A partire dal significato etimologico del termine “Dialogo”, cioè “parola-attraverso” due soggetti, sappiamo che in analisi il senso delle comunicazioni del paziente non si coglie soltanto dal contenuto letterale di ciò che viene detto, quanto anche dal tono, dal volume di voce, dalla musicalità e dal colore del linguaggio usato.
Come non pensare che lo stesso non venga quindi avvertito anche da parte del paziente, e che dunque l’”attraverso” indichi un’area comune, un condensato di esperienze consce e inconsce dei due protagonisti? Parole - come Mauro Mancia ci ha insegnato - che saturando lo spazio tra due interlocutori producono emozioni, non solo con il loro contenuto formale, ma grazie a musicalità, poeticità e capacità evocativa.
Ciò che Ogden chiama il “Terzo Analitico” si condensa quindi nello spazio in cui si svolge il “gioco” winnicottiano dell’analisi. Ma se l’“attraverso” per qualche particolare apparentemente banale si trasforma in “a traverso”, il gioco non riesce, l’ingranaggio stride o si blocca.
Così ad esempio può “suonare” in modo assai diverso sentirsi dire, pur giustamente, “Il suo Inconscio le ha fatto commettere questo sbaglio” e non invece, con altro tono, suggerire “Forse Lei inconsciamente ha desiderato fare questo errore”. In questo modo potersi sentire come soggetto “agente” dell’azione anziché risultare passivamente “agito” da istanze incontrollabili.
Da queste poche note, quindi, la ragione del titolo del Dialogo di quest’anno, per chiedere ai nostri ospiti e a tutti gli intervenuti di aiutarci nel porre un giusto accento sull’importanza della scelta delle parole per comunicare, non meno che sul modo giusto di usarle per facilitare la condivisione del detto.
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