porta di gran fretta, preoccupato che qualcuno di loro fosse arrivato in studio prima di lui. Lo aiutava il fatto che il suo ufficio non era lontano più di due isolati e questo non lo sottoponeva a stress con l’automobile e la ricerca del parcheggio. Ecco un’altra cosa… da alcuni mesi le cedeva volentieri il volante, non amava più guidare come una volta.
Eva era troppo angosciata per creare connessioni fra gli indizi che le venivano in mente, anche perché non le suggerivano alcun risultato. Si rese conto che non sarebbe stata in grado di aspettare il marito fino all’ora di pranzo e sapendo che spesso fra un paziente e l’altro intercorreva anche una mezz’ora di pausa, decise di recarsi allo studio per affrontare subito la situazione e chiedere il motivo di quel rosso in banca.
Quando aprì la porta sentì nell’anticamera che Arnold stava parlando. In un moto di discrezione si infilò subito nella “sala di transito” e si mise ad aspettare, fregandosi le mani fino a farsi male e scuotendo la testa nel tentativo di scacciare cattivi pensieri. Dopo una decina di minuti sentì la porta della stanza di Arnold aprirsi, ma non udì alcun rumore di passi fra lo studio e la porta d’ingresso. Con cautela si affacciò in anticamera e vide che la porta dello studio era aperta. Nessuna voce proveniva dall’interno. Timorosa si avvicinò alla stanza. Arnold era alla scrivania e scriveva su uno di quei quaderni neri e piccoli che avevano tanto usato durante le scuole dell’obbligo.
«Arnold!» disse lei facendo capolino.
Arnold sollevò il capo e sembrò non essere sorpreso di vederla.
«Non è ancora la sua ora» disse in tono pacato e continuando a scrivere. «Aspetti nella sala a fianco. La chiamo io fra qualche minuto».
Eva precipitò in una vertigine. Tutto intorno le sembrò rarefatto e lontano. Barcollando mosse alcuni passi e si appoggiò con entrambe le mani sulla scrivania.
«Arnold, sono Eva!».
«Eva… non siamo a casa» guardò ripetutamente l’orologio e consultò rapidamente l’agenda. «Qui deve esserci un’altra persona, non tu. Non siamo a casa vero?». E riprese a scrivere con impegno.
Eva, nel tentativo di trovare un punto di riferimento rispetto a quella situazione che diventava sempre più confusa, istintivamente sfilò il quaderno dalle mani del marito e lesse.
«Che vuol dire? Che vuol dire tutto questo?» mormorò sfogliando il quaderno.
Per ogni pagina era appuntato sempre lo stesso sogno: un uomo che si smarriva per strade sconosciute in una giornata piena di luce… Per ogni pagina un nome differente con un cognome puntato.
Eva riconobbe la scena di uno dei film preferiti dal marito, Il posto delle fragole, ma che cosa c’entrava con il suo lavoro? Cosa era, un codice? Che voleva significare?
Il quaderno, nella frenesia dello sfogliare le pagine, le sfuggì di mano e cadde per terra.
Arnold la guardava immobile, paralizzato, senza manifestare alcuna emozione.
Eva con impazienza afferrò l’agenda e la sfogliò. Vuota! Non un nome, non un segno.
Si accasciò attonita su una delle poltrone vicino al tavolino basso. Arnold la seguì e si sedette di fronte a lei, muto, con lo sguardo impaurito.
Eva lo guardò e non riuscì a trattenere le lacrime. L’evento colse Arnold di sorpresa e in un moto spontaneo mosse la mano sopra un ginocchio della moglie.
«Cosa ti succede? Perché piangi?».
Eva cercò di riprendere il controllo di se stessa.
«Arnold, caro, da quanto tempo non vedi pazienti?».
«Uno è andato via da poco, …mi ha raccontato un sogno. È strano mi raccontano tutti lo stesso sogno».
Eva gli mostrò l’agenda aperta e ne sfogliò le pagine. «Non ci sono appuntamenti segnati».
Arnold sembrò riprendersi: «Io vengo e aspetto… Aspetto. Poi qualcuno viene».
Non riuscì a dire alla moglie che da un po’ di tempo confondeva i pazienti. Attribuiva a uno cose dette da altri. Non ricordava i nomi. Sbagliava gli appuntamenti. Spesso, ciò che diceva loro, erano cose senza senso. Né disse alla moglie che aspettava ore e ore seduto in silenzio, e se saliva l’ansia camminava nello studio come un animale braccato e che solo quando quella protratta solitudine si trasformava in angoscia e arrivava al culmine qualcuno suonava, lui apriva e lo faceva accomodare e questo qualcuno gli raccontava il sogno di un uomo che si era perso in una giornata piena di luce. Sempre lo stesso.
Eva mettendo insieme gli strani avvenimenti di quella giornata capì quanto la vita del marito fosse piena di dimenticanze, di frasi fatte, di discorsi noiosamente ripetuti e sempre uguali a se stessi, di coazioni a ripetere senza senso.
Solo i pazienti avevano intuito quanto Arnold stesse male.
Eva si alzò in piedi e gli tese la mano, non come a un adulto ma come si fa con un bambino piccolo o una persona innamorata. «Vieni» disse. «Andiamo a casa».
Arnold si alzò in piedi, ma protestò: «Ma io devo lavorare…».
«Ritorniamo fra poco» disse Eva. «Ora andiamo un momento a casa».
Si fece guidare dalla mano, ma quando passò davanti alla “stanza di transito” indugiò. Si fermò e guardò dentro. Li vide tutti lì, chi seduti, chi in piedi. Fece un cenno con la mano come per salutarli e scusarsi.
I pazienti risposero al saluto.

 

Marcello F. Turno è psicoanalista SPI, IPA e EFPP.
Ha collaborato con Gianni Notari scrivendo numerose azioni sceniche per teatro-danza, con Paolo Bianchini per la sceneggiatura di L’uomo del vento e ideato il dramma manicomiale Electra. Ha pubblicato fra saggio e fiction Il mancato suicidio di Luigi Pirandello, i racconti Storie nere in stanze d’analisiL’ispettore Fortunato.
È giunto due volte finalista nel torneo IoScrittore. È autore di saggi di psicologia e psicoanalisi e di un manuale di psicogeriatria. Ha ricevuto il premio speciale “Moscati”, nell’ambito del “Premio Cronin 2022” per medici-scrittori.

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