"Misce stultitiam consiliis brevem:
dulce est desipere in loco"
Orazio
Nel chiuso grigiore di quella mattina di novembre, il nuovo addetto alla nettezza urbana, l'"indiano" per i colleghi, a causa dei capelli lunghi e untuosi legati in una coda di cavallo, era al suo primo giorno di lavoro lungo la strada che costeggiava l'ospedale psichiatrico. Immerso nei suoi pensieri e un po’ intirizzito dal primo freddo, fu colto di sorpresa, credendosi solo, da una voce di cui ignorava la provenienza.
"Più in basso, più in basso!"
"Come?" - fece guardandosi intorno.
"Sì ecco... lì! Sotto il marciapiede". Disse il "professore", indicando con la mano il punto dove doveva ramazzare.
Non capì subito chi, dall'altra parte della rete di recinzione, stesse dandogli quegli ordini così precisi e fermi.
"Neque tum solis rota cerni lumine largo... Conosci Lucrezio?"
"Chi?"
"Lucrezio! ... Ma, lasciamo perdere! Che ne sapete voi poveri pazzi della Cultura!... Beh, che fai? ti fermi?... Su, su! Al lavoro!"
"Cavallo pazzo", così veniva talvolta chiamato per quelle rughe profonde sul volto giovane ma già così scavato, appoggiato al manico della scopa di saggina, lo guardava spaesato da dentro la sua lacera e maleodorante tuta blu, cercando di raccapezzarsi.
Il "professore", uno dei cronici ricoverato da quasi trent'anni in quella cittadella isolata dal mondo, aveva, ai suoi occhi, un aspetto curato. Se ne stava seduto, con le gambe accavallate, su una panchina di marmo, pochi metri al di là della rete, ultimo baluardo eretto dalla società dei "sani".
La magrezza del viso era accentuata da un pizzetto bianco. Un cappello dalla forgia antica, a tese larghe, nascondeva i residui capelli, mentre dietro un paio d'occhialetti, dalla montatura dorata, in equilibrio sulla punta del naso, si muovevano due occhi vispi d'un azzurro slavato. Solo una lente rotta, rigata da una linea di frattura, ed un vecchio papillon inclinato, rompevano l'immagine di equilibrato rigore.
Dopo avergli gettato, da sopra gli occhiali, un ultimo sguardo di superiore distacco, il "professore" riprese la sua lettura a voce bassa, intercalata da pause e sorrisi ammiccanti alla segreta saggezza del testo.
Vedendosi di colpo ignorato, lo spazzino riprese a pulire il marciapiede, rimuginando tra sé. Quando, poco dopo, alzò lo sguardo, l'altro era sparito.
Il giorno successivo, nonostante la nebbiolina umida del primo mattino, il "professore" stava lì, riempiendo, con le sue letture erudite, il silenzio del parco, rotto appena dal cinguettio di qualche pettirosso.
Le foglie dei platani, come sempre in autunno inoltrato, tappezzavano i viali dell'ospedale e la strada antistante di un manto giallo ocra.
Quando l'"indiano", col suo cappello da ciclista con la visiera all'indietro, arrivò, metro dopo metro, a spazzare il marciapiede davanti la panchina di marmo, l'altro lo fissò interrompendo la lettura.
Come fulminato da quello sguardo inquisitorio, lui, timido per natura e facilmente colpevolizzabile - “Salve!" - disse timidamente con un leggero inchino del capo.
"Quantos tum genitus..." - riprese l'altro indifferente per interrompersi poi di colpo con un: "Siamo in ritardo!"
"Sì...sì, lo so! ma sa...i bambini".
"Perchè lei ha dei figli?" - disse il "professore" alzandosi in piedi, tenendo il libro dietro la schiena.
Degnato di tanta attenzione, l'altro si avvicinò, infilò le sudice dita della mano tra la rete e: "Beh ...sì! veramente ho quattro figli ".
"E allora li faccia studiare!" - intervenne l'altro imperioso, col dito della mano alzato - "Così, almeno loro, potranno entrare qui dentro: nel mondo del Sapere!"
"Certo ...certo!"
"Beh...arrivederci!" - disse il "professore", toccandosi il cappello in segno di saluto - "Mi aspettano per la lezione".
Girò incamminandosi per il vialetto che s'inoltrava nel parco verso l'ospedale, continuando a ripetere: "Li faccia studiare! Il latino! Soprattutto il latino!". "Cavallo pazzo" rimase fermo dov'era, ripetendo a bassa voce "il latino, il latino", felice solo del fatto di poter sentire la propria voce nominare quella parola.
Da quella mattina e per tutto l'inverno arrivò puntuale. Pur consapevole che l'altro fosse un ricoverato, sviluppò nei suoi confronti un rispetto ammirato, gratificato dalle attenzioni che cominciò a mostrare verso di lui.
Passo dopo passo il "professore" gli svelò l'architettura del proprio pensiero. Spesso ripeteva: "Misce stultitiam consiliis brevem! Mescola alla saggezza un po’ di follia!" Frase che lo rendeva, ai suoi occhi ingenui, ancora più interessante per la consapevolezza, pensava, del proprio stato.
Un giorno arrivò persino a svelargli il "segreto" di quel posto isolato, costruito, secondo lui, per proteggere la Saggezza dal Caos dell'ignoranza. Quella rete di recinzione era il "confine" che solo alcuni eletti potevano varcare. Era a loro che lui elargiva il suo sapere in dotte lezioni che si svolgevano nella camerata verso il tramonto.
"Certo non tutti gli allievi sono preparati" - si lagnava talvolta alzando le spalle – "Ma col tempo..."
L'erudizione latina la faceva, comunque, da padrona nei loro incontri: mentre da dietro la rete l'uno leggeva con voce enfatica l'Alma Venus o un passo delle Bucoliche, l'altro annuiva, perso nella bellezza dolce di quella lingua misteriosa.
Quando poi leggeva in metrica, l'"indiano", sintonizzato al ritmo degli esametri, ramazzava con uno stile nuovo che seguiva, passo passo, gli accenti e le pause.
Sul finire dell'inverno poi il "professore" cominciò ad impartirgli qualche prima forma di erudizione latina. A primavera conosceva così già l'accusativo e l'ablativo ed all’inizio dell'estate coniugava già "lupus, lupi..."
Fu con sua grande sorpresa che, da una mattina di luglio, il discepolo non trovò più, al mattino, il suo illuminato interlocutore.
Quell'estate fu caldissima, ramazzare l'asfalto che il sole quasi scioglieva nelle ore più calde, era per lui insopportabile. Spesso rimpiangeva quella presenza, che lo aveva fatto entrare in quel mondo ineffabile, le cui porte erano ormai chiuse senza quella voce.
Quando ormai aveva cominciato a non pensare più a lui ed il grigiore del suo lavoro gli aveva ormai fatto dimenticare gerundio e genitivo, un mattino di ottobre, lo rivide con sorpresa dietro la rete.
"Salve professore!" - gridò da lontano, ma dato che non gli rispondeva, lasciò cadere la ramazza e si aggrappò alla rete, che mai, come quella volta, avrebbe voluto aprire.
Con un certo stupore, al quale sopraggiunse lo sconforto, vide che l'altro non sembrava accorgersi di lui. Il suo aspetto era trasandato: il cappello aveva assunto una posizione stramba, tenuto all'indietro a mostrare la fronte piena di rughe. Il pizzo si era ormai unito ad una barba incolta ed ispida. Gli occhi, spenti, vagavano in un vuoto di percezione, senza fermarsi su nulla, come un gabbiano sul mare che non trovi la terra ferma su cui poggiare le zampe. Gli occhiali avevano perso la lente fratturata ed i pantaloni, senza più la cinta, sembravano di almeno due misure più grandi.
"Professore! Ma che hai! Che t'è successo?... Ma mi sente? Mi riconosci?"
"Il male... il male..." - ripeteva l'altro sottovoce.
"Il mare? È stato al mare professore? E come è andata? ... Le è piaciuto? Eh... professore?"
Vedendo l'altro non rispondergli, piano piano l' "indiano" tornò, a testa bassa, alla sua scopa, la raccolse da terra e riprese a ramazzare in silenzio.
Quello che seppe da "Ercole", un infermiere energumeno di un metro e novanta, addetto al "contenimento" dei pazienti, era che il "professore", prima dell'estate, era scivolato in una delle sue periodiche crisi maniacali. In piena notte l'avevano trovato mentre si aggirava lungo il corridoio vestito con un semplice lenzuolo, portato a mo’ di tonaca romana. Citava Cicerone che tuonava contro Catilina, svegliando, con la sua voce inquisitoria, tutti i ricoverati del terzo padiglione.
Riportato a forza nel suo letto, fu convinto che Catilina era ormai stato arrestato e non destava minacce per lo Stato. Ma la notte successiva la requisitoria riprese e stavolta gl'infermieri lo dovettero legare al letto, come non facevano da tempo. Il "professore" si dimenò invocando, inutilmente, in suo aiuto, lo spirito di Seneca.
Il medico di guardia fu avvisato dell'accaduto ed intervenne con un Valium in vena, ma, quando la notte dopo, il problema si ripresentò, il Capo del reparto pianificò un nuovo ciclo di elettroshock.
Quello che non erano riusciti ad ottenere i sicari di Catilina, l'ottenne la corrente a duecentoventi volt.
Dopo una "batteria" di dieci applicazioni, la mente del "professore" era sta lavata da ogni persecuzione e da ogni voglia di reagire.
Sconsolato per la perdita dell'altro, lo spazzino cominciò ad occuparsi soprattutto dell'ala ovest dell'ospedale e, solo raramente, riprese a scopare il marciapiede dove, talvolta, gli capitava di vederlo ancora, in silenzio, perso nei propri pensieri.
Con l'anno nuovo, fu poi trasferito e del "professore", di Virgilio e della consecutio temporum si dimenticò per sempre.
Fabio Castriota
Psichiatra, Membro Ordinario con funzioni di training della SPI e attuale Segretario Scientifico del Centro Psicoanalitico di Roma.
Porta avanti da anni diversi filoni di ricerca nel campo dello studio del sogno, del rapporto mente/corpo, delle neuroscienze e della psicoanalisi nel suo confronto con l’arte.
Fra i suoi libri “Il corpo nella stanza di analisi”, “Freud, lettere da Roma”, “La SPI, un secolo di storia”.
Col Centro Sperimentale di Cinematografia e altri enti culturali organizza da anni il Festival Cinemente e diverse rassegne centrate sul rapporto tra psicoanalisi e arte.
È Membro della “Commissione dell’IPA sui Rifugiati”
In campo letterario ha vinto il premio dell’IPA “The analyst as storyteller”.
Ha pubblicato il racconto “Ice Rock” nel 2020 e il romanzo “Frammenti in ombra” nel 2021.