“Ehi, Doc, ci sei? C’è un “traffico” per te.”
Sospiro. Ti pareva. Poteva mai essere un volo tranquillo. “Ci sono” dico.
“Allora ti passo Numero Sette”.
Nuovo sospiro. Però mi viene da sorridere. La voce la riconoscerei tra mille. E a Numero Uno non potrei mai dire di no. Perché anche se non lo conosco Numero Uno è l’inizio di una storia e alle storie non si possono voltare le spalle.
Questa è iniziata molto tempo fa. Un anno difficile. Un’estate meravigliosamente calda in cui d’un tratto mi ero sentita braccata dalle parole. Mi seguivano ovunque come una nuvola densa, allegramente minacciose e non riuscivo a trovare un riparo, un posto qualsiasi che mi consentisse di tenerle fuori. D’accordo, io lavoro con le parole. In fondo, come dice Freud, la psicoanalisi è una talking cure. Però quell’anno la Grande, la nostra figlia maggiore, aveva sentito il bisogno di tirarsi in casa un ragazzo, una faccenda di occhi smisurati e capelli incolti, cane regolamentare alle calcagna, come tutti coloro che frequentavano la Grande. E quando smettevo di lavorare e passavo dal lato studio al lato famiglia della casa era tutto un gran parlare. Insomma… Avevo sperato in un po’ di silenzio dopo tante ore di lavoro e invece… Parole e parole. Fitte, sceme, melense, accese, argute, intrise di concetti e di nulla allo stesso tempo. E in soggiorno non era meglio. Il Piccolo, nostro figlio minore, nerd incallito, aveva modificato un programma di dettatura e lo provava incessantemente su almeno un paio di computer e su alcuni dispositivi mobili. Parole sconnesse, scollate, meccaniche che si elidevano, si sommergevano, si combinavano in una guerra senza né vinti né vincitori.
Il Coniuge, mio marito e loro colpevolissimo padre, sfoderava una pazienza e una calma assolute, olimpiche e olimpioniche allo stesso tempo.
Io mi rifugiavo in giardino e cercavo di non dare di matto. E una sera mi capitò di osservare due uccelli. Due merli per la precisione. Volavano in silenzio intorno al nido che avevano ricavato tra i rami dell’albicocco di fronte alla finestra della mia camera da letto e imbeccavano, sempre in religioso silenzio, il loro piccolo.
“Beati loro” – pensai – “Magari potessi volare anche io… Forse in aria le parole mi lascerebbero in pace.”
Però perché no? Volendo avrei potuto volare. Bastava iscriversi ad un corso di volo. L’idea mi entusiasmò. Poi mi parve ridicola e la scartai. Poi ritornò. Poi si perse di nuovo. Finche un giorno, stufa di questo infinito dibattito interno, cercai in internet il più vicino aeroclub e presi appuntamento.
Settembre 2001. Rings a bell? Era l’anno dell’11 settembre, data dell’attentato terroristico alle torri gemelle. La mattina del mio primo appuntamento con il volo l‘aeroporto era ermeticamente chiuso, circondato da una selva di poliziotti, militari, carabinieri e chi più ne ha più ne metta.
“Segno del destino” – pensai tra me e me. Voltai le spalle e mi incamminai verso il parcheggio per riprendere la moto e tornare a casa. Ma dopo pochi passi un’auto del servizio aeroportuale con tanto di lampeggiante mi si accostò, la portiera del passeggero si aprì e una voce rugginosa disse: “Salga”.
Una sola parola, niente convenevoli, né presentazioni. Un inizio fantastico, pensai. Eseguii. Mi sedetti sul sedile del passeggero, salutai con un cenno della testa e in assoluto silenzio mi lasciai trasportare verso un hangar che sorgeva alla fine della pista di decollo. Una volta dentro, la segretaria mi indicò un aereo al cui fianco era appoggiato un tizio. “Oggi farà un volo di prova con l’istruttore. Se la riterremo adatta al corso la iscriveremo” – disse lei. Chiaro. Niente frasi oblique, niente circonlocuzioni. Salutai il tizio e portammo l’aereo fuori dall’hangar. Dopo qualche scambio radio con la torre di controllo entrammo in pista e cominciai.
Il volo di ambientamento mi piacque moltissimo. L’istruttore decollò dopo avermi spiegato in modalità risparmio verbale come funzionavano gli strumenti di bordo e appena in aria mi disse: “Mantenga i 1000 piedi e segua la rotta impostata”. Poi sprofondò nella lettura del quotidiano che si era preventivamente infilato in una tasca della giacca. Andai. Occhi fissi sull’altimetro, bagno di sudore da tensione tra ansia e felicità. Al vallo sul golfo di Salerno finii in una turbolenza. “Montagna batte aereo” – disse laconico l’istruttore. Mantenni i 1000 piedi colluttando con il vortice e uscii dalla gola. Ero sul mare. Silenzio, sole, acqua. Infine libera dall’appiccicaticcio delle parole.
Così cominciò la faccenda. L’istruttore disse che ero adatta, il presidente mi spiegò che avrei dovuto fare un corso teorico e uno pratico con relativi esami e poi avrei avuto il brevetto e avrei potuto fare da me. Mi piacque. Mi iscrissi.
Il corso teorico cominciò poco dopo. La mia classe era un insieme raccogliticcio di scontenti: un avvocato scontento di difendere l’indifendibile, un ingegnere scontento di lavorare tra odori e fumi chimici, uno studente scontento di studiare e dunque fermo al secondo anno di non so che cosa, due ragazzetti, uno lento, sempre immalinconito dalle partacce del meccanico di cui era aiutante per definizione, uno magrissimo e nero come uno stecco carbonizzato che neppure salutava tanto era scompagno con il vocabolario, scontenti della qualunque in cerca di miglior fortuna. E poi c’ero io, scontenta delle parole. Il generale dell’aeronautica militare che ci faceva lezione si allineò immediatamente, dichiarandosi senza giri di parole scontento della nostra improbabile classe. In blocco. Però a me il corso piacque subito. Fisica e matematica a tutto spiano. Quindi quasi niente parole. Andavo a razzo sulle equazioni e gli esercizi. Li surclassavo tutti. L’umore del generale un po’ cambiò: in quel gruppo bizzarro aveva infine trovato un motivo di contentezza: io.
Il corso finì insieme all’inverno. Finì con una data di esame e una frase tagliente del generale: “Non ce la farete.” Poi si prese una pausa e aggiunse rivolto a me: “Tranne lei, ovvio”. Uscii tranquilla dall’aula e me ne andai a prendere un caffè alla macchinetta in fondo all’angolo cieco dell’hangar. Con la coda dell’occhio li vidi: si erano alzati tutti insieme sfilandosi all’unisono dai banchi e mi seguivano compatti. Un corpo unico. Una massa decisa e indecisa allo stesso tempo. Mi voltai di botto a un passo dalla macchinetta e sollevai il mento con aria interrogativa. Stecco carbonizzato, evidentemente portavoce della scalcinata combriccola, fece un passo avanti. Si prese un momento per fare l’appello di tutte le parole che conosceva e disse: “Doc, dobbiamo parlare”.
Un discorsone per lui. Lo invitai ad andare avanti con un cenno della testa.
“Tu fai spavento con tutte queste sciocchezze di matematica e fisica. Noi non ne capiamo nulla. Quest’anno sono cambiate le regole d’esame. Chi sa quale cervellone a Roma si è accorto che si copiava alla grande e ha deciso di far venire i test d’esame da Roma in busta chiusa e in doppia versione, in modo da poter dare il compito a file alterne, così neppure il tuo compagno di banco può copiare. E come se non bastasse saranno nominate delle commissioni di istruttori militari e civili completamente estranei all’aeroclub in cui si fa l’esame. Insomma non sono i nostri e non ci aiuteranno. E noi così non ce la possiamo fare.”.
Si bloccò inorridito al solo pensiero. Al mio sguardo interrogativo riprese: “Tu devi fare entrambi i compiti. Li lasci sul tuo banco, chiedi di andare in bagno, ci stai almeno cinque minuti e poi torni. Al resto pensiamo noi.” – concluse guardando il compagno immusonito per chi sa quale più o meno recente tirata d’orecchie del meccanico, che si affrettò a scuotere la testa in segno di assenso.
“Ma loro?” – chiesi io indicando gli altri.
“Non guardare me” – disse l’ingegnere – “Sono ingegnere chimico. Mai avuto nulla a che fare con la dinamica dei fluidi.”
“E neppure me” – aggiunse l’avvocato – “Io difendo l’indifendibile, ma non credo funzionerebbe in questo caso se ci bocciassero.”
Lo studente si strinse nelle spalle mugugnando: “Io non ho studiato nulla”.
Così Stecco continuò: “Come vedi non ci sono alternative. Solo tu puoi fare il miracolo. Ma noi ti ripagheremo. Vedi Doc tu sai tutto di numeri ed equazioni contrariamente a noi. Però a te ti frega il vento. Sempre. Noi da giù ti vediamo quando sei in aria. Specie il vento a traverso. Ti porta di lato e non atterri mai al centro della pista. E così non passi l’esame pratico. Allora quando questa cosa dell’esame teorico finisce ti accompagno io in aria e ti insegno.”
“Non ci sono riusciti gli istruttori…” – commentai sconfortata perché quello che diceva Stecco era vero.
“Lasciali perdere quelli. Ti vogliono spiegare. Ma l’aria non la devi capire. La devi sentire. E vedrai che io ci riuscirò”.
Si ammutolì di botto, deglutendo furiosamente per quel discorso spropositatamente lungo per lui.
“Insomma voi siete tutti numericamente orfani e io sono quella che va via col vento” – commentai – “Dunque questo patto si deve fare per forza. Però chi mi assicura che Stecco riuscirà a venire con me in volo. Non posso dichiarare il doppio pilota se no non mi conta l’ora come addestramento…”
“Tranquilla Doc. A me non mi vede mai nessuno. Io sono invisibile. Mi infilerò nel tuo aereo e non te ne accorgerai nemmeno tu. Quindi tu pensa a fare la tua parte. Io farò la mia” – disse Stecco.
Il patto dunque fu suggellato. I numericamente orfani passarono tutti l’esame. Io passai l’esame pratico. Stecco mi insegnò a governare il vento. Senza usare neppure una parola. Con le mani, imitando ogni posizione possibile di ala e timone di coda per ogni vento possibile.
Fummo per un’ultima volta la classe degli scontenti al bordo della pista d’erba dove facemmo l’esame. Il tempo, quel giorno di caldo, sole e cicale, lo facemmo noi. Decollo e atterraggio di ognuno di noi fece il tempo. Il tempo in cui fummo ancora tutti insieme, ancora numericamente orfani, ancora scontenti, ancora “non ce la farete”.
Dopo non ci siamo visti più. L’aria era il nostro luogo vedersi altrove non aveva senso.
Ormai volavo per conto mio. E un giorno, ancora un’estate rovente nella bolla di caldo in cui mi trovavo sopra l’isola della mia infanzia, le parole mi hanno riacciuffato. Mi hanno raggiunto e ripreso anche lì, anche in aria. Mi ero scocciata di sentire gli avvisi della torre di controllo e mi ero messa a girare frequenze radio. Mi fermai sulla frequenza degli scemi: 123456. Sei numeri consecutivi. Perciò si chiama la frequenza degli scemi. I piloti ci vanno a spasso per chiacchierare, fare battute, ridere, scherzare, dire cose serie, perdere tempo. Feci un giro anche io. Qualcosa mi faceva ridere, qualcosa mi interessava, qualcosa mi faceva semplicemente passare il tempo. Ad un certo punto, un discorso di un padre e un figlio complicato mi innervosì. Mi intromisi: “Glielo dica e basta. Magari tagliate corto e la fate finita” – dissi seccamente.
“Doc sei tu?” – disse la voce.
“Sì” – risposi – “Ma come mi conosci?”
“Sei quella delle equazioni e dei numeri. Unica donna da molti corsi. Tipo leggendario tra i piloti. In genere non capiamo nulla di fisica o matematica. Però voliamo lo stesso e ce la caviamo egregiamente.” – fece lui ridendo.
Poi mi chiese che tipo di medico fossi e così gli dissi la cosa della talking cure.
“Senti Doc perché non mi dai una frequenza privata, così parliamo un po’? Io sono…”
Lo interruppi. “Non lo voglio sapere” – dissi bruscamente – “Non voglio sapere il tuo nome e neppure voglio sapere come sei. Però ti do la frequenza così parliamo”.
Gli diedi una frequenza sulla quale potevamo parlare solo noi due. Mi raccontò la sua storia, io feci qualche commento.
“Poi ti racconto come è andata” – disse lui quando il nostro strano incontro finì.
“Non so come si può fare una cosa così senza vedersi” – commentai io – “Ma so che non voglio sapere nomi o conoscere facce. L’aria per me è solitudine e silenzio”.
“Lo so io come fare.” – disse lui spiccio – “Controllo i tuoi piani di volo in torre e quando ti voglio parlare salgo anche io e ti cerco sulla frequenza degli scemi. Se ho urgenza ti lascio un biglietto in aeroclub firmato Numero Uno, così sai che sono io”.
Non era esattamente una cosa alla James Bond ma mi piacque.
La faccenda con il figlio funzionò. Numero Uno ne parlò con un altro che ne parlò con un altro. E così anche in aria le parole mi hanno riacchiappato. A Numero Uno nel tempo si sono aggiunti vari altri Numeri. Ognuno con la sua storia, ognuno con i suoi perché. Non conosco nessuno di loro, ma posso dire che “dei loro guai, dei loro amori tutto so, sbagliati e no”.
Non è proprio un lavoro. È piuttosto un modo bizzarro di incontrarsi e guardare insieme le cose. Io li ascolto un po’, faccio qualche commento, parliamo nel tempo di qualche virata prima del rientro sulla frequenza della torre di controllo. Però abbiamo le nostre regole di setting. L’incontro comincia quando il Numero batte le ali se è vicino o quando fa suonare la levetta di stallo se è lontano. Finisce quando la stessa cosa la faccio io.
Nessuno mi paga, ma dopo un certo numero di “incontri” trovo un volo pagato in aeroclub.
Il primo colloquio è mediato da Numero Uno che mi lascia il biglietto con l’indicazione del nuovo Numero bisognoso in aeroclub.
Non li conosco. Loro sono i miei Numeri, sono un traffico per dirla in gergo aeronautico, cioè un aereo in volo che incrocia la traiettoria del tuo aereo, in cerca di parole per dirsi diversamente le cose. Io sono Doc e sono la loro trafficante parole.


Gemma Zontini è Membro Ordinario con Funzioni di Training della SPI, membro dell’EPF (European Psychoanalytic Federation) Work Group on Psychosis e del gruppo di Psychodynamique du Travail di Parigi riunitosi intorno al pensiero di C. Dejours.
I suoi interessi prevalenti nel campo della psicoanalisi sono l’isteria e le relazioni corpo-psiche.
Ha scritto “Ago” (Guida Ed., 2017) e come scrittrice di narrativa ha vinto un premio letterario assegnato dal WWF con il racconto “Le tre comete” poi pubblicato nel libro “Gatti magici. 40 supergatti di nuovi scrittori” a cura di M. Alberghini (Mursia, 1997).
Nel 2021 ha vinto il premio IPA per analisti-scrittori con il racconto “Un assassinio senza pretese” pubblicato nel libro “The analyst as storyteller”.

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