Come due gocce d’acqua, erano indistinguibili. Le conoscevamo tutti in città, e a tutti era accaduto di incontrarle almeno una volta, verso sera, per la loro passeggiata che, da epoca immemorabile, con qualunque tempo, si snodava ogni giorno lungo un itinerario sempre uguale. Uscivano nel tardo pomeriggio dal villino ottocentesco sul cupo viale di periferia, costeggiavano il lungofiume dalle sponde ripide e coperte di vegetazione, dirette a passi lenti e ritmati verso il centro cittadino. Avanzavano grevi, imponenti, le braccia immobili, le gambe divaricate, con le gonne talvolta rigonfie per il vento. A guisa di palloni aerostatici sul punto di salpare, generavano la penosa sensazione di essere a stento trattenute dalla forza di gravità. Lo sguardo fisso, il volto inespressivo, non appartenevano al mondo che a quell’ora fluiva copioso, animando il corso principale. Eccezionale un saluto ricambiato a un passante, neppure un’occhiata al crocchio di giovani che alle due sorelle riservavano ammiccamenti e lazzi pesanti.
Koby e Loby le chiamavano, come i due corpulenti eunuchi ciechi de “La visita della vecchia signora” di Friedrich Dürrenmatt. Certo di quella pièce, che aveva tenuto il cartellone in città per una settimana, i giovani del corso ricordavano soltanto i nomi dei due anziani e sgraziati servitori che col corpo deforme e i modi impacciati richiamavano la goffa sagoma e la tronfia andatura delle due sorelle. Avevano sessant’anni e non avevano amiche. Si erano tenute compagnia sempre e solo a vicenda; non si capiva in che modo, perché nessuno poteva dire di averle mai viste scambiarsi una parola, un sorriso, uno sguardo d’intesa. Colpivano i colori con cui ornavano i loro corpi cerei: d’estate giallo e azzurro oppure grigio e rosa; i loro abiti emanavano un senso di faticosa allegria e sorpassata eleganza vacanziera appartenuta a una malinconica belle époque. D’inverno sbucavano improvvisamente dalle nebbie dell’argine al limitare dei semafori e attraversavano la strada, rigide e solenni, avvolte in cappotti scuri dalle ampie falde, simili a vecchi pastrani militari. Veniva allora in mente a tutti noi il loro vecchio padre, morto alcuni anni prima: il generale De Bellis, che le aveva lasciate eredi di una discreta fortuna e di un buon numero di decorazioni militari e diari di guerra. La loro madre era morta nel darle alla luce, e le gemelle, allevate da qualche balia e da vari attendenti, erano cresciute secondo un regime militare, rigido per gli orari e immutabile per le abitudini, nelle caserme presso le quali il padre veniva trasferito. Spesso le due bambine erano rimaste in piedi la notte, dopo il silenzio, a sbirciare, attraverso i vetri appannati, sperando di veder tornare il generale (così anche loro lo chiamavano) da una delle campagne di guerra. Il ritorno solenne del padre era un momento di vera festa per le due bimbe e anche per l’intera guarnigione. Solo allora si respirava aria di gioia in famiglia, e le sorelle ne andavano fiere. Non avevano mai conosciuto l’amore, e di corteggiatori, a quanto si diceva, ne avevano incontrati parecchi. Si erano fatti avanti giovani e promettenti ufficiali a chiedere al generale la mano di una delle due figlie. Egli, dopo aver introdotto il giovane alla loro presenza e aver sostenuto la fatica della conversazione, avvertiva rapidamente la profonda, istintiva avversione delle sue figlie per quella proposta e congedava l’ufficiale con una forte stretta di mano e un’espressione del viso in cui non era difficile leggere il suo non grande rammarico e la ferma intenzione di chiudere in fretta l’argomento. Fu contento il generale che le gemelle non si fossero sposate, soprattutto quando, ormai in congedo, si ritirò entro il villino di famiglia costruito da suo padre nella periferia della città natale. Le sorelle, allora, perse volentieri le attenzioni rispettose e interessate degli ufficiali delle guarnigioni, poterono dedicare tutte le loro cure all’anziano, venerato stratega.
Furono anni felici in cui ai rari passanti e ai ciclisti, che transitavano veloci a tarda sera sul triste viale di periferia, accadeva sovente di scorgere le luci del villino accese a piano terra e di udire le note del pianoforte a cui si diceva sedessero con maestria le signorine De Bellis per sonate a quattro mani. Non fu possibile coinvolgere il generale nella vita mondana della città. Schivo e austero, declinava con ferma gentilezza gli inviti alle serate di gala e agli spettacoli. Col tempo, i conoscenti e i pochi amici rinunciarono a invitarlo, tanto più che il generale non consentiva a nessuno di entrare in intimità con lui e nemmeno di mettere piede in casa sua. Solo una volta pare che concedesse una piccola confidenza a un amico d’infanzia, il direttore del teatro comunale, che più volte lo aveva invitato alla prima del “Coriolano”.
“Eh, sai – gli aveva detto - mi farebbe piacere, molto piacere… Ma le mie figlie … no, non lo permetterebbero mai.”
Circolò subito la voce che l’anziano soldato fosse prigioniero dell’affetto vorace e morboso delle due gemelle. Ci fu chi disse che a quella prigionia sarebbe stato preferibile perfino un duro carcere militare a pane e acqua. Ben presto, però, l’episodio venne dimenticato e i cittadini continuarono a riverire il generale, durante le sue rare passeggiate pomeridiane, col rispetto e l’orgoglio con cui si guarda a un antico monumento che dà lustro e fama a una città e a un popolo.
La morte del padre fu un brutto colpo per le sorelle. Restarono sprangate in casa un paio di mesi dopo il funerale e ne uscirono soltanto per le ripetute insistenze dei membri del comitato per le celebrazioni di guerra e di alcuni assessori comunali che avevano ottenuto di poter intitolare al generale De Bellis una piccola piazza nella zona nuova della città tra enormi palazzi di cemento e piccoli giardini dal verde stinto e pallido. Con molta fatica, le sorelle parteciparono alla cerimonia; il volto atteggiato alla consueta muta indifferenza, si mostrarono insensibili anche ai discorsi celebrativi e agli applausi che scrosciarono, quando fu scoperta la lapide che additava ai posteri il nome del generale. Per tutto il tempo, rimasero ritte al centro della piazza, come nella postura di un goffo attenti militare; la loro inquietudine fu ancor più manifesta, quando, al termine della cerimonia, senza salutare nessuno, fecero un rapido dietrofront verso casa.
Accadde cinque giorni dopo. Una di loro fu vista aggirarsi la mattina presto nella stessa piccola piazza e andare a distendersi sul verde stinto di un’aiuola. Strepitava, invocando a gran voce il nome di suo padre. La bava alla bocca, gli occhi sbarrati, ansimava tutto il dolore che la rodeva e scagliava ingiurie, che avremmo detto sconosciute a quelle labbra, contro i primi passanti che attoniti si avvicinavano all’aiuola.
“Me lo avete rapito voi, voi! Ridatemi mio padre! Non è morto come avete scritto su quella lapide! E’ tutto falso!”
Con alte grida, la donna tentò di ribellarsi agli infermieri e ai vigili urbani che la caricarono sull’ambulanza. Fu ricoverata nella clinica psichiatrica che, dal verde delle prime colline, vigila e domina la nostra città.
Risultò arduo ai medici spiegare a sua sorella che la diagnosi era da ritenersi assai grave. Si trattava, le dissero, di un delirio paranoide che andava inesorabilmente strutturandosi, forse per dar luogo a un’infausta forma di schizofrenia.
“Mia sorella è sempre stata bene, - ripeteva ostinata agli psichiatri - non potere tenerla qui fra i matti.”
Al momento della dimissione, vennero fatte raccomandazioni alla donna, perché seguisse le cure farmacologiche e si presentasse ai controlli in ambulatorio. Tutto vano. Sua sorella la travolse nel vortice soffocante delle proprie attenzioni e allo psichiatra del servizio che telefonò per avere notizie rispose brusca che la paziente, solo grazie al suo fervore, stava lentamente guarendo da tutti i guasti che in clinica le erano stati provocati. Le due donne ripresero le passeggiate e mostrarono il lutto per un anno. Nella piazza intitolata al padre non tornarono più.
La tragedia ebbe inizio durante l’estate. Al ritorno dalle ferie, i più attenti fra i curiosi che stazionavano lungo il corso nelle sere ancora calde, ma già odorose delle imminenti foschie autunnali, notarono che le gemelle non erano più riapparse. Varie ipotesi si intrecciarono. Parve inverosimile che fossero partite per un viaggio, tanto più che qualcuno asserì di averle scorte spesso durante l’estate sfilare nella torrida via deserta. I più audaci si spinsero fino al villino per sbirciarne le finestre. L’antica casa apparve tranquilla, il giardino curato come sempre, i due ippocastani eretti al loro posto come sentinelle a guardia del portone. Anche le finestre del piano terra erano regolarmente illuminate. Nulla, insomma, che facesse presagire qualche cambiamento. Si pensò a una nuova stranezza delle due anziane zitelle: a quell’età da due donne sole ci si poteva attendere di tutto.
La novità giunse, invece, la settimana successiva, il venerdì, col treno regionale delle diciannove e quindici, che ogni sera dal capoluogo riporta in città una schiera di pendolari. Fu Anselmo, studente in medicina, a informare tutti noi. Una delle due sorelle era ricoverata in clinica medica, il reparto universitario presso il quale Anselmo era interno. Si trattava della sorella che era stata ricoverata in clinica psichiatrica, così era scritto nell’anamnesi. Ora si trovava in ospedale, perché da qualche settimana il suo addome aveva cominciato a gonfiarsi e a crescere a dismisura. Era stata posta diagnosi di ascite tumorale: nel suo ventre si era accumulato un liquido maligno che continuava a gonfiare quel corpo ormai sformato dagli anni. I medici ritenevano opportuno un delicato intervento chirurgico che avrebbe portato un po’ di sollievo all’anziana donna senza, però, guarirla dal male. Stupiva Anselmo il fatto che l’altra gemella non si fosse mai recata in ospedale non solo a trovare la sorella, ma anche a rivendicare di poter salvarla un’altra volta dai medici.
Vedemmo spuntare di nuovo le sagome delle due gemelle al limitare dei semafori il lunedì sera. Ci guardammo sconcertati e a lungo le scrutammo. Non ci fu possibile individuare quale fosse la sorella malata, perché entrambe, per il rischio di un temporale che si annunciava con forti tuoni, indossavano un largo impermeabile che celava le loro forme. Ci parve di scorgere sul loro volto un’espressione soddisfatta come di chi era sfuggito a un destino inesorabile e ne andava fiero. Con la solita andatura, recando in mano ombrelli a identici fiorami, conclusero la passerella e scomparvero dalla nostra vista.
Attendemmo con frenesia il venerdì sera per interrogare Anselmo. L’amico venne al punto di ritrovo sul corso direttamente dalla stazione con la pesante borsa da viaggio. Durante la visita del lunedì, ci disse, i medici, giunti al letto della malata, avevano constatato che il gonfiore addominale era improvvisamente scomparso. Ci fu una raffica di domande. Imperturbabile, la paziente spiegò di essersi accorta di un certo miglioramento già dal giorno precedente. Era convinta che quell’acqua, parlando con rispetto, doveva averla tutta urinata. Ora, se a loro non dispiaceva, sarebbe tornata volentieri a casa. Fu eseguita un’ecografia che confermò la misteriosa guarigione. La notizia fece il giro dell’ospedale. I medici borbottarono qualche frase sugli eventi inspiegabili anche per la moderna medicina. Lasciando il reparto, la donna lanciò una lunga occhiata ad Anselmo: l’unico lì dentro che poteva spiegare il segreto di quella apparente guarigione miracolosa.
All’inizio di ottobre la sorella miracolata peggiorò rapidamente e nel giro di una settimana morì. Il dottor Nori, medico di famiglia, ci disse che contro il tumore non esistono miracoli. Vedemmo ancora la sorella superstite aggirarsi lungo il corso la sera. Non aveva perso l’andatura tronfia, ma il suo incedere cominciava a mostrare i segni di un declino inarrestabile.
Da anni ormai non abbiamo sue notizie. Nessuno l’ha più vista sfilare al tramonto; forse neppure i curiosi sul corso, che pure le dedicarono molta attenzione, la nominano più. A qualche raro ciclista, che passi a tarda sera lungo il cupo viale di periferia, accade ancora di udire, talvolta, le note un po’ meste di un piano che esegue una sonata a due sole mani.

(1992)

 

Pierluigi Moressa medico psichiatra, membro ordinario SPI, giornalista pubblicista, è attualmente referente della cultura per il Centro Adriatico di Psicoanalisi. Ha pubblicato numerosi saggi in tema di storia, arte,
letteratura. Vive e lavora a Forlì.

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