Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua, (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a sparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato […].
Pier Paolo Pasolini, “L’articolo delle lucciole”, in Scritti corsari, 1975.
Sono nato a Taranto, la città pugliese dei due mari, che fu la splendida capitale della Magna Grecia.
Tra i tanti ricordi della mia infanzia e della mia adolescenza, certamente i frutti di mare di Taranto hanno un posto di rilievo, ricorrendo in diversi episodi, che la mia memoria ha fissato indelebilmente.
D’estate, dopo la chiusura delle scuole, quando ero un bambino, andavo con mia madre e i miei fratelli a fare i bagni al Lido Venere, uno stabilimento balneare situato sulla costa jonica che porta verso la Calabria. Si andava in pullman, e poi a piedi si attraversava un ponticello di legno posto alla foce del piccolo fiume Tara, il cui nome probabilmente deriva da Taras, il mitico fondatore della città di Taranto e le cui fredde acque separavano i bagni di Lido Venere da quelli di Pino Solitario, posti sulla sponda opposta.
La spiaggia cominciava dall’alto con delle dune di sabbia dorata coperte dai gigli selvatici bianchi, per poi degradare, dopo le file di cabine di legno e, quindi, le “freschiere” con il tetto fatto di canne, in una grande battigia verso l’acqua marina trasparente.
Noi bambini restavamo in acqua finché le labbra non diventavano viola. Ma prima di uscire, chiamati a gran voce dagli adulti, scavavamo con le mani nella sabbia dove si toccava, e raccoglievamo senza alcuna fatica manciate di telline. Dopo averle fatte spurgare dalla sabbia, mia madre le cucinava per cena col sugo al pomodoro per condire gli spaghetti. Quando sono diventato più grande, le telline sono state sostituite dalle vongole, che andavo a raccogliere dove il mare era più alto, tuffandomi sott’acqua in apnea a più riprese.
Per alcuni anni ho vissuto nella città vecchia, dove mia nonna gestiva a due passi dalla marina un negozio di articoli per pescatori, dalle cui pareti promanava un intenso e inebriante profumo di mare e di cordame. Con gli spiccioli che mi dava, andavo a comprarmi, al posto delle caramelle, una manciata di cozze San Giacomo, che il venditore ambulante mi apriva al momento.
Tutte le domeniche mio padre portava a casa un paniere pieno di ostriche che, prima del pranzo festivo, apriva con maestria una per una per tutta la famiglia. Quando ho compiuto quattordici anni, con voce grave ha annunciato che ormai ero diventato grande e ha stabilito che avrei dovuto imparare ad aprire le ostriche da solo. Insomma, l’evento dell’apertura delle ostriche andava a costituirsi come un vero e proprio rito di passaggio nel nostro romanzo familiare.
Sono tornato dopo molti anni su quella spiaggia, ma non l’ho ritrovata.
Subito mi sono chiesto se non cercassi, senza trovarla, una spiaggia tutta mia, una mia spiaggia interna, idealizzata dalla fallace memoria di chi da troppo tempo era andato via. Ma purtroppo non era così. Non si trattava di un’allucinazione negativa: la spiaggia su cui avevo giocato per tanti anni era veramente sparita. In un misto di amarezza e collera, ho guardato la foce del Tara; quel fiumicello, in parte deviato, oggi scorre in un lembo di terra desolata fortemente segnata dall’inquinamento: un lembo di terra con la pineta morente, che non è più né città né campagna. E neanche industria. Un paesaggio morto e terrificante. Nonostante la vicinanza delle ciminiere e delle gru del porto, probabilmente il Tara è più degradato che inquinato. Lo stesso degrado si è impossessato della spiaggia, che quasi non esiste più, perché tra le opere realizzate in funzione dell’Ilva, vi è il molo polisettoriale, una banchina che si inoltra nel mare per circa mille e trecento metri. Il molo è stato realizzato posando nel fondo del mare cassoni di cemento, nei quali sono stati tombati scarti tossici della lavorazione siderurgica. Insomma si tratta di una vera e propria discarica brutta a maleodorante, come del resto lo sono le cosiddette colline ecologiche, poste tra il complesso siderurgico e il quartiere Tamburi, costruite originariamente con l’obiettivo di contenere la diffusione delle polveri minerali, specie nelle giornate di vento1. Si tratta di un'opera che per la sua imponenza ha portato all’erosione di una parte considerevole della spiaggia.
Al posto delle dune dorate della mia infanzia, si offriva al mio sguardo una spiaggia residuale che non era più chiara e brillante, ma che invece era diventata dura e impastata. Una coltre grigio-nerastra, per via del deposito del carbon coke, copriva tutto. Anche il mare è diventato più scuro, tendente al verdastro ed è scomparsa la posidonia, che arrivava sino a riva. Le strade intorno erano di colore rossastro a causa della polvere di carbon coke che si accumula sui bordi delle strade ed incrosta i guard-rails. I residui ferrosi provenivano dalle lavorazioni dell’Italsider, il più grande impianto siderurgico italiano, costruito negli anni sessanta del secolo scorso, quasi in coincidenza con il mio allontanamento dalla città natale per andare a studiare Medicina all’Università di Pavia.
Addio telline e vongole della mia infanzia!
Le acque del Mar Piccolo2, il mare interno di Taranto, una laguna dove insisteva la maggior parte degli allevamenti delle cozze e delle ostriche, note per la loro prelibatezza, risultavano, a causa dei naturali problemi di ricambio idrico, gravemente inquinate dalla diossina. I parenti e gli amici mi consigliavano con decisione di stare lontano dai frutti di mare, soprattutto quelli crudi. L’inquinamento distruggeva le mie piccole memorie, anche quelle olfattive, e mi costringeva a confrontarmi autenticamente con la mia ignoranza delle trasformazioni avvenute.
Cesare Pavese in La luna e i falò si chiede se è possibile che all’età di quarant’anni, e con tutto quello che ha visto nel mondo, non sappia ancora che cos’è il suo paese.
Anche io, come Pavese, non capivo più cos’erano e cos’erano diventati i luoghi della prima parte della mia vita. Sentivo le mie radici violentate e offese e nel mio viaggio sentimentale a ritroso non ritrovavo più la mia Taranto, la bella città che dal centro del golfo guarda quella porzione di Mediterraneo che prende il nome di Mar Jonio.
Lasciamo la nostra casa forzatamente o per scelta, come esuli erifugiati o come immigrati o viaggiatori, o più semplicemente perché siamo attratti da altri paesaggi e altre civiltà. Ma anche se rimaniamo, il posto che chiamiamo casa cambia. In parte a causa della nostra natura nomade, e in parte per le fluttuazioni della storia, la nostra geografia si fonda non tanto su un terreno materiale, quanto su un terreno fantasma. La casa è sempre un luogo immaginario.
Il paesaggio è lo specchio più fedele della società che lo produce, che se ne alimenta, che può trarne forza, ma può anche distruggerlo, annientando la propria memoria collettiva, e in ultima analisi annientando se stessa in uno spasimo suicida.
Addio cozze San Giacomo, addio ostriche della mia infanzia e della mia adolescenza!
Che bello, però, sarebbe se Taranto ritornasse quella descritta da Pasolini in La lunga strada di sabbia:
“Ora che sono qui, a Taranto, che brilla sui due mari come un gigantesco diamante in frantumi, - mi pare che la cosa mi sia successa in sogno… Taranto città perfetta. Viverci è come vivere all’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta…”
COSIMO SCHINAIA è psichiatra e psicoanalista ordinario con funzioni di training della SPI e dell’IPA.
I suoi libri: Dal manicomio alla città. “L’altro presepe di Cogoleto” (Laterza); Il cantiere delle idee (Vecchiarelli); Pedofilia Pedofilie. La psicoanalisi e il mondo del pedofilo (Bollati Boringhieri); Il dentro e il fuori. Psicoanalisi e architettura (Il Melangolo); Sguardi psicoanalitici su architettura e urbanistica (Alpes), “Il presepio dei folli. Scene da un manicomio” (Alpes); Psicoanalisi e pedofilia (Bollati Boringhieri); L’inconscio e l’ambiente. Psicoanalisi e ecologia. I suoi libri sono tradotti in varie lingue.
Website: www.cosimoschinaia.it
1 Nel febbraio 2019, le cosiddette colline ecologiche sono state poste sotto sequestro preventivo dai carabinieri del NOE (nucleo operativo ecologico), in seguito a un provvedimento d’urgenza emesso dalla procura di Taranto. Nella relazione dei carabinieri esse vengono definite: “una enorme discarica abusiva di svariate tonnellate di rifiuti industriali… che, esposti all’azione degli agenti atmosferici, hanno riversato nei terreni e nell’ambiente circostante sostanze altamente tossiche e cancerogene…”. Nel 2021 a tutti i responsabili (proprietari e dirigenti) dell’ILVA è stata comminata una condanna da 18 a 22 anni di prigione per catastrofe ambientale.
2 Il Mar Piccolo è un mare interno, un bacino semichiuso che dà vita a una doppia insenatura a nord della città: i due seni (l’uno occidentale e l’altro orientale) sono collegati al mare aperto, il Mar Grande dai due canali che bagnano la Città Vecchia: il canale naturale di Porta Napoli e il canale artificiale navigabile che separa lo storico insediamento urbano dalla parte più estesa della città. I due seni del Mar Piccolo sono separati all’origine dalle penisole di Punta Penna e Pizzone che, nel 1977, sono state collegate dal ponte “Aldo Moro”. Le acque del Mar Piccolo erano rese più dolci grazie alla presenza di numerose sorgenti sottomarine denominate citri, che creavano l’habitat idrogeologico ideale per la coltivazione delle cozze e delle ostriche e per la presenza delle sorgenti di alcuni fiumi, quali il Tara, il Galeso e il Cervaro.