Sabato 14 maggio si è tenuta al CPB una giornata di studio dedicata alle Molteplici Figure della Depressione. La mattina, Benedetta Guerrini Degl’Innnocenti, Psichiatra e Psicoanalista di Firenze, ci conduce nel complesso tema del trauma della nascita nella famiglia; lo fa in modo lieve ed al contempo approfondito, lasciando nell’uditore una miriade di suggestioni che probabilmente lo potranno accompagnare nell’ascolto e nell’osservazione di questo peculiare momento della vita della donna (intesa anche ma non solo, come diade madre e bambino) e della famiglia.
La Dott.ssa Guerrini Degli Innocenti, citando Birksted-Breen (1992), ci dice che la gravidanza è in realtà un periodo di conflitti inevitabili, una lotta fra la vita e la morte, tra l’odio e l’amore, in cui gli attori del dramma interiore cambiano in funzione della storia personale e delle circostanze del momento. Questo momento può offrire alla donna la possibilità di elaborare i suoi conflitti interiori e di rivalutare i suoi rapporti, di modificare la percezione di sé e degli altri e di integrare questo nuova esperienza in un processo di cambiamento che la porterà a non essere più la stessa persona di prima. Al contrario una donna incapace di integrare le esperienze e di cambiare incontrerà difficoltà gravi nel corso della gravidanza, del parto ed anche in seguito. La gravidanza dunque può rappresentare un momento di crescita psicologica, ma se tale momento per svariate ragioni è ostacolato, può condurre alla depressione, alla psicosi o alla morte del bambino. In particolare la prima gravidanza rappresenta un turning-point nel ciclo vitale femminile e della coppia. L’identità femminile e quella della coppia sono travolti da emozioni inondanti e vissuti di trasformazioni ingovernabili; nell’ottica della separazione-individuazione la maternità comporta una più articolata individuazione di se stessa come donna e come madre ed una ulteriore differenziazione dei propri confini personali e del proprio spazio interno nei confronti della propria madre, del partner e delle altre figure di riferimento.
Nel corso della gravidanza si verifica altresì un aumento della permeabilità tra la sfera somatica e la dimensione psichica, che determina quella che Winnicott (1987) ha definito “preoccupazione materna primaria” , che si sviluppa a poco a poco nel corso della gravidanza, per raggiungere un elevato grado di sensibilità verso la fine, perdurando alcune settimane dopo la nascita del bambino. Ricordando i lavori di Deutsch, Racamier e Vegetti Finzi, la collega ci illustra le varie teorie che analizzano il bambino reale ed il bambino immaginato dalla madre e dalla coppia, per portarci poi nel campo della patologia legato appunto alle possibili evoluzioni di tali rappresentazioni; citando Pazzagli e coll. (1981) approfondisce tre aspetti che caratterizzano lo stato psicologico della madre dopo la nascita del figlio: 1) la perdita, per cui la donna vive il parto sia come perdita di una parte del proprio corpo, con la quale si era completamente identificata, sia come una brusca intrusione del reale all’interno dell’unità biologica creatasi nel corso di nove mesi di attesa. 2) La disillusione derivante dalla percezione di un inevitabile scarto tra il bambino reale e quello immaginato. 3) la regressione in simbiosi. E’ dall’integrazione ed elaborazione di questi tre aspetti che è possibile superare la crisi d’ identità connessa alla maternità. Prosegue illuminando il contributo di vari autori, tra cui Ammaniti (1992), che sottolineano come l’acquisizione del ruolo materno emerga da un profondo lavoro rielaborativo e consenta alla psiche della donna di predisporsi in un assetto materno caratterizzato da profonde ed intense esperienze emotive.
La relatrice ci propone poi una descrizione approfondita e ricca di vignette cliniche capace di illustrare come ed in quali momenti tali processi, che necessitano di un enorme lavoro psichico, possono “incepparsi” ed esitare nella patologia. Le forme del disagio si possono collocare lungo un continuum che va dal Maternity Blues per arrivare al polo opposto, a situazioni nelle quali la frattura dell’unità materno-fetale esita in una frattura del reale stesso. All’insorgenza di disturbi nel post partum sembrano concorrere numerosi fattori, non ultimi i repentini sbalzi ormonali; ma non tutte le donne sviluppano depressione. Brown e Harris (1989) hanno identificato quattro fattori di vulnerabilità specifica: 1) la perdita della madre prima degli 11 anni; 2) la mancanza di una relazione intima coniugale; 3) la mancanza di un lavoro retribuito; 4) tre o più figli sotto i 14 anni.
Infine l’analista ci ricorda con Winnicott e Bion che lo sviluppo del bambino è un evento relazionale: non esiste un bambino ma esistono solamente una madre ed un bambino; ma per alcune madri, l’inevitabile dipendenza che questo comporta può essere profondamente minacciosa. Conclude là dove ripartirà la collega Diomira Petrelli, citando Green che ci parla di una madre presente ma psichicamente morta. Emerge forte l’indicazione ad una maggiore attenzione sulle madri nel delicato momento del post partum. La collega suggerisce l’utilità di potere osservare coppie madre-bambino al fine di individuare precocemente segni di disagio. Sottolinea come questi interventi potrebbero rappresentare una reale attività di prevenzione allo sviluppo di successivi disturbi psicologici/psichiatrici sia nella madre che nel bambino.
(Federica Zauli)
Nel pomeriggio avvicinarsi con Diomira Petrelli alle aree devitalizzate e sofferenti della depressione infantile è stato un viaggio molto coinvolgente tra la teoria e la tecnica della psicoanalisi infantile, accompagnati da un’analista appassionata e generosa capace di trasmetterci in viva fabula come la storia del pensiero psicoanalitico nasce, vive, si sviluppa in un continuo incessante intreccio con l’esperienza clinica nel laboratorio della stanza. Come la metapsicologia è narrazione concettuale della vita mentale incontrata nel lavoro analitico che a sua volta alimenta tensione di ricerca ed esplorazione epistemologica. Ma anche come la teoria diventa bussola necessaria per non soccombere tra i tifoni dell’esperienza emotiva che ci si può trovare a sperimentare nell’hic et nunc della pratica analitica, come può accadere al lavoro con bambini e adolescenti che cercano di sopravvivere all’angoscia terrifica dell’agonia depressiva.
Diomira Petrelli inizia a raccontare e l’uditorio si ritrova immerso e affascinato in un’ amena passeggiata a tu per tu con i grandi pensatori che hanno reso la Psicoanalisi una scienza. Si parte da Freud e dalle sue prime illuminanti osservazioni sull’etiologia relazionale della depressione riconosciuta come impossibilità di elaborazione di un lutto e separazione dall’oggetto perduto: l’ombra dell’oggetto ricade sull’io e se ne fa sole nero che toglie luce, vita e respiro. Ma eccola, Melanie Klein, che iniziando a lavorare analiticamente con i bambini, nel caos della stanza d’analisi devastata da lanci, distruzione e frammentazione di ogni tipo di oggetti, intuisce la tremenda esperienza di frammentazione che viene vissuta da un bambino in uno stato di depressione. Depressione che comincia ad essere pensata come a una perdita che porta a un’identificazione con oggetti interni morti, ma anche a una disgregazione del mondo interno che, attraverso il processo di elaborazione del lutto, deve ricostituirsi e ristrutturarsi, nella ritessitura di nuovi legami. Processo di elaborazione del lutto che a volte passa quasi necessariamente per una fase di difesa maniacale, evidenziata da Freud nelle sue sfumature liberatorie, da M.Klein in quella sua aura di trionfo che è diniego della relazione e dei bisogni affettivi,a volte rallentante o ostruente l’accesso a quella posizione depressiva necessaria per l’avvenire psichico dell’elaborazione della perdita. Il saluto ai due progenitori viene dato constatando che su un punto concordavano pienamente: è l’esame di realtà e, per la Klein, anche l’ acquisizione di nuove capacità cognitive, il vero produttore e regista di quel processo lungo e travagliato che è l’ elaborazione del lutto.
Non dimentico di quel bambino che avanzò nel suo ambulatorio invocando: “Dottore devi vedere la mamma perchè ha male alla mia pancia”, D.Winnicott focalizzò la sua attenzione esplorativa sulla complessa costellazione psichica madre/bambino. Fu così che in quelle così frequenti coppie di madri gravemente depresse e bambine seduttive, brillanti di bellezza e intelligenza scannerizzò la difesa maniacale messa in atto dalla bambina in funzione di difesa dalla depressione della madre. Una dinamica di essere, esistere in funzione dell’altro che spesso progredisce, silente e nascosta, fino a strutturarsi in un pericoloso ribaltamento dei ruoli e nella corazza di un falso sè che comincia a mostrare esiti esiziali in adolescenza o nella prima età adulta.
Avvicinandoci alla fine del secolo scorso e della scampagnata teorica, c’imbattiamo in quel “complesso della madre morta” che A.Green si trovò a descrivere partendo dal ripetersi di un’esperienza transferale depressiva attraversata in lavori analitici con pazienti adulti che sembravano aver subito la perdita improvvisa di una relazione mentale vitale con la madre. Bambini che verso i 2/3 anni si ritrovano al cospetto di una madre che sembra essere divenuta tutt’a un tratto assente, distante, perchè assorbita internamente da un lutto, spesso coperto da segreto. Bambini che, dopo ripetuti tentativi di rivitalizzare la madre, sembrano ritirarsi risentiti, in un disinvestimento della figura materna che implica anche l’innesto di un’identificazione mortifera. Bambini che, inabili a comprendere e quindi a significare la brutale trasformazione materna, rimangono portatori muti di un’area depressa che è buco attorno a cui brulica attivismo e autoerotismo. E siamo così già scesi nei giardini della clinica, spettatori di quei diversi quadri sintomatologici con cui la depressione infantile può manifestarsi e chiedere aiuto nella stanza d’analisi: differenze che sembrano molto correlate all’età ma anche al genere sessuale. L’empirica clinica ci fa riscontrare spesso come il bambino depresso tenda a ricorrere più all’iperattività per cercare di evacuare vissuti depressivi intollerabili, mentre è facile che la presenza di una sofferenza depressiva sia più difficilmente riconoscibile in una bambina, per una tendenza al ritiro nel mondo interno e allo sviluppo maniacale di una modalità bella, brava, intelligente sintonica con ideali ed esigenze parentali e dei gruppi di riferimento. E’ più frequente, quindi, che il bambino iperattivo giunga in terapia, per l’effetto altamente disturbante dei suoi sintomi, mentre la bambina corre a lungo il rischio di non essere vista nella sua sofferenza, al massimo svelata da sintomi psicosomatici-ipocondriaci. Fondamentale, puntualizza Diomira Petrelli, la diagnosi precoce nell’infanzia: una depressione infantile non identificata e curata facilmente evolverà e porterà alla strutturazione di organizzazioni difensive potenti, in adolescenti che spesso si ritrovano nella trappola di violenza e tossicomania (soprattutto maschi) o nella prigione di un’anoressia che forse incarna in corpo l’esperienza di una madre “morta-vivente.” Adolescenti che poi sarà molto più difficile contattare analiticamente, perchè tendenti alla fuga e all’evitamento di un lavoro analitico che invece è più semplice realizzare con un bambino. Aperta la sua stanza d’analisi, la psicoanalista al lavoro ci da anche preziose indicazioni tecniche: evidenzia per esempio l’importanza cruciale di svolgere una ferma funzione di contenimento anche fisico con i bambini iperattivi, per permettere loro, fermandosi, di poter cominciare ad accedere a un contatto emotivo con sè stessi che può essere anche scoperta di una creatività mai sperimentata.
Breve per limiti di orario, ma molto partecipata la discussione in sala: raccolta di tanti pensieri e nuove curiosità sbocciati nell’ascolto.
Il lungo applauso finale forse esprime la gratitudine e il piacere provato dal pubblico numeroso in questa breve, intensa diretta dalle regioni teorico-cliniche che animano la Psicoanalisi Infantile: entusiasma la capacità di quest’ analista partenopea di trasmettere la qualità scientifica, vitale e terapeutica del mestiere analitico con l’esempio della sua nutrita, feconda, lunga esperienza.
(Violet Pietrantonio)