Si erano da poco trasferiti in quella città che suo marito non amava, per questo aveva scelto, diceva, un appartamento vicino alla stazione ferroviaria: così sarebbero stati sempre pronti ad andarsene, appena ce ne fosse stata l'occasione.
L'edificio dove avevano trovato casa era nuovissimo, appena terminato, come tutto il quartiere intorno, frutto di un piano regolatore anni '60, avveniristico e per nulla rispettoso del passato. Condomini nuovi di zecca erano sorti al posto di quello che era stato uno storico sito, attraversato dal fiume, il quartiere Conciapelli**, fatto di casette minuscole e povere, abitate da coloro che conciavano appunto le pelli e dalle loro famiglie, dove ogni pietra parlava di vite di lavoro e fatica, di gioie e sofferenze elementari, ma non per questo meno intense.
Dalla finestra della cucina del suo nuovissimo appartamento, non vedeva altro che auto parcheggiate, uffici, cemento e vetro. Sulla sinistra, però, l'occhio veniva forzatamente attratto da uno spiazzo quadrato, di non grandi dimensioni, forse cinque per cinque, che uno sbalzo perimetrale abbastanza alto rendeva impraticabile per gli automobilisti in cerca di parcheggio. A metà tra le costruzioni recenti e il vecchio muro di cinta, si delimitava così una sorta di stanza scoperchiata, resto incongruo di un'epoca destinata a scomparire dalla memoria urbanistica della città.
Quel riquadro vuoto di terra battuta l'aveva affascinata fin dall'inizio e si trovava talora a fantasticare se fosse stato lasciato per caso o per forza, volutamente o in conseguenza di un atto mancato dell'architetto preposto al progetto. Un residuo senso di colpa per l'antico quartiere raso al suolo?
Un'aiuola con un albero al centro le sembrava una soluzione improbabile in quel mondo di cemento: le poche aiuole esistenti servivano al massimo a definire piazza quel luogo che delle gloriose piazze italiane ben poco aveva, a parte il nome di uno statista famoso!
Un pomeriggio affacciandosi per caso e guardando verso lo spiazzo, l'aveva notata: ritta al centro di quel bizzarro riquadro stava una donna, o piuttosto un ammasso informe di vestiti, circondato da sacchetti di plastica. La donna parlava da sola ad alta voce.
Le venne l'idea che la “stanza” senza tetto e pareti avesse trovato la giusta inquilina e cominciò inavvertitamente ad aspettarla. Quando non la vedeva comparire alla solita ora, con sollievo tornava alle sue attività. Altrimenti restava inchiodata alla finestra, unica spettatrice in una folla di auto in movimento, intenta a decifrare le parole e a comprendere il segreto di un racconto, e forse chissà a scoprire il mistero di una vita finita così miseramente.
Non percepiva le parole scandite in un dialetto veneto stretto, a lei poco comprensibile, perché la voce gracchiante e acuta emergeva solo a sprazzi in mezzo al frastuono del quartiere. Giorno dopo giorno, però, cominciò a riconoscere le cadenze di un monologo coatto che si ripeteva sempre uguale, di una messa in scena che aveva la parvenza di un dramma antico, che occupava la mente della anziana donna.
Arrivava quasi ogni giorno intorno alle quattro del pomeriggio, si sedeva al centro di quella stanza scoperchiata di chissà quale casa abbandonata, che alla donna doveva apparire, però, come un luogo familiare, isolato dal resto del mondo e abitato da fantasmi a lei sola noti.
Dopo avere sistemato i sacchetti in un ordine bizzarro, ma non casuale, cominciava a spogliarsi lentamente, uno strato dopo l'altro; non finivano mai gli indumenti che si toglieva, impossibile contare quante fossero esattamente le maglie e le gonne di cui si ricopriva, per sentirsi protetta, lei "Spaventapasseri" vivente, involontaria citazione di un film famoso.
Alla fine le rimaneva addosso uno strano, ormai informe reggiseno, che in origine doveva essere stato bianco, e una sottoveste nera, dalla vita in giù, di un tipo che le donne indossavano anni prima.
Così spogliata, qualunque fosse la temperatura, cominciava a fare gesti simili a quelli che la spettatrice aveva visto fare alle donne, nelle cucine delle case di campagna, quando verso sera, prima che gli uomini tornassero dai campi, nel breve intervallo di quiete tra la fine dei lavori della giornata e la preparazione della cena, si lavavano le braccia, le ascelle, i seni generosi, per poi rivestirsi e rassettarsi i capelli.
La donna sembrava ripetere una scena simile e, mentre simulava l'ipotetico lavacro casalingo, iniziava la sua rappresentazione: a bassa voce sembrava fare la cronaca della sua giornata a un interlocutore che forse era entrato dopo di lei e rimaneva fermo alle sue spalle, verso il quale lei volgeva di tanto in tanto lo sguardo.
Man mano che il racconto procedeva, la voce si faceva più roca e stonata, e, un po' alla volta, la donna sembrava impegnata a difendersi, quasi urlando, con grida strozzate e a tratti più acute, da qualcosa di crudele, ingiusto.
Da cosa? da un'accusa vergognosa, insopportabile, che la presenza le muoveva? O da qualcuno che si avvicinava?
A lei affacciata giungevano solo suoni spezzati, schegge lanciate verso le sue orecchie curiose, che spiavano quella cerimonia segreta, di cui non afferrava il senso compiuto.
Col tempo ebbe anche l'occasione di osservarla con più attenzione, incontrandola sotto casa.
Il corpo risultava informe per l'accozzaglia di vestiti dai colori sgargianti che portava sovrapposti, ma si intuiva ancora snello.
Il viso era, come il corpo, ricoperto di uno strato spesso di cipria o di fondo tinta non steso uniformemente.
Era facile immaginare che anziché dare un nuovo strato di trucco dopo avere tolto quello precedente, ne aggiungesse ogni volta un altro. Così aveva finito per occultare un ovale altrimenti delicato sotto una maschera di creta essiccata dal colore rossastro, che sottolineava il solco profondo delle rughe.
Spiccavano, in quella tragica devastazione, due labbra sbavate di rossetto di infima marca e gli occhi, due fessure bistrate tutt'attorno, di un azzurro intenso, profondo, guizzante.
Chissà con quali mozziconi di rossetti e belletti, trovati rovistando nella spazzatura, si imbellettava e in che frammento di specchio si specchiava!
Non era alta, ma si poteva immaginare che fosse stata un tempo ben fatta e di proporzioni aggraziate. Camminava con un passo forzatamente mascolino, sottolineato dalle scarpe maschili grandi per il suo piede, e da un movimento eccessivo delle spalle, come volesse imitare un gigolò anni '30 e così affermare la sua noncuranza verso tutto e tutti.
Ciò non eclissava del tutto la femminilità di certi scatti o scarti improvvisi, come a disorientare un ipotetico interlocutore. Stereotipie simili le era capitato di vederle negli ospedali psichiatrici, che la donna doveva avere frequentato a lungo, prima della legge 180.
Non ebbe mai occasione di parlarle, del resto nulla faceva pensare che le avrebbe risposto o che lo desiderasse, anzi, sembrava che sfuggisse qualunque forma di contatto e di scambio verbale.
Dopo averla vista per mesi, un giorno non comparve e neppure il giorno seguente e quello dopo. Così come era iniziata, la loro tacita familiarità finì. E, un po' alla volta, lei se ne scordò.
Dalla piazza dove abitavano, attraversando il Corso, si raggiungeva un'altra propaggine del vecchio quartiere, lì rimaneva qualche casetta bassa, seminascosta tra condomini nuovi fiammanti e le prime banche imponenti che sarebbero diventate tipiche di quella zona della città.
Sopravviveva in un vicolo chiuso una piccola trattoria a conduzione familiare, una qualche “Da Maria” o “Dalla Mora”, cucina casalinga e prezzi modici. Lei e il marito vi andavano spesso, in particolare nella bella stagione, quando l'oste esponeva dei tavoloni con panche lunghe, ai quali ci si sedeva promiscuamente.
Una sera erano lì insieme ad un gruppetto di amici, i tavoloni zeppi di gente che si godeva l'aria tiepida e il piacere di mangiare fuori al fresco. A una certa ora, finito di servire la cena, l'oste, come faceva talvolta, comparve con una vecchia fisarmonica e cominciò a suonare motivi popolari.
E poco dopo la vide sbucare dal buio dove doveva avere lasciato i suoi sacchetti.
Non era diversa da come la ricordava, imbellettata, rivestita di strati diversi, forse solo più
leggeri, avanzava facendo passi di danza, con le braccia sollevate sul capo a fare tintinnare i braccialetti colorati che portava numerosi ai polsi. Dai tavoli si alzarono commenti scherzosi verso quella figura triste, ma lei non sembrava udirli, ballava sorridendo persa in una sua fantasia, ferma in chissà quale tempo magico.
Forse quello mai del tutto compreso che è la giovinezza?
La storia che non aveva mai potuto ascoltare né immaginare per intero, in quell'attimo le apparve in tutta la sua infelicità: voleva solo danzare e un maleficio le aveva tarpato le ali! Era rimasta sospesa in qualche incantesimo, che ora per un momento riviveva in quella danza patetica.
Un'adolescenza mai vissuta, sfociata in una maturità impossibile aveva forse creato quella creatura bizzarra senza tetto né legge, una scheggia di follia, in mezzo alla apparente normalità di un quartiere commerciale di una città padana, che una giovane donna appena sposata aveva per caso osservato dalla finestra della sua casa nuova di zecca.
Quella sera fu l'ultima volta che la vide, pur continuando ancora per anni a vivere nella stessa città.
Qualche volta sporgendosi alla finestra pensava a lei: dove poteva essere, era ancora in giro per la città con i suoi sacchetti, era morta?
E in quel caso dove era sepolta, dove sono le tombe degli homeless, quali nomi sono scritti sulle loro lapidi, quali epitaffi? In quale oblio svaniscono quelle vite indecifrabili, che per sopravvivere a memorie impensabili, sono costrette ad azzerare ogni desiderio e contatto umano?
**Un quartiere della città di Padova
Paola Golinelli è analista con funzioni di Training della SPI e dell’IPA. Già membro dell’IPA Committee di Psychoanalysis in Culture, ha pubblicato il volume Riflessioni psicoanalitiche sulla scrittura, il cinema e l’arte (Franco Angeli, 2021), uscito presso Routledge (2020) con il titolo Psychoanalytic Reflections on Writing, Cinema and the Arts.