La giornata d’inizio del ciclo di seminari dal titolo CORPI E SOGGETTIVITÀ IN DIVENIRE è stata introdotta dal dott. Monari e dalla dott.ssa Ghetti.
Il primo tiene a specificare che l’argomento in questione è molto caldo e in divenire e non c’è una letteratura ancora sufficientemente ampia; la seconda introduce alcuni aspetti salienti del seminario, dedicato al tema dell’Identità di genere, in particolare nei suoi intrecci con il corpo.
Sottolinea pure lei quanto l’argomento in questione sia “particolarmente delicato e al contempo dirompente per questo nostro momento storico”, concludendo che, forse, il sentimento più diffuso, rispetto a queste tematiche, è costituito da una sorta di disorientamento unito alla fatica del contatto con aspetti che suscitano il “perturbante” anche tra molti psicoanalisti e terapeuti.
La riflessione, oggi tanto più necessaria, è condotta da Anna Cordioli del Centro Veneto di Psicoanalisi e Luca Bruno del Centro Milanese di Psicoanalisi.
Cordioli introduce l’argomento affermando subito che l’essere inclusivi è cosa faticosa e soprattutto antieconomica. Per citarne una delle ragioni, infatti, l’uso di un linguaggio inclusivo è importante per le persone trans* e non-binary e richiede attenzione nell'utilizzo di nomi di elezione, titoli/appellativi e pronomi corretti. Per risolvere questi problemi linguistici, alcuni membri della comunità LGBTIQ+ propongono l'utilizzo di fonemi neutri come la scevà o schwa al posto delle vocali finali che indicano il genere delle parole. Secondo la Cordioli, è importante dedicare tempo a questi conflitti linguistici anche se può essere difficile perché ci riguarda personalmente. “Ognuno si deve chiedere quali sono le fatiche che incontra dentro di sé - ha spiegato - quando si trova di fronte una persona di cui non coglie con precisione il genere o che chiede di essere chiamata con un pronome a sorpresa”.
Talvolta il rischio è di sentirsi legittimati nelle proprie idee e di “gettarle” sulla persona trans* e non-binary, in caso di difficoltà linguistiche nella comunicazione. Questa, a sua volta, essendo sulle spine si presenta come un oggetto destrutturante per non sentirsi solo un oggetto passivo dello sguardo dell’altro.
Quando “ci troviamo di fronte a fenomeni sconosciuti, regrediamo facilmente a funzionamenti alienanti, ci ritroviamo in una posizione schizoparanoide e di lì la china che conduce ad un conflitto infruttuoso è scivolosissima”.
Cordioli fa un distinguo tra “psicoanalisi nelle mura” (la clinica), e “psicoanalisi fuori le mura” (la lettura del presente fuori in comunità), ritenendo importante dialogare con questo pezzo di società, conoscerne la storia e darsi il tempo per lasciare sedimentare in noi il tutto.
Una delle questioni più sentite è la messa in discussione del dimorfismo sessuale (M. De Leo, 2021) che sta sollevando importanti questioni per lo sviluppo stesso della comprensione dell’umano. Spesso chi conosce poco le tematiche di genere tende a confondere i tre piani: sesso biologico, identità di genere, orientamento sessuale. Le distinzioni nette e i pregiudizi andrebbero evitati, ed evitato quel cristallizzarsi in idee preconcette per restare aperti e curiosi alle differenze e peculiarità. Da sempre, anche all’interno della comunità Queer, le tematiche di genere hanno prodotto conflitto e scomodità; il rapporto tra persone “T” e il resto della comunità Omosessuale è sempre stato marcato dalla differenza e per questo si sono create delle spaccature ideologiche molto forti. In questa lunga diatriba sul genere è intuibile lo sforzo di ciascuna delle parti per sentire riconosciuta la propria specificità.
La relatrice elenca alcuni significativi dati demografici per supportare l’esistenza di un fenomeno consistente e generazionale che ha numerose sfumature da nazione a nazione.
Ribadisce il fatto che, trattando questioni di genere, quel che più conta è potersi mantenere al riparo da posizioni troppo ideologiche e preconcettuali.
Propone allora due questioni che orientano la navigazione: esorta ad uscire dai propri studi per riflettere sulla vita in cui si è immersi e a contare su di una neutrale attitudine esplorativa, frutto di un lavorìo interno quotidiano.
A tal riguardo si domanda se l’idea patologizzante che abbiamo delle persone T non sia dovuta proprio ad un’assenza di neutralità. La legge n. 164/82 è stata la prima in Italia a introdurre la possibilità di cambiare genere segnando un graduale, seppur combattuto, riconoscimento del genere come un costrutto distinto dal sesso biologico e che fosse dunque un diritto del cittadino riconoscersi nel genere a cui sente di appartenere.
La parola passa a Luca Bruno per centrare la seconda parte dell’intervento sui cambiamenti del corpo e delle sue rappresentazioni.
Riprendendo le parole della Cordioli ripensa al ruolo che hanno avuto gli artisti nella ridefinizione del corpo e dell’identità di genere, in quanto ambito che ha a che fare con la cultura e la psiche e non con la biologia.
Oggi quasi tutto tende a trasferirsi in rete, anche la comunicazione interpersonale (chiaro riferimento alle analisi da remoto), anche il corpo e infine le nostre identità. In questo scenario il corpo sembra essere diventato luogo di mutazione, al confine tra natura e cultura, corpo ibrido, in transizione. Il progresso in campi come comunicazione (virtualità), biologia e medicina rende anacronistica la difesa del binarismo di genere e la negazione della fluidità di genere, ora ampiamente evidente.
Il relatore segnala quanto ci troviamo dentro a una “trans-umanità” con affaccio su una “post-umanità” fatta di organismi cibernetici, nati dal rapporto fra biologia ed elettronica, fra corpo e macchina, il tutto peraltro ben rappresentato dall’arte cinematografica. Questa premessa per arrivare a sostenere che le nuove categorie dell'umano si trovano tra l'affermazione della libertà personale illimitata e le nuove prigionie (l’utilizzo di tecnologie come telefoni e computer che vengono inseriti nel corpo e sono sempre connessi) e dunque che il genere è influenzato anche dalla cultura.
Dopo una rapida carrellata di esempi in cui il corpo si trova al centro sia dell’area identitaria che dello spazio sociale, afferma che ogni identità (fluide, trans, cis..) può poggiarsi o strutturarsi su aspetti psicopatologici, così come possono anche corrispondere alla personale possibilità di vivere in modo integro, sul piano somatopsichico, l’immaginario, la realtà e le complesse vicende pulsionali che sono alla base della nostra stessa possibilità di essere e di desiderare.
Dunque, la questione dell’identità è strettamente correlata a quella delle differenze e quando diviene fluttuante non necessariamente corrisponde a uno stato di confusione o di perdita delle differenze, ma può significare maggiore possibilità di inclusione e concorrere a stemperare le diversificate forme di fobia, che promuovono pregiudizio ed emarginazione.
Passa a parlare dell’adolescente, asserendo che la questione si fa più complessa, in particolar modo sotto il profilo terapeutico; proprio perché il corpo in adolescenza è il luogo privilegiato della ricerca identitaria, della rivolta, espressione incarnata del conflitto, per definizione ha a che fare con un’identità incerta e naturalmente fluida. In questa fase può essere più complesso discriminare aspetti psichici già definiti e strutturati da altri ancora compresi all’interno di un’area di grande mutevolezza.
Solo dal 2000 la psicoanalisi ha avviato una revisione teorica dei concetti di sessualità e di genere e da alcuni anni gli psicoanalisti hanno iniziato a de-patologizzare le esperienze transgender e transessuali. È vero anche che l’impatto delle esigenze narcisistiche rende meno definite le identità maschili e femminili, materna e paterna. Difatti, il corpo dei pazienti transgender può essere sostenuto in senso costruttivo dal narcisismo e quindi essere espressione autentica di sé, ma può in altri casi essere corpo della colpa o della vergogna e ripudiato da se stessi oltreché dalle ostilità ambientali.
Segue una breve riflessione sul corpo dell’analista a contatto con il corpo transgender o gender fluid. Bruno dichiara che l’analista può assumere una certa rigidità psichica e trasmettere ai pazienti le proprie posizioni personali, mostrando intolleranza, scarso contenimento e idee che non si adattano al caso. Si ipotizza che questi pazienti riattivino nel terapeuta aspetti rimossi e non sempre del tutto elaborati della bisessualità. Inoltre, si osserva l’emergere del vissuto del perturbante: “di fronte al corpo transgender o gender fluid l’analista può sperimentare il vissuto del perturbante nel ritorno di aspetti conflittuali rimossi riguardanti il sessuale e la sessualità infantile e trovarsi a vivere una transitoria dissociazione tra sesso e genere”. Anche rispetto al suo atteggiamento verso il paziente, l’analista potrebbe vacillare tra accoglienza e rifiuto.
Segue un primo giro di domande dal pubblico presente in sala che sollecitano Cordioli a sottolineare la necessità, di fronte a un paziente fluido, di tenere presenti i fattori interni ed esterni che possono disturbare l’Ascolto, oltre all’importanza di prendersi un periodo di seria osservazione del fenomeno (fuori delle mura) per non rischiare di decidere attorno a fenomeni che non abbiamo propriamente capito: una fatica che è molto importante disporsi a fare; non obliterare gli aspetti patologici, bensì allargare la possibilità dell’ascolto, nemmeno polarizzandola in senso positivo, per trovare un assetto il più indicato per quel paziente.
Dalla sala una domanda su come utilizzare il linguaggio, posto che si potrebbe involontariamente colludere con aspetti onnipotenti e quindi incappare nel rischio di una manipolazione e/o confusione. Per questo i relatori si rifanno alla posizione di ascolto analitico, la quale prevede anche la capacità di tollerare per un po’ l’ignoto, di vivere nell’incertezza senza troppo preoccuparsene, anche se molto spesso per lunghi periodi, poiché tutte quelle decisioni che ruotano attorno a queste questioni hanno un significato che va pensato.
La seconda parte del seminario avrà un taglio più clinico e viene introdotta dal dott. Bruno il quale espone l’ipotesi della presenza di un nucleo precoce di tipo melanconico (senza intento diagnostico) che potrebbe essere presente in molti di questi pazienti.
Aspetti melanconici sembrano caratterizzare un’ampia parte del funzionamento psichico di transgender e transessuali. Molti pazienti transgender e gender fluid presentano fantasie suicidarie e consistenti nuclei di colpa, vergogna o perdita, talora coperti da difese ipomaniacali. Alcuni temi delle loro associazioni e dei loro sogni hanno a che fare con immagini di morte, di perdita, di caduta, di malformazione o decomposizione che investe il sé e in parte gli oggetti. L’ipotesi sostenuta da Bruno è dunque quella dell’esistenza di un’area di funzionamento psichico precoce, di tipo melanconico, connessa con l’inconscio non rimosso, nel quale possono trovare sviluppo aspetti centrali dell’identità transgender e gender fluid. Quest’area molto spesso può essere il deposito sia di sofferenze e fantasie transgenerazionali legate alla perdita, sia di un’antica ferita dell’infans nelle prime relazioni di cura, che interferiscono nella strutturazione dell’identità. Aggiunge che in un’area di funzionamento melanconico siano maggiormente sollecitate le oscillazioni identificatorie e identitarie. In essa, in quanto area poco differenziata, si osserva una maggiore possibilità dell’espressione di una varianza delle identità di genere. Accenna rapidamente ai modelli teorici che hanno suggerito e condotto a questa ipotesi prima di concedere spazio alla clinica. La parola passa poi a Cordioli che parlerà dell’aspetto maniacale. Tratterà più la fase di latenza su quello che di essa e delle sue funzioni specifiche, comprese quello dell’abbassamento delle luci sulla sessualità e sull’Edipo, può o meno determinare rispetto a dei fenomeni che, con maggiore frequenza, oggi osserviamo. Rimanda ancora al compito di essere in una posizione libera poiché una quota di polemizzazione è molto alta: questi pazienti (in particolare i giovani gender fluid) tendono a sfidare spesso il terapeuta in un “corpo a corpo” al quale, in un assetto di ascolto analitico, si può rispondere in una maniera più aperta e adulta.
Cita la Guignard quando scrive che “l’uscita da un punto cieco avviene, nell’analista, in un movimento di protesta identitaria, mediante il quale egli si sgancia dalla sua identificazione proiettiva con gli oggetti interni del paziente”. Aggiunge che il problema è che il terapeuta spesso accetta questa identificazione proiettiva e dunque il corpo a corpo il quale è un agito, un’obliterazione del pensiero e del nostro assetto.
Il rischio è di velocizzare l’angoscia dei ragazzi che fanno sentire il terapeuta disarcionato e a rischio, in quei casi, di un’effrazione del pensiero. Il punto è cercare di rispondere alla domanda “questo corpo a corpo che sintomo è?”. Non esiste più la fase di latenza pertanto non è possibile smettere di occuparsi dei propri fantasmi edipici e non c’è dunque un momento in cui il bambino può occuparsi di esser anche altro. Implicati in questo sono gli adulti quando non lasciano ai bambini la possibilità di avere la latenza, invadendo con i loro fantasmi il mondo interno del loro bambino. Questo si ripete poi anche nella stanza di consultazione quando il terapeuta si trova a fare lo stesso gioco dei genitori a casa.
In che modo, si chiede la relatrice, “noi possiamo non divenire obliteranti della latenza e della rimozione e sperare di portare un contributo in qualche modo evolutivo?” A questo punto a supporto delle sue idee, porta anche lei delle esemplificazioni cliniche.
Qualche intervento dal pubblico prima di concludere il seminario, dal quale emerge la mancanza dei paradigmi teorici e dell’esperienza.
Bruno soffermandosi sull’analisi dei più complessi fenomeni identitari, connessi alle questioni di genere che osserviamo in molti adolescenti (verso i quali esprime gratitudine), pensa possano rappresentare proprio un fertile campo di indagine per arricchire il nostro bagaglio teorico e il pensiero. Rilancia la questione che in analisi sospendere il giudizio, a maggior ragione con un paziente T, sia un elemento fondamentale. Prima di concludere si ribadisce l’importanza di momenti di confronto come questo, buone occasioni per continuare a conoscere il “nuovo” che ci si presenta.
Con le belle parole della Cordioli, si chiude questo interessante oltreché istruttivo seminario: “Abbiamo bisogno di un corpo che sia pienamente soggettivo e non impersonale e alieno, un corpo che possa incarnare davvero la nostra esperienza soggettiva.”