In questi ultimi giorni mi ha preso una stanchezza strana, di ombre, una specie di malattia del pensiero. Mi trovo a chiedermi le ragioni, le mie e di chi mi è vicino, il perché abbiamo fatto le cose come le abbiamo fatte e volute. La realtà intorno mi pare tutt'a un tratto come sgonfiata, molto più semplice, molte cose meno importanti di prima.
Insieme provo una grande tristezza; ma non sono sicuro che sia sbagliato.
Il mio servo non è contento che io resti fermo a pensare; mi ha già portato lo scudo e i gambali con severa ostentazione. Non è mio compito pensare, ma combattere. E lui si sente ora colui che farà rispettare questa volontà degli dei e del destino.
Ma c'era anche la mia volontà di mezzo. Certo, io sono quello che ha potuto scegliere. E con quanta fierezza e sdegno l'ho fatto: con decisione indiscutibile.
Ma se penso a tutto il fuoco che mi reggeva il giorno in cui scelsi una vita avventurosa piena di fama, e breve, sento uno scoramento, un'inutilità, e tutto quel fuoco mi pare ardesse sul nulla.
Il servo versa l'acqua nel bacile; l'acqua scorre e si muove, senza forma, se potesse tornerebbe allo Scamandro. Sulle sue rive ieri ho visto la donna di Ettore. Per la seconda volta in pochi giorni ho sentito le forze venirmi meno. La sensazione mi è nuova, dovrebbe farmi paura e non me ne fa; c'è sempre stato tanto vigore in questo mio corpo da combattimento, specie di macchina indistruttibile e vittoriosa. E stamattina, come ieri, mi sembra quasi di essere un lattante; riesco a vedere senza girare la testa l'ombra del servo che va e viene, riflessa nello scudo di guerra donatomi da Zeus; dono illustre, arma di pregio divino, ma ho l’idea che non riuscirei nemmeno a sollevarlo.
La prima volta è stato qualche giorno fa, quando sul poggio, mentre combattevamo, Ettore di Troia appena arrivato, sul carro, si accorse di me e mi rivolse un sorriso sconsiderato. I cavalli, sentendo mancare la mano, si sono scomposti indietro. E il mio carro è indietreggiato, come non è mai successo davanti a un pericolo. Il Troiano mi ha sorriso, un sorriso sereno, melanconico, di riconoscimento ha versato su di me l'altra mattina, come dicesse qui siamo, Achille, il fato ci regge, c'è dell'altro oltre al fatto che siamo nemici.
Madre, tu vedi. Io non so combattere questo.
Il servo versa l'acqua nel bacile. L'acqua dello Scamandro è più scura di quella dei torrenti di Ftia, il fiume è più grande e più fondo. E ieri, sulle sue rive ho visto la donna di Ettore.
Teneva il bambino per fargli il bagno, lo reggeva per le ascelle, il bambino rideva, sgambettava, e rideva anche la donna. Ero li per caso, cercavo un varco per un'imboscata. Ma che donna bella; è un mistero la bellezza delle donne, il loro corpo mancante del segno virile, fatto di anse, di vuoti dove ci si perde.
Mentre guardavo, la spada mi pesava sulla coscia. E difatti avrei dovuto ucciderli; ho ucciso intere famiglie per molto meno, e questa volta la tattica più elementare lo richiedeva: un condottiero affranto dal dolore non combatte bene.
Eppure. Il fatto è che quel bagno mi ricordava un altro bagno, quello che feci da piccolo nell'acqua dello Stige, acqua nera e bruciante, davvero infernale. Mia madre mi reggeva, ma non come ora questa donna regge il suo bambino nelle acque blu dello Scamandro: io ricordo una caduta, un vuoto, e non so bene come sono ritornato all'aria e alla luce. Io credo che quel bagno mi abbia segnato per sempre; la mia pelle non è più come quella degli altri; e neanch'io, in quanto a quello. Io non sanguino, non piango. Né io né il mio corpo piangiamo. C'è stato un tempo in cui questo mi è sembrato un grande onore e una grande potenza; ma adesso non so, non lo so. Così me ne stavo dietro l'albero con la spada appesa al fianco, e non avevo la forza neanche per tornare indietro. Avrei voluto essere tutti loro, la donna che si inarcava tirando fuori il bambino ridente dall'acqua, il piccolo che rideva e giocava, e anche Ettore.
Ettore soprattutto. Madre, ti ricordi quando andavamo a passeggio in riva al mare? Tu dicevi allora che mi aspettavano grandi imprese, e mi raccontavi le gesta degli dei e degli eroi. Ed io avrei oscurato la fama di tutti loro, nessuno più glorioso, più forte del divino Achille; il guaio è che divino ero solo per metà, l'altra metà stava in quell'oscuro padre appollaiato nel suo palazzo, tu dicevi di dimenticarlo. E io l'ho fatto, ho fatto anche di meglio, l'ho disprezzato. Ricordo un giorno che mi inseguì nel cortile del palazzo per dirmi non so più cosa, con i suoi muscoli già rinsecchiti, ridicolo vecchio; io non stetti neppure ad ascoltare, come quella volta prima di partire per Troia, che mi sorrise con timidezza e disse, puoi tornare quando vuoi, questa è la tua casa, e quella non è la tua guerra. Idiota, io pensai, pusillanime e stupido vecchio; quella è la mia gloria, non capisci, il grande momento: ho le armi di Zeus, i suoi cavalli, ho la potenza dei muscoli e del sangue, io sono un eroe, la Grecia mi attende, conta su di me, io sono la loro gloria e la loro bellezza, puoi capire questo? No, è evidente che non lo capiva. Era triste perché andavo via. Che stupido, e davvero lo odiavo. E adesso sono passati dieci anni, la guerra a volte pare così piccola; gli alberi continuano a crescere, nascono i bambini e le madri li portano a giocare al fiume, il mare continua a battere sulla riva, e noi combattiamo. Questi quaranta stadii di sabbia fra le mura e le navi, che percorriamo di corsa, a cavallo, sul carro, mi sembra a volte di essere un cane alla catena, su e giù; e può anche essere che la profezia dica il vero, e che alla fine io ci morirò su questa spiaggia che conosco a memoria, che il più infimo dei troiani troverà finalmente il punto buono in questo mio corpo impermeabile come una corazza, e Agamennone dovrà trovare qualcun altro per guidargli la cavalleria. Anche stamattina credo che Agamennone dovrà trovare qualcun altro; io non riesco ad alzarmi.
Il servo esce, non è più severo ma quasi spaventato, e va a prendermi i cavalli; vecchio, dovrei alzarmi, hai ragione, non c'è senso a star qui sdraiato e inerme come un infante, ma proprio non ci riesco. Il corpo mi si sottrae, mi sembra di essere uno di quei demoni leggeri, fatti d'aria, che all'imbrunire molestano le donne per irritarle, sapendo di non avere altro potere. Ma quando uccisi Eretteo e tutti i suoi figli, o i parenti di quella stessa donna che ho visto sul fiume, che cosa mi spingeva? Furente battaglia, combattenti valorosi, la piena del sangue, tutto mi sosteneva, mille tori divini avrei ucciso a colpi di fendenti, tutto quello che mi preoccupava era soltanto che nessuno, mai nessuno era così forte, così potente o coraggioso da darmi davvero difficoltà, da farmi sentire in pericolo. Dov'è il nemico vero, mi chiedevo, quello che metta alla prova davvero questa potenza impensabile, questo dono degli dei di cui non so che fare, sono troppo forte, così terribilmente più forte di ogni avversario che mi si pari innanzi, dov'è l'eroe che mi stia al pari, il nemico vero? Sembra che io abbia sbagliato a cercarlo nell'ambito degli umani, è stato questo l'errore. Credo adesso che il mio nemico, che non ho veduto per anni, sia questa sabbia, sia il tempo che non porta mai imprese abbastanza grandi, le donne che fanno i bambini e ci lasciano indietro, vuoti, come cocci del fiume. È con questa sabbia che devo combattere, con lo scorrere dei giorni che sembrano davvero arida sabbia fra le dita, con quale arte quella donna sul fiume ed Ettore di Troia l'hanno fermata, resa fertile con qualche loro acqua divina, tanto che vi potesse nascere un bambino; sei sicura, madre, che io sia più grande di Ettore di Troia? Che domanda sciocca, lei mi risponde, sempre bellissima della sua bellezza che non muta, intoccabile da tutto, dal tempo anche. E difatti dice la profezia che io ucciderò Ettore. Dice, ad essere precisi, che non morirò fin quando non avrò ucciso Ettore.
Sono l'unico che può ucciderlo, perché è un valoroso e ha grandi abilità. Se non muore, Troia non cadrà. E i Greci vogliono che Troia cada.
Ma questa città è così bella.
A me sembra non ci sia mano greca che possa buttar giù queste mura; le guardo la mattina all'alba, mentre i cavalli pascolano piano muovendo la coda, e mi sembrano forti, e così vecchie.
"Come sei giovane" mi dicono. E così davvero mi sento, appena sveglio sotto queste mura antiche, e anche un po' insensato. Con un esercito, sia pure valoroso, non ce la faremo mai, come possiamo pensare di abbattere una fortezza come questa? Non c'è forza militare che possa aprire un varco, mi sembra di non poterlo credere anche se la profezia dice il contrario. Ma in questi giorni c'è molto di strano in me, finisco per non credere più neppure alle profezie. Xanto, il cavallo di destra, viene di solito a salutarmi quando esco all'alba sotto le mura. Nitrisce basso, un saluto fra pari. Anche loro sono figli di Zeus, e corrono più del vento. Ma al momento buono temo che neanche loro correranno abbastanza veloci.
Dunque occorre morire qui. I fiori di Ftia, le coste del Peloponneso, è servito solo per arrivare qui ad ammazzare un uomo e prendere una città; ed io non riesco ad alzarmi, anche se ora lo vorrei perché Patroclo appena entrato mi guarda male, stupito, inerme ed arrabbiato. Fratello, amor mio, davvero non riesco, non è mia volontà. Ma lui è giovane, mi volta le spalle irritato e spaventato. È vero, è tanto tempo che lo proteggo... Ti ricordi, dolcezza mia, quando cacciavamo da ragazzi sui monti di Ftia? Un giorno arrivammo a un punto molto alto, e lasciammo perdere la caccia perché il mare era bello visto da là.
Si vedevano le isole vicine, ed era come se guardassimo il futuro; ed era meglio perché eravamo insieme.
Patroclo è una persona allegra, a volte francamente soave, e la vita mi è sempre parsa più sopportabile grazie a lui. Mi chiede di essere amato e protetto, fa di tutto per non ostacolarmi, mi dona il suo corpo con immutabile disposizione. Mi ammira, anche, e per qualche ragione questo ultimamente mi addolora. Ma adesso è arrabbiato. Che fai? mi chiede, non capisce. D’accordo, questo tuo sguardo non riesco a tollerarlo, d’accordo, qualche forza mi sarà pur rimasta, Xanto, alza la testa, andiamo a combattere! Il cavallo mi ascolta, muove passi attenti fuori dalla porta, ma il corpo no, e l’amico va senza guardare.
Stanotte ho fatto un sogno strano, che ha aumentato il mio turbamento. Ho sognato d'essere in un gineceo, circondato da fanciulle. Ero vestito da donna, veli, movenze femminili. Fingevo con impegno d'essere una fanciulla. Nello sfondo lo sguardo di mia madre, che sembrava controllare tutto questo, era benevolo. Io mi sentivo sospeso, stranito, come nell'attesa di qualcosa di molto spaventoso, già era abbastanza spaventoso rimanere lì in quell'atmosfera ovattata, lenta, a sentire il mio piacere a muovermi nei vestiti femminili, ad essere via dalle battaglie, in un mondo tenue, protetto. Poi arrivava Odisseo di Itaca con un cesto di cianfrusaglie femminili, e mentre le fanciulle vi frugavano dentro si intravedevano, in fondo, delle armi. Io sollevato le impugnavo, le provavo. Odisseo mi riconosceva, mi svelava, e mi imbarcava per Troia. Disperazione di mia madre.
Che cos'avesse mai Teti da disperarsi, e soprattutto da approvare nella fuga in un gineceo dopo che mi ha bardato e corazzato fin da quand'ero bambino perché divenissi il più potente dei guerrieri, è un mistero. E anche che io abbia sognato Odisseo è strano, perché non mi piace; c'è in lui un'inquietudine strana, come di un altro tempo. Considera successi ciò che ottiene in modo così anomalo che toglierebbe a me ogni soddisfazione; se potesse, conquisterebbe Troia incantando i suoi cittadini con una malia, li metterebbe tutti in fila come soldatini addormentati, marciando bel bello dentro le mura. E poi? Che senso avrebbe così? Il suo pensiero si sposta su piani che non conosco, che non condivido. Nel mio sogno faceva la parte di chi mi rammenta la guerra. Che è sempre stata la mia vita, non è così? Eppure ho visto anche altre cose, mi sono distratto per così dire, ho visto il vento battere sulle colline, i vitelli nascere nelle stalle di mio padre e cercare il calore delle mammelle, gli uomini e le donne che si abbracciavano al porto dicendosi addio. Mi sono distratto, e adesso non capisco più. Non capisco il senso del mio sogno, che mi sembra abbia l'unico senso di rammentarmi che ciò che è dentro di noi è più profondo e più oscuro di quanto non sappiamo, non capisco perché Patroclo mi spinge a combattere pur amandomi, anche se vede che è come se mi dissanguassi, non capisco me stesso che dopo anni di foga e convinta violenza sto qui a vegetare, sdraiato nella tenda, imbelle. Se non mi facesse poi sorridere, sono preso a volte dall'idea di piantarmi a caso un pugnale nel petto, chissà che non lo trovi io il punto buono, alla fine. Vorrei vedere la faccia di Agamennone, chissà come porterebbe avanti la guerra, con Ettore vivo e vegeto che cerca in ogni momento di incendiargli le navi e il grande Achille stramazzato nella sua tenda per propria mano. Ah, dei, che stiamo a fare qui? Che sto a fare io, qui. Padre, ridicolo vecchio, vecchio re, se io imbarcassi armi, cavalli, amico, sulla nave, e tornassi a casa? Non sarebbe meglio tornare a Ftia, volgere la prora della nave verso la terra di mio padre, piuttosto che rimanere qui a conquistare onori, bottino per il tronfio guerriero che ci governa?
Fuori viene un'aria fresca dal mare; tante altre mattine ho visto com'è a quest'ora e in questa stagione, il mare ha onde piccole d'acqua trasparente, le navi fanno ombre oblique e poco dense. Sorge il sole, madre. Io torno a casa. Mai considerato quel palazzo sulle rocce come casa mia, in tutta la vita. Un giorno mio padre aveva ospiti e mi ordinò di andare a pranzare con loro, io non vi andai. Ma poi passai più tardi nella sala del pranzo mentre i servi riordinavano e mi prese non so quale malinconia, un sentimento di esclusione. C'era un calice ancora mezzo pieno, un ospite non aveva finito il suo vino; forse avevano raccontato delle storie... Perché quelle, ecco, mi sono sempre piaciute; mi sono sempre piaciute le storie, quelle degli dei, degli eroi, degli animali mostruosi che sembrano parlare dentro di noi, qualcosa dentro di noi che conosce quegli animali, li riconosce... Io ti aspettavo sempre, madre; aspettavo le tue visite fugaci e inattese, la tua bellezza, i tuoi occhi che vedevano l'eroe: quando ti guardavo in volto mi ricordavo, sì, mi ricordavo di quello che ero. Gli dei... un altro mondo, e io stavo a metà, ma avrebbero imparato, avrebbero saputo, tutti avrebbero saputo che cosa sarei diventato, malgrado questa parte mortale... all’inizio anche mio padre ti aspettava; quando io ero piccolo ed era ancora un bell'uomo, ti aspettava; poi è invecchiato, si è rinsecchito; mi trattava con dolcezza, il vecchio. Forse davvero ancora mi aspetta. Io torno a casa, può darsi. Che Ettore viva, alla fine. Che dorma con quella sua donna tutti i giorni della sua vita, che mi importa? Contento lui... Il fatto è che lui pare contento davvero. Ettore è un grande guerriero, nessuno di noi può dire il contrario, ma non prova gusto a combattere, questo lo vedo. Preferirebbe altre cose. Allevava cavalli, dicono, prima della guerra, dicono che fosse bravo ad insegnare ai cavalli, è un buon cavaliere; e una volta, anni fa, dopo la nascita di quel suo figlio, regalò alla sua donna una pianta che aveva trovato sulle colline, viaggiando più di un giorno per andarla a prendere; un fiore rosso, dicevano, ma delicato. Non so molte cose di Ettore di Troia, in realtà, di quest'uomo la cui vita garantisce la mia. So che è diverso da me. Diverso, strano, siamo simili soltanto a combattere; nel modo se non nelle ragioni. È forte, i Greci hanno paura. Anche Agamennone ha paura. Per certi versi, ascolta madre, dico ciò che tu non vuoi che dica, per certi versi anch'io ho paura. Non paura fisica, della sua spada o della lancia, dell'abilità con cui muove il carro, ho paura di qualcosa, qualcosa d'altro; io credo di aver paura del suo sangue, del modo in cui scorre senza dubbio dentro le sue vene, del suo corpo che sembra più vivo del mio, del modo in cui sembra legato per fili invisibili alla sua terra, al fiume, alla sua donna di così vera bellezza. In questi anni ho aspettato, aspettato; rimandato. Ma a volte ho voglia di distruggerlo, quel corpo vivo, farlo a pezzi. Perché ucciderlo non basta. Ma sempre qualcos'altro mi ha fermato: c'è a Ftia una quercia, su un promontorio. Da ragazzo la vedevo spesso, è grande, dà ombra; una notte ci fu un fortissimo temporale, molti alberi caddero. Mi ritrovai a pensare alla quercia, la mattina andai a vedere. Se ne stava sempre là, bella, con la sua solita curva abbastanza elegante, controvento. Bene, pensai. In questi anni, tutte le volte che la vita di Ettore di Troia m'è parsa un'offesa intollerabile, tutte le volte che l'ho odiato abbastanza da ridurre il suo corpo una poltiglia, m'è tornata in mente quella quercia di Ftia, sapessi il perché. E non sono mai andato ad uno scontro diretto. Padre, forse è bene così; lasciamo tutto come sta, io torno a casa. È vero che ho fatto una scelta, ma forse posso cambiare idea. Forse gli dei concederanno; sono troppo stanco per continuare l'idea di quand'ero ragazzo, ho cambiato pensiero. La sabbia, la sabbia mi circonda. Devo andare via, pensare. Ci sarà un modo per cambiare questa pelle impenetrabile, sentire... il vento, l'acqua. Non so. Posso imbarcare i cavalli, il servo; Agamennone non oserà fermarmi. Patroclo verrà con me. Andiamo dunque. Se mi sforzo riuscirò ad alzarmi, ecco, una gamba è a terra, anche l'altra, ecco. Ora preparo le mie cose, chiamo il servo. È ora di andare.
Non vuole venire. Patroclo, che gli dei ti maledicano, perché no? L'ho deluso, dice, che non sa più in che credere, che non sono quello che lui amava; che ha sofferto grandi tormenti in questi giorni, quando nel campo si diceva che non combattevo per una ripicca, per una schiava, ma sempre meglio pensassero a una schiava che sapere che avevo perso il mio coraggio e la mia forza. Che dici? Tanti anni, Patroclo, ci conosciamo da che eravamo bambini, mi senti quanto ti parlo, ti dico che non c'entra il coraggio, non c'entra la gloria, io ho perduto il senso, non credo più alle storie che ho imparato, le forze mi sfuggono come da una emorragia, sto in piedi appena. Mi pare che tutto quello in cui avevo creduto non ci sia più, e non andasse bene, c'è stato qualche enorme sbaglio, i conti non tornano, Patroclo, forse mio padre aveva ragione, e ancor più suo padre prima di lui, che ha aiutato gli dei a tirar su le mura di questa città, per quale beffa del fato io dovrei ora contribuire ad abbatterle, a me che paiono così belle? Mi ascolti? Non sono idiozie, è ciò che penso, io penso questo, sono venuto a pensare questo durante gli ultimi giorni, è così. D'accordo, vattene, va dove ti pare, che gli dei ti tormentino, vecchio, dammi un mantello, vado dietro il promontorio, lì potrò almeno starmene in pace, il mare non si offenderà ai miei pensieri.
Forse si sente questo quando si viene feriti. Ora la sabbia mi ha preso del tutto, la sua aridità sale dal centro del mio petto, mi soffoca. C'è una frattura in me, come una crepa nelle assi di una vecchia nave; il mio amore, il mio amico; ma non capisce. Se i miei occhi potessero versare lacrime, acqua come questa del mare che batte le onde sulla rena, una, due.. .una, due... Ci sono sempre nuovi ostacoli, ora sembra che io debba scegliere. Vieni con me!. Ma non vuol venire. Mi disprezza. Perché? Sono forse meno bravo a combattere perché sento che non posso più farlo? Ma non è questo. Sì, Patroclo ha anche ragione, siamo partiti giovani, così pieni di guerra... io ho sempre combattuto anche per lui, l'ho protetto, i suoi dolci occhi, le sue mani da musico; figlio mio, mio dolce amico. Ma speravo tu capissi. Sul poggio, l'altro giorno, Ettore sorrideva; qui siamo, Achille, diceva. Già. Qui siamo, Ettore di Troia. Siamo rimasti noi, Meninone è morto, Aiace è morto, gli eroi sono finiti, siamo rimasti tu ed io, poi questa guerra sarà una questione di uomini, una questione di strategia. Ma se io metto in acqua la nave, Ettore, non ci sarà più guerra; sarà un affare di diplomazia, allora, toccherà alle delegazioni mettersi d'accordo.
II mare parlerà con i mercanti, non con i guerrieri. E a Ftia può darsi che io dimentichi questo dolore; e Patroclo capirà, alla fine, quando la guerra sarà finita sbolliranno i suoi spiriti, tornerà all'isola di mio padre, parleremo, e forse capirà. Allora me ne vado comunque, addio mare d'oriente; vado solo, con il vecchio e i cavalli.
Dei, ti ucciderò fra mille tormenti, strazierò il tuo corpo finché non ne rimanga briciola, me l'hai ammazzato, maledetto, traditore, tanti sorrisi e tanta lealtà per che cosa, dannato me che ti ho creduto, nessuno riconoscerà le tue spoglie quando t'avrò preso, finalmente sento di nuovo il mio corpo, vecchio, lo scudo!
Ecco di nuovo le forze, vecchio! I gambali, i cavalli! Dove sono i cavalli, Balio, Xantio! Dei, fate soltanto che il combattimento sia lungo, che non muoia subito, ho abbastanza forza per abbattere da solo queste mura di sordido fango, maledetto Ettore e maledetto me che ti ho creduto, me l'hai ucciso, così, in un momento, era un bambino, non hai visto, non l'hai riconosciuto sotto la mia armatura, se l'era messa per tenere alto il mio onore, di certo questo lui pensava. Ma tu volevi la gloria, allora, Ettore, anche tu? E allora l'avrai, aspettami, vengo da te.
Grazia Venturi, Membro Ordinario SPI, Specializzata in Psicologia Medica.
Ha lavorato come psichiatra presso CSM e SERT, vive ed esercita la libera professione a Bologna. Ha partecipato al Gruppo sull’Interpsichico, fa parte del Gruppo di Manutenzione della Mente dello psicoanalista ed è co-responsabile insieme a Federica Zauli del Gruppo Clinico nel Centro psicoanalitico di Bologna.