I. Il padre accosta la macchina al marciapiede vicino al liceo (vicino, non davanti altrimenti Mariano si vergogna), Mariano scende, ha la solita faccia impenetrabile, il padre lo guarda appena.
“Ma sto’ ragazzo non ride mai..” pensa per un attimo
“E sta pure tutto curvo… avrà due libri in quello zaino moscio..” .
Sente una cosa dentro, una domanda muta che per un momento fa male, ma è tardi, e deve ancora trovare parcheggio.
La preside arriva così presto, accidenti!, il bidello non può arrivare dopo di lei.
Parcheggia, scende, si avvia a scuola, cammina un po’ curvo e ha la solita faccia impenetrabile.
Intanto Mariano si ferma fuori scuola.
Mannaggia al lavoro del padre!
Arriva a scuola quando non c’è nessuno ed è ancora più difficile per lui.
Quando arrivano i ragazzi e comincia il vociare che poi diventa un trambusto a 100 decibel, Mariano trova un modo per mimetizzarsi, non sente il silenzio dentro, tra tante voci fa finta che ci sia la sua e finisce quel disagio tremendo di non sapere la sua voce e i suoi pensieri e, poi, le gambe e le braccia e il come-sarà-la-mia-faccia-adesso.
In classe scivola nel suo banco, è in fondo all’aula e vicino a una colonna, in certe posizioni dalla cattedra proprio non ti vedono. Per questo è un banco molto ambito ma se c’è Mariano nessuno si siede vicino lui. Manco a dire che i compagni lo emarginano o che lo prendono in giro come Rotelli
che è ciccione e porta i compiti con le macchie di sugo. Solo non lo vedono o, se lo vedono, stanno alla larga ma Mariano non ha ancora capito perché.
Certe volte ha pensato che si accorgono che esiste solo quelle rare volte che è assente: quando torna in classe dopo l’assenza, legge negli occhi di quello che ha preso il suo banco lo stupore di vederlo comparire e la delusione che dolorosamente lo colpisce per il suo rientro che lo costringe a sloggiare.
“Ma tu eri assente….”.
Si chiama Mariano Massimo, Mariano di nome e Massimo di cognome.
Mariano: ma che nome è? Nessuno si chiama così, sembra un nome che arriva dal passato e sa di devozioni antiche, un nome un po’ da prete.
E poi Massimo di cognome: in tutta la sua carriera scolastica (tutto bene, mai bocciato, anche se forse, agli scrutini, i professori si chiedono ogni volta: “Ma chi è Massimo? Ah! Quello dell’ultimo banco..” ), non c’è stato uno, uno solo – insegnante o compagno – che non gli abbia chiesto, prima o poi, qual è il nome e qual è il cognome; tutti lo hanno sempre chiamato indifferentemente
Mariano o Massimo e ogni tanto anche a lui viene il dubbio (o il desiderio) che Massimo sia il suo nome di battesimo.
E le cose non vanno meglio a casa. Con l’abitudine di abbreviare sempre tutto, si chiamano tutti Ma: Ma per Mariano, Ma per Matteo (il padre), Ma per mamma, Ma per Margherita. Prima almeno c’era Lola, ma questo lo dico dopo. Comunque, bisogna dire che nessuno si sbaglia e nessuno risponde se non è lui Ma in quel momento. O forse, bisogna dire, non è che si chiamino tanto.
Mariano ha 15 anni, quasi 16, fa la seconda liceo scientifico. I suoi non gli hanno chiesto cosa voleva fare dopo le medie (meglio! tanto lui non avrebbe saputo cosa rispondere), il liceo scientifico è in città, vicino alla scuola media dove il padre fa il bidello così la mattina possono andare insieme. Il padre dice che se fa il liceo dovrà per forza fare l’università e allora diventerà qualcuno, non come lui che ha fatto ragioneria e poi si è ritrovato a fare il bidello.
Non è che faccia tanta differenza, lui non ha problemi particolari, deve studiare e studia ma anche si annoia molto, nessuna materia lo interessa davvero.
E poi sì, qualche problema c’è: in italiano. La prof dice che non si possono fare sempre i temi storici o quelli che ti serve solo di avere studiato.
Uno sguardo su sé stesso, un pensiero, un sogno, un desiderio…
“Ma, Massimo, tu – proprio tu - dove sei?”
Mariano intuisce qualcosa ma non capisce veramente quello che la prof intende.
O forse non vuole capire perché è dove fa male.
Il dove-sei-? galleggia in una scritta immaginaria che gli dondola davanti agli occhi “… mariano… massimo… massimo… mariano…. ”. Il dovesei-? starà nei puntini puntini in mezzo che sono un vuoto, sono un niente?
“Cazzo vuole questa qui… dammi ‘sto sei e non mi rompere” pensa, infastidito
dal fatto che qualche compagno intanto si è girato a guardarlo e ritorna
il come-sarà-la-mia-faccia-adesso.
II. Non è sempre stato così. C’è stato un tempo (ma quanto tempo fa era?) in cui era un bambolotto tondo, amato da sei occhi sorridenti sempre su di lui: papà, mamma e Lola, sua sorella, riccioli rossi e argento vivo addosso, già una donnina di tredici anni quando lui è venuto al mondo, che ha giocato a mamma e figlio con il fratellino appena nato, molto meglio delle bambole che già non le interessavano più.
Ma mentre lui assumeva la forma di bambino (un ometto di 5 anni), Lola argento vivo gli ha regalato la sua meravigliosa scatola di colori ed è andata via. E si è portata via la vita di tutti. Certo era un pezzo che si sentivano sempre le urla dei litigi tra mamma e Lola, e papà e Lola, e mamma e papà. Mariano scappava fuori, andava sul prato, dove le urla non si sentivano più. Certe volte, però, gli rimanevano dentro, certe volte le sentiva anche quando non c’erano come se si fossero incollate dentro alle orecchie.
Dopo è cambiato tutto, mamma aveva sempre la faccia lunga, papà mangiava un boccone e scappava in campagna, dall’orto e dalle galline. Ogni tanto portava con sé Mariano ma poi se lo dimenticava, troppo affaccendato con i suoi lavori. Mariano trovava il modo per passare il tempo, giocava con i pulcini o disegnava sullo sterrato davanti al pollaio. Cercava di star dietro al padre ma si accorgeva di infastidirlo e allora girellava da solo. Una volta, sbirciando da lontano, lo aveva visto di nuovo sorridere mentre carezzava le foglie di un’insalatina che cresceva a meraviglia: il padre si era accorto di essere osservato, lo aveva guardato di sfuggita e subito era tornato serio come se si vergognasse della sua soddisfazione di prima. Mariano aveva fatto finta di guardare da un’altra parte.
L’unico che gli sorrideva sempre era il nonno, non si capiva niente quando parlava e forse lui non capiva quando gli altri parlavano a lui. Quando guardava Mariano, però, lo sguardo si faceva dolce dolce, sembrava che lo carezzasse sulla testa anche con le braccia smagrite lunghe sul lenzuolo.
Dormiva nella stanza con Mariano e ormai erano sintonizzati: il vecchio non si svegliava quando il neonato frignava di notte, il piccolo si addormentava con tutti i rumori, il russare e l’ansimare del nonno.
Dopo che Lola era andata via, Mariano aveva provato a chiedere a mamma e papà: “Ma Lola quando torna?” … ”Lola dov’è?”. Papà si incupiva, mamma scappava via a nascondersi perché le uscivano le lacrime. Mariano non capiva ma si spaventava non solo perché pensava di essere cattivo a fare quelle domande ma anche perché, dopo, sentiva che diventava più grande una cosa dentro che faceva male, certe volte pensava che un gigante con i manoni usasse il suo cuore come antistress.
Per un po’ era andato dal nonno: “Nonno, quando torna Lola?”. E nonno non capiva nulla, ma lo guardava sorridendo e le mani del sorriso del nonno mandavano via con la loro carezza i manoni del gigante antipatico.
Poi erano passati gli anni e Mariano aveva trovato un sistema infallibile che mandava via il dolore. Aveva inventato una corazza di vetro dentro cui si poteva rifugiare. Il vetro era così spesso che non gli arrivava più nulla, né rumori, né urli, né silenzi pesanti. Il suo viso era diventato imperscrutabile, la sua espressione sempre distante, si sentiva galleggiare come gli astronauti nello spazio ma la sua famiglia era laggiù, lontano lontano e niente di quello che accadeva poteva più toccarlo.
Anche il nonno un giorno è andato via, è venuta l’ambulanza (mannaggia, lui stava a scuola e non l’ha vista!), l’hanno portato in ospedale, ha detto mamma.
Dopo qualche giorno mamma, muta, con la faccia di pietra di chi segnala che alla prima parola succederà una catastrofe, ha smontato il letto del nonno e lo ha portato via. Anche i giorni dopo non ha detto nulla ma la sua espressione era ancora più triste del solito. Mariano ha messo la corazza di vetro e non ha chiesto, con la corazza la scena diventava molto distante, quasi non si vedeva più. Solo che adesso a letto la sera, in quella stanza che sembra diventata enorme all’improvviso, non riesce a usare la corazza e sente la mancanza di quello sguardo che conteneva tutto l’amore del mondo.
III. Prima della corazza e dopo la corazza, Mariano ha trovato anche un altro modo. Da subito, praticamente, ha usato le matite colorate perché Lola disegnava e disegnava, se lo metteva vicino quando le chiedevano di badargli e lui si divertiva un mondo con tutti quei colori. E tutti a dire “Ma che bravo!”, anche se aveva fatto solo quattro scarabocchi. Lola era brava davvero, invece, ma stava stretta con le matite e i fogli normali, aveva comprato fogli enormi e poi anche tele e pennelli e poi secchi di colore che sembravano le vernici delle pareti… Ma anche quelli non erano bastati. Doveva essere per quello che era andata via, i suoi disegni e i suoi colori non ci entravano più dentro la loro casa.
Quando, prima di andarsene, Lola gli aveva regalato tutti i suoi colori (che se non entravano in casa, pensa se potevano entrare in uno zaino!), MM era stato contentissimo ma presto, a confronto con le facce appese che giravano in casa, gli era sembrata una cosa di cui vergognarsi. Lui aveva cominciato a disegnare molto meglio, gli scarabocchi erano diventate immagini. Ma mamma li guardava appena e presto li buttava via come cose senza importanza o, peggio, come segnali di qualcosa di pericoloso che già aveva portato via Lola. “Gli venissero gli stessi grilli della sorella….”.
Per non vedere quell’occhiata vuota e quel lampo di paura, MM disegnava di nascosto.
Spesso scendeva in cantina. La casa era molto antica e vicino alla stanza dove papà conservava gli ziri dell’olio (non avevano tante piante ma bastavano per l’olio di casa e per venderne un po’ a qualche amico in città e per regalarlo alla preside), partiva un corridoio che portava ad altri ambienti ingombri di tutto. Il corridoio era diventato un cunicolo per l’ammasso di scatoloni, mobili vecchi, bauli, pile di vecchi libri di scuola. Praticamente nessuno metteva più piede oltre la stanza degli ziri e per tanto tempo MM ne aveva avuto paura. Ma intorno ai nove anni la curiosità era diventata più forte della paura e il dopo-cunicolo era diventato il suo rifugio, il suo regno, il suo nascondiglio. Si era sistemato le cose e raccoglieva in una vecchia scatola i suoi disegni, anzi spesso andava lì a farli e lì li lasciava: meglio niente piuttosto che l’indifferenza o il lampo di paura degli occhi di mamma.
I disegni nel tempo erano diventati diversi, a volte erano schizzi o abbozzi di qualcosa, a volte erano solo macchie di colore. Da qualche tempo questi erano quelli che gli piacevano di più perché raccoglievano cose di dentro che MM non sapeva dove mettere, era come un modo per svuotare sui fogli il nero o il rosso o il blu che lo riempivano. Dopo era più facile mettere la corazza.
Pochi giorni fa ha scoperto che ci sono ancora i barattoli grandi di vernice, ha trovato il nero, puzzava pure un po’. Ma lui si sentiva così triste, così nero che ha fatto posto davanti a una parete e ha cominciato a farla tutta nera. È grande la parete, accidenti!, e forse la vernice non basta. Ma quando alla fine la guarda, pensa che va bene, è quello che ci voleva, le braccia gli fanno male ma un po’ del nero dentro si è tolto, si è appiccicato alla parete.
“Ma! Dove ti sei cacciato? È pronto!”. Arriva lontana la voce di sua madre,
esce dalla porta di sotto e entra in casa da fuori. “Ero fuori” e si siede a tavola.
IV. Ogni tanto torna a guardare la parete nera, compra altro colore, il nero diventa compatto. Certi giorni ci si perde dentro, certi giorni vorrebbe spruzzarlo di tanti altri colori, immagina sfumature che non sa come fare. Ma già da un po’ quasi ci si incanta davanti, immagina forme e linee, insegue qualcosa che non riesce a mettere a fuoco, prende il pennello e poi lo lancia via, maledizione!, è come quando hai una cosa dentro, forse è fame, forse è sete, forse è qualcos’altro ma non riesci a pensare a niente che possa placare la domanda. Meglio non sentire, meglio la corazza, meglio metterla pure dentro, passare una mano di vernice nera dentro e fuori, come gli esperimenti di deprivazione sensoriale che diceva quella di scienze, pare che non si può resistere più di tanto, praticamente impazzisci.
A scuola comincia a girare voce che si fa il rave. Il rave, che poi è la festa di Spazzichini, quello del quinto, che ha una specie di azienda agricola proprio dalle parti di casa di MM. Dicono che c’è una stalla enorme distante dagli edifici principali e che lì organizzeranno una cosa che da queste parti non s’è mai vista. Dicono… ma anche non dicono, è tutto un passaparola, chat, messaggi e molte allusioni. Non c’è invito, è un rave, alla fine ci sarà tutta la scuola. Ma il vantaggio del senza-invito non è da poco e poi è, in pratica, in mezzo alla campagna, luci poche, qualche falò, musica a palla, l’idea che può succedere di tutto.
Mariano non ci va mai alle feste ma questa alla fine lo attira parecchio. Riuscirebbe ad andarci a piedi se taglia giù per il fosso e attraversa la Campanella. Può anche guardare da lontano per vedere se poi gli va, se non gli va se ne torna a casa in un baleno. Il buio aiuta. Chi si accorge se lui c’è o non c’è? Le canne te le tirano dietro dappertutto ma pare che si troverà dell’altro. Che poi è strano a dirsi, Mariano le canne le ha provate ma non
sono bastate a sentire qualcosa, ha smesso già dopo tre tiri e, poi, alla fine, costano. Meglio i colori, meglio la sua parete nera, meglio il suo posto segreto dove fa finta di essere l’ultimo essere vivente sulla terra o forse il primo dopo la catastrofe cosmica, ancora informe, una specie di ameba che non si sa se riuscirà ad evolvere.
Figurati se gli interessa l’“altro” di cui parlano. Oppure no, forse gli interessa, forse è troppa la tentazione di trovare qualcosa che magari gli restituisce qualche voglia, che forse gli dice cosa metterci sul nero della parete.
Ok, è deciso, andrà, tanto può uscire da dietro casa, manco si accorgeranno che lui non c’è…
V. Fa presto a arrivare quel sabato, nell’incertezza di andare o non andare al rave-cosiddetto-rave, Mariano ha ciondolato tutto il pomeriggio senza saper cosa fare e senza trovare pace neanche nel suo rifugio consueto.
Gli sembra che mamma e papà non hanno fatto altro che chiamarsi e chiamarlo, gli rimbombano tutti i “Maa” in testa e gli sembra che oggi non capisce neanche quando è il Ma di Mariano.
Viene sera, fa buio tardi ormai e l’aria è diventata diversa, M. si accorge che profuma un po’, la notte è più tiepida, certe volte MM si sente solo naso e pelle.
‘Notte’… ‘Notte’. Mamma finisce di lavare i piatti.
‘Notte’… e figurati se papà risponde, già dorme da un pezzo davanti alla tv.
Mariano sale in camera, aspetta.
Quando è tutto buio e silenzio, Mariano scivola fuori, è un esperto di passo felpato, uscire sul prato di notte gli è sempre piaciuto ma non gli va di spiegarlo a nessuno. Certe volte, quando era piccolo e c’era ancora nonno, lo raccontava a lui che era andato fuori, che aveva camminato nella neve d’inverno o aveva trovato le lucciole d’estate… e poi quell’estate che c’era il rospo che si metteva tutte le notti nello stesso posto e sembrava che avessero un appuntamento come due amici che si fumano insieme l’ultima sigaretta prima di andare a letto ognuno a casa sua. Nonno non capiva nulla, probabilmente, delle sue parole sgangherate, ma lo guardava con gli occhi che ridevano e lui si addormentava tranquillo.
Scende al fosso, attraversa il ponticello, sale verso la Campanella, c’è la luna, si vede bene il sentiero.
Va a passo veloce, gli viene l’affanno, non distingue se è l’allarme dei suoi passi nella notte man mano che si allontana da casa o quella specie di eccitazione che gli prende pensando a quello che sta facendo.
Sarà vero che ci sarà alcol e canne o quell’altro che hanno detto?
Mentre si avvicina comincia a sentire musica e un po’ di luci si vedono: e all’improvviso ci sta dentro, gente dappertutto che balla, e soprattutto gente dappertutto.
Nei punti più bui devi stare attento a dove metti i piedi, partono certi ‘Vaffa’… Qua e là trova roba da sgranocchiare, per fortuna ha cenato, ma bottiglie davvero ce n’è tante. Mariano se ne prende una tutta per sé ma è chiaro che non va bene, presto qualcuno gliela toglie dalle mani per attaccarsi a sua volta. Ma ne può prendere un’altra e poi un’altra…
Non c’è solo tutta la scuola, Mariano intravede facce che non ha mai visto e tanti gli sembrano proprio grandi, saranno i ripetenti del quinto. Man mano che beve però tutto gli sembra più facile e colorato, tutti gli sembrano amici meravigliosi, una ragazza lo bacia poi si accorge che ha sbagliato ragazzo ma prima di allontanarsi lo bacia di nuovo: Mariano è carino e ha un buon sapore.
Qualcuno gli porge una canna ma lui non la prende e quello gli allunga una pasticca che Mariano ingoia con un sorso della sua bottiglia del momento.
Adesso le cose si fanno difficili. Colore, calore e una specie di felicità sono intervallati da brividi e un senso di paura e una roba che viene su dallo stomaco che Mariano cerca di bloccare. Ha l’idea che se non riuscirà a trattenersi, succederà una catastrofe, una specie di rovesciarsi tutto come un calzino.
Va verso il buio, cammina per un pezzo cercando di tenere a bada lo stomaco, deve essere un fienile quello lì davanti, chissà se c’è un bagno. Scalini. Cavolo!, come è difficile salirli. Arriva in cima ma c’è una porta chiusa, niente bagno, riscendere presto, ma dove hanno messo i gradini? Mariano inciampa e comincia a rotolare giù, pensa che si farà in mille pezzi, i gradini disegnano dolorosamente gambe, braccia, spalle, schiena, sedere:
Mariano si accorge all’improvviso di percorrere, con il dolore della caduta, tutti i pezzi del suo corpo. Altro che ameba con la bocca e il culo.
Quando arriva in fondo resta immobile steso a terra, si convince che morirà lì, nel buio. Nessuno si accorgerà di lui e lo troveranno giorni e giorni dopo, insanguinato, rotto, rovesciato come un calzino visto che ha vomitato di tutto.
Si addormenta forse per un po’.
Quando si sveglia, qualcuno lo sta pulendo con una pezza bagnata. “Ma che hai fatto? Oh, sei vivo?”.
C’è una ragazza vicino a lui, lo aiuta, lo pulisce, è tutto intero anche se è indolenzito, piano piano Mariano riprende forma umana.
“Ma che stavi alla festa? Ma che ti sei bevuto?”
Lei no, non stava alla festa, era convinta di avere trovato il posto ideale per provare i suoi disegni, gli spiega che è una street artist, anzi forse dovrebbe dire una country artist perché a lei piace andare per le campagne a dipingere i vecchi muri..
“Ho trovato una cosa fantastica, vieni a vedere!”
Lo porta poco distante, c’è una casa diroccata, un po’ di muri sono ancora integri e le piante arrampicandosi fanno già i loro disegni. Ma su quelli la ragazza dipinge i suoi disegni e su uno dei muri ha disegnato un viso di donna che assomiglia tanto al suo, due occhi verdi che sembrano quelli che fissano curiosi Mariano e l’edera sopra il muro dipinge una capigliatura che sembrano i riccioli che Mariano ricorda di Lola.
Lola-country artist (chissà come si chiama davvero? Mariano si è dimenticato di chiederglielo) parla e parla, è più grande di lui evidentemente ma è intenerita da quel ragazzino che la guarda incantato e sembra bere le sue parole. A mano a mano che lei parla, pare che Mariano prenda vita, gli torna il colore sul viso, quando lo ha trovato era bianco come un morto. Poi, come se le parole di lei fossero ami calamitati che pescano nel profondo, comincia a parlare anche lui, le chiede dei colori, dei pennelli, delle vernici, se davvero ci sono i country artists.
La passione della conversazione ogni tanto diventa una carezza, una mano nei capelli, un abbraccio. E, poi, tutto il resto fino a che, dopo, riprendono a parlare, ma intanto si addormentano e le parole si spezzettano.
“E dove andrai, domani?..”
“Non so..”
“Tu che fai?”
“Io..”
“Domani…”
“Tu sei..”
VI. Quando si sveglia, albeggia. La ragazza non c’è più e neanche tutto il suo armamentario di colori e pennelli e pezze intrise di colore… . La cerca con gli occhi, è sgomento. Quando alza lo sguardo, però, ritrova il muro e gli occhi verdi di lei e l’edera-riccioli di Lola. Ha un brivido, si riavvolge nella coperta che lei gli ha lasciato, gli sembra di sentire il suo profumo, gli sale un sorriso sulle labbra, una sensazione di dolcezza.
Si sdraia sulla schiena, si stira. Ahi! Ha male dappertutto, si ricorda del volo dalla scala, si ricorda del rave.
Non si sente più la musica in lontananza, c’è solo qualche filo di fumo dove c’erano i falò.
Mariano si alza, si stringe nella coperta, fa male tutto ma può camminare, alla fine non si è rotto niente, forse solo la corazza di vetro perché adesso gli sembra di sentire un sacco di cose.
Pensa che deve fare in fretta a tornare a casa prima che si sveglino i suoi ma per fortuna oggi è domenica e dormono mezz’ora di più.
Soprattutto deve fare in fretta perché deve andare in cantina, la sua parete l’aspetta e oggi lui sa cosa vuole disegnare e sa come. Forse oggi per un momento è felice.
Livia Tabanelli è membro associato SPI/IPA, esperta b/a. Svolge la sua attività professionale sia con adulti che con pazienti in età evolutiva. Fino allo scorso anno, è stata membro del Comitato
di Redazione della rivista Richard&Piggle - Studi psicoanalitici del bambino e dell'adolescente. Ha diverse pubblicazioni di carattere scientifico nell'ambito della psicoanalisi dell'età evolutiva. Questo
racconto è la sua prima (e attualmente unica) produzione 'letteraria'.