Sabato 11 Febbraio.
Filippo Marinelli introduce il IV Dialogo Internazionale dedicandolo al ricordo del dott. Angelo Battistini venuto a mancare da poco, presenza viva e creativa per i colleghi e gli allievi.
Il titolo di questa edizione è nato considerando i diversi modi di porre le interpretazioni al paziente. Quali sono le parole che servono per poter comunicare (in modo affettivo) ad una mente non abituata a scandagliare se stessa? Le parole le cogliamo nel tono e nella musicalità della voce, nella postura, nella presentazione (anche fisica, non solo verbale) e in altre sfumature del paziente. Come possiamo portare le nostre parole in modo affettivo e poetico?

Bernard Golse: L’enunciato, l’enunciazione e la musica in materia d’interpretazione nel lavoro con i bambini piccoli

Il termine poiesis significa l’azione di fare, la creazione e la produzione, in particolare di opere d’arte. Il senso del termine è legato al “mettere fuori da”, al “condurre verso”. Avere in mente la musica e il ritmo nel lavoro psicoanalitico con i bambini piccoli (terapie congiunte genitori/bambini piccoli) porta a pensare al linguaggio come ad un atto di parola, non solo come un messaggio. Le attuali teorie della comunicazione distinguono una comunicazione analogica da una digitale; la prima è fatta da aspetti infra o preverbali (prosodia, timbro, intensità, tono, velocità, silenzi) invece la seconda si basa su aspetti verbali. La comunicazione analogica sarebbe supportata dall’emisfero destro mentre la comunicazione digitale dall’emisfero sinistro. Il linguaggio umano associa i due tipi di comunicazione, ma la parte analogica del linguaggio è intesa come la parte non verbale. Il bambino è più sensibile alla parte analogica del linguaggio adulto e questa stessa sensibilità la si riscontra nel lavoro analitico con i pazienti autistici o con funzionamento arcaico. C’è un filo rosso che unisce la metapsicologia freudiana e i lavori più specifici in età evolutiva ed è il concetto di amnesia infantile, o di rimozione, che può essere inteso anche come primato dell’analogico sul digitale nel campo della crescita e della maturazione psichica del soggetto. Il bambino non aspetta le parole per comunicare, comunica con il suo corpo e con il suo essere. C’è tutto un meccanismo di traduzione per permettere la trasformazione dei ricordi analogici (memoria vissuta) in ricordi digitali (memoria parlata) e ogni volta che c’è una traduzione, come diceva Laplanche, si perde qualcosa. Golse mette in evidenza l’importanza della rappresentazione dei legami con l’oggetto. Un oggetto che è si può intuire tra il sentimento di essere (preoggettuale) e quello di esistere (oggettualizzato); è quindi pensabile una terza topica dei legami.
Golse propone una “diffrazione” della rappresentazione dell’oggetto su tre livelli: rappresentazione mentale del posto dell’oggetto, rappresentazione mentale dei legami all’oggetto e rappresentazione mentale dell’oggetto propriamente detto. Bion parlava di “preconcezione” e Lebovici sosteneva che l’oggetto è investito prima di essere percepito. Questi aspetti di precocità ci spingono ad andare verso una topica perinatale della rappresentazione mentale del legame. Golse propone di superare la scissione tra interpersonale e intrapsichico e di avvicinarci ad una topica intrapsichica degli inizi della vita. Appoggiandosi agli studi di Kaës: per il bambino piccolo non c’è rappresentazione di sé che non sia nell’interazione con l’altro e non esiste nessuna rappresentazione dell’altro che non sia in interazione con sé. La rappresentazione del legame è all’interfaccia tra l’intersoggettivo e l’intrapsichico. La sensorialità fetale si sviluppa durante la gravidanza. A tal proposito Maiello mette in evidenza l’esistenza del fenomeno di discontinuità e l’irregolarità della voce materna che permette la nascita di una pre-forma dell’assenza-presenza durante la vita postnatale. La voce materna è l’unico stimolo che arriva contemporaneamente dall’esterno e dall’interno ed è “un oggetto sonoro prenatale”. La voce fa parte della musica del linguaggio. Se si pensa a tutti quei momenti nella seduta in cui c’è un caos di suoni e poi gradualmente emerge una frase cantata, che sommerge e domina il caos, possiamo ritrovare dei rimandi con queste prime fasi di sviluppo. Nel lavoro con i bambini piccoli, il setting della terapia serve da enzima esterno che favorisce lo sviluppo dello spazio interno. Quindi è preferibile un primo tempo di verbalizzazione, a volte molto lungo, tenendo presente che sono pazienti molto sensibili alla parte analogica. Ogni parola può essere “piena” (nozione più emotiva che simbolica), accordandosi o meno con il clima affettivo del mondo interno del paziente. Nelle terapie congiunte gli interventi del terapeuta devono toccare contemporaneamente il bambino e i suoi genitori, mettendo in evidenza il legame, tra aspetti del linguaggio più analogici e altri più digitali. Il lavoro e gli studi con il bambino piccolo possono aiutare l’analista nel setting della cura degli adulti.

Irene Ruggiero: Risonanze silenziose, quando la parola tace

Nel corso del tempo si è evidenziato che sono sempre più numerosi i pazienti caratterizzati da limitate capacità simboliche, questo ha richiesto all’analista un’estensione dell’ascolto analitico, passando da un ascolto acustico a un ascolto con tutti i sensi. Un ascolto che include i silenzi, la postura, i gesti, il tono della voce. I pazienti riproducono in analisi sensazioni sperimentate prima che si sviluppi la capacità di usare il linguaggio quindi si è distanti da una comprensione a livello cognitivo. Ci troviamo più in un campo di conoscenza esperienziale in cui si crea un’atmosfera emotiva fatta di atteggiamenti e di gesti impliciti che possono restare a lungo silenti. Come si dicono le cose, soprattutto all’inizio, diventa più importante di quello che si dice. Il silenzio, elemento essenziale nel dialogo analitico: può essere necessario, occorre stare a maggese, può essere uno stato psichico di recettività, ozio, è abitato da immagini, a volte non c’è subito un significato chiaro e bisogna stare senza troppe interpretazioni. Ci possono essere delle situazioni di unisono, nelle quali il paziente e l’analista si fondono e qui è il tatto dell’analista (Carloni) che lo aiuterà di volta in volta a tacere o a parlare per un buon funzionamento della coppia analitica. La capacità di riconoscere il paziente come altro da sé, nel momento in cui lo si comprende dal di dentro, è cruciale per l’analista perché permette di riconoscere una propria soggettività e la separatezza dell’altro. Ci possono essere configurazioni fantasmatiche che il silenzio esprime e nasconde che possiamo vedere all’opera solo nella clinica. Ruggiero dipinge una situazione clinica con una dissonanza cognitiva, in cui lei non capiva quel che le accadeva sul piano somatico e sul piano cognitivo. Accettando di stare in silenzio e di essere anche un po’ distratta, è stato possibile trovare un senso profondo a queste sensazioni. Si tratta di risonanze silenziose, in cui il terapeuta resta vivo e fa delle leggere verbalizzazioni, non intrusive, tollerabili che evidenziano sensazioni ed emozioni. Il silenzio nel processo di trasformazione dal rappresentato al rappresentabile diviene un terreno di germinazione per una comunicazione verbale.

Pomeriggio: chair Daniela Battaglia

Salman Aktar: Morbidi diamanti

Aktar mette in luce l’esistenza di due figure che hanno un rapporto ravvicinato con la narrazione: il romanziere e il poeta. Entrambi con modalità diverse entrano in contatto con gli aspetti emotivi, musicali e inediti, della parola e del racconto che il paziente offre loro. L’autore specifica che tratterà il linguaggio poetico in linea con quella che è stata la sua storia familiare (proviene da una famiglia di poeti) e quella che è la sua pratica analitica odierna. Il poeta entra in sordina nella scena, una specie di trance, e sono quattro elementi che sottostanno ad una creazione poetica: la fede, la pazienza, l’accettazione dell’inatteso e la curiosità benevola che agisce lentamente. Partendo da una vignetta clinica Aktar evidenzia come delle parole in seduta possono diventare linguaggio poetico, anche se nello schema lessicale non c’è nulla di poetico, ma lo divengono per la prosodia, la sospensione benevola del giudizio, la metafora, l’affidamento ad un inconscio aperto e ricettivo di ciò che si ascolta, l’accettazione di interlocutori immaginari. Questo prevede che a volte questo tipo di lavoro sia manifesto solo in parte e che l’analista entri in uno stato interno particolare, assimilabile a una trance. In un altro caso clinico l’autore mette in luce come nello scambio con il paziente, il ricorso ad oggetti immaginari, per formulare un’interpretazione, può anche portare alla nascita di un soggetto immaginario che aiuta a mettere in scena situazioni, sentimenti e scenari. Non vuole dare esempi di virtuosismo tecnico, ma spingere a riflettere sulla nascita di uno stato giocoso tra l’analista e il paziente, simile al sogno, in cui il linguaggio poetico è un mezzo di comunicazione e solo nell’ultima parte del messaggio a volte si può ritrovare una modalità poetica di parlare. Aktar parla non solo di linguaggio poetico e dei legami con il transfert e il controtransfert, ma anche di esemplare poetico, ossia la recitazione vera e propria, di una poesia in seduta. La psicoanalisi e la poesia tentano di trasformare l’inaccessibile, l’orrendo, il tormentoso in elegante e condivisibile attraverso la traduzione dei sentimenti in parole. Si può anche dire, esagerando, che la poesia è una psicoanalisi unipersonale e la psicoanalisi è una poesia bipersonale. Perché morbidi diamanti? Lo psicoanalista americano Arlow diceva che lo psicoanalista dovrebbe avere “un cuore tenero e una mente forte” quindi gli ingredienti importanti nel nostro lavoro sono una ricettività senza riserva, non giudicante e gentile, ma anche curiosità, scetticità e incisività. Wright afferma che la tecnica analitica ha un polo materno (esemplificato da Winnicott) e uno paterno (esemplificato da Freud) e tra questi si oscilla. I morbidi diamanti evocano un paradosso, quello degli scambi puri, misteriosi ed effimeri ricchi della luce invitante tipica delle pietre preziose, senza l’arrogante durezza e l’imperiosa permanenza.

Stefano Bolognini:Sulla cosità delle parole. Evocare, accordare, creare.

L’autore evidenzia come il processo di poiesi (inteso come “un farsi”, “un prodursi” più libero e creativo della prassi) faccia parte del nostro lavoro di analisti e sia un misto di esperienza, di esperimenti e di ricerca che può svolgersi in tanti modi. Si tratta di un percorso influenzato dalle nostre teorie di riferimento, ma soprattutto da quello che siamo, come lo siamo, da come è il paziente e dallo stato della relazione in atto. Per una seduta abbastanza poietica ci devono essere almeno quattro personaggi dietro o davanti al paziente. L’autore fa un esempio: uno è il dottor Bolognini (il professionista competente), un altro è Stefano Bolognini (uomo di età avanzata, pronto ad accogliere dentro di sé, con risonanza modulata e sentita, ciò che porta il paziente non sentendolo troppo estraneo). Poi, c’è il ragazzo Stefano (il ragazzo, pieno di curiosità, a volte confuso ma vitale) e infine il piccolo Stefanino (edipico e pre-edipico con i suoi idiomi profondi, anche dialettali, il suo gruppo familiare). Sono parti studiate e conosciute, ma non è detto che in seduta le viviamo in modo integrato, poi il paziente a volte chiama in scena solo alcuni di questi personaggi seguendo un copione transferale spinto dalla forza del bisogno. Questo è il terreno quotidiano su cui si sviluppa la poiesi psicoanalitica e ogni tanto possono fiorire rari momenti di poesia. Non possiamo decidere di generare a comando questi momenti, ma possiamo comprendere qualcosa che può favorire uno scambio con l’altro, che evochi, che tocchi qualcosa che fino ad allora non era stato possibile avvicinare in uno scambio con-vivibile con un interlocutore.
Così le parole possono essere vuote, parole senza corpo, fredde, isolate, frammentate che non dicono niente. Bloccano, impediscono il contatto interno tra le rappresentazioni e le emozioni sia di chi le dice che di chi le riceve. A volte si tratta di formule rarefatte, fino allo stato gassoso, come castelli d’aria, parole astratte, alla ricerca di un elemento idealizzato e sovra-umano dissociato dai sensi. A volte queste parole hanno bisogno del recupero di “una cosità” umanizzante, anche grazie all’uso del dialetto e di una certa scherzosità. Ci troviamo nel campo del Sé esperienziale, la lingua dei nonni, del soma e del buon senso. Un altro elemento importante, perché le cose e le parole si combinino e si possa sviluppare così una poiesi in modo fertile, è la capacità di poter passare con agilità dal processo primario al quello secondario e viceversa (i Botella la chiamano regredience). Nel lavoro analitico con il paziente si sviluppa un Io centrale che entra sempre di più in contatto con un Sé infantile potendosi appoggiare ai contribuiti del preconscio. Bolognini prende l’esempio della “gattaiola” dove il padrone di casa (l’Io centrale) consente al gatto (il preconscio) di entrare e uscire e di potersi compiacere di questo movimento. Quando la nostra gattaiola funziona abbastanza bene in seduta le parole prendono corpo, acquistano consistenza, calore e ci possono dei momenti di creatività. Si scopre che le parole possono essere anche parole-ponte, parole-scambio, ricche di una ricchezza polisemantica. A volte la musica delle parole, può stordire l’Io difensivo del paziente e incantarci (cantarci dentro). Per concludere, non possiamo dimenticare che la poiesi psicoanalitica spesso può avvenire “per sottrazioni” ed essere fatta di “non parole”, ma di significativi silenzi e di azioni parlanti.

Annamaria Pietrocola


Domenica 12 febbraio – Tavola rotonda – chair Marco Monari

Franco D’Alberton, Introduzione alla giornata
Il Dr. D'Alberton apre la sua relazione accennando ai pazienti che sanno parlare ma che non sanno dire e argomenta alcune delle tesi di Piera Aulagnier (1975): il dire e il fare materni sono sempre in anticipo su ciò che l'infanzia può conoscere, l'offerta precede sempre la domanda, il seno è dato prima che la bocca sappia ciò che l'attende. La madre chiede un tributo all'Io del bambino che si forma con il proprio. La psiche materna è contenitore di un discorso condiviso ed ereditato che trasmetterà al bambino "le ingiunzioni, i divieti, e mediante il quale gli indica i limiti del possibile del lecito". La violenza primaria è l'azione psichica con la quale si impone alla psiche di un altro. una scelta, un pensiero o un'azione motivati dal desiderio di chi lo impone, ma necessario per chi lo subisce.
Secondo Stern (1995) un bambino inizia a strutturare il proprio Sé con quanto riflesso nel viso della madre. L'espressione "involucro proto-narrativo" si riferisce agli aspetti organizzanti della voce materna e restituiscono l'esperienza dell' "essere con l'altro". Mostra un breve video di una bambina di 35 giorni che, avvolta dall'abbraccio sonoro della voce materna (analogico), la calma.
A livello pre verbale e pre simbolico riscontrare coincidenze tra modalità percettive diverse produce una sensazione di familiarità e un senso di continuità dell'esperienza: ciò che accade in un momento dato, e ciò che è già stato vissuto, vengono messi in relazioni consentendo al bambino di costruirsi un'esperienza integrata di sé e degli altri. Sulla spinta della sintonizzazione affettiva ciò contribuisce alla formazione del senso di sé.
B. Golse individua tre livelli di narrativa pre verbale: la narratività sensoriale che si esprime nel registro "dell'essere", la narratività comportamentale che impregna ilegami primitivi madre-bambino, la narratività verbale che anticipa quella della parola.
Conclude richiamando il lavoro di Lacan e Winnicott sul rispecchiamento, una modalità con la quale il volto della madre fornisce uno specchio al bambino a partire dal quale inizia a costruire il proprio sé. Anzieu (1985) sottolinea l'esistenza ancora più precoce di uno specchio sonoro o di una pelle "uditivo fonica" che fornirà la capacità di significare e simbolizzare.

Daniela Federici,Brecce
La Dott.ssa Federici col suo lavoro apre al tema del "farsi" dello psichico: il buon esito delle cure primarie definisce la possibilità di una loro interiorizzazione, ma in mancanza di un'adeguata funzione paraeccitatoria vengono istituite barriere e scissioni che avviano alla ripetizione opponendosi alla significazione. È la qualità della presenza dell'analista che, portavoce della spinta al legamento e alla relazione, si oppone al "buco nero delle zone opache di pensiero".
In certi pazienti l'analista è inconsciamente chiamato a ripetere il ruolo della madre morta (Green), l'immobilità ricercata è un potente baluardo contro le spinte all'integrazione e costituisce un rifugio alla propria unicità (Aulagnier, 1975). L'analisi deve funzionare da nuovo sistema paraeccitatorio rispetto alla parola interpretativa che può esporre il paziente alla catastrofe. Il lento prendere corpo del senso e le trasformazioni da impressioni sensoriali a rappresentazioni attendibili e valide in cui ritrovare qualcosa di sé, portano il paziente a una verità più piena e autentica, sostenuta dal riconoscimento che conferisce senso di realtà alla vita psichica e alla relazione.
La breccia dell’après-coup può ospitare il processo di trasformazione che porta fuori dall'identico della ripetizione. Segue un toccante resoconto clinico, dove le parole appropriate consentono alle tracce senza memoria di acquisire rappresentazione di senso e potenza trasformativa, è il terzo tempo del trauma operato dall'analisi con le sue "irripetibili occasioni di ripresa trascrittiva". Parole significate e investite affettivamente che avviano ad una più compiuta interiorizzazione: "dall'essere il dolore all'avere un enorme ma pensabile sofferenza" (Racalbuto, 1994).

Luisa Masina, Il lungo viaggio in cerca delle parole
La relazione della Dott.ssa Masina inizia dal racconto clinico di un paziente che "viene da molto lontano", che era tornato nella propria terra d'origine abbandonata da tempo per cercare parole di "suono famigliare" intonate nei canti in "lingua madre". Introduce quindi il paradosso secondo G. Carofiglio per il quale benché la parola poetica si situi all'estremo opposto della precisione, è proprio questa che raggiunge l'anima senza mediazione, perché, come scrive Ogden, è quando parliamo in modo unico e preciso ad ogni nostro paziente che siamo esattamente l'analista di cui egli ha bisogno. La precisione della parola poetica nella cura nasce dalla sintonizzazione e dal ritmo che ha un valore strutturante protettivo rispetto alle irruzioni disgreganti delle angosce psicotiche la cui memoria risiede già nel battito cardiaco materno e nella sua funzione para-eccitatoria e di salvaguardia della continuità tra prima e dopo, tra lo stesso e il diverso.
Durante il trattamento analitico furono le qualità prosodiche del linguaggio, la vista e le azioni a portare la coppia ad accedere agli strati più profondi della psiche, "il luogo in cui il dolore mentale solitamente ha origine e risiede" (Akhtar, 2000).
Secondo Poland (2007), psicoanalisi e poesia condividono l'obiettivo di raggiungere attraverso le parole l'essenza dell'essere personale, aldilà delle parole stesse. La comunicazione di un messaggio implica necessariamente una sua traduzione e con essa trasformazioni inevitabili che comportano significati nuovi. La parola poetica che Akthar definisce un "balsamo per il dolore mentale" rende il soggetto più capace di tollerare la sofferenza perché apre al dialogo delle parti neglette di paziente analista.

Andrea Scardovi, Poiesi psicoanalitica e senso di esistenza
Il Dr. Scardovi approfondisce il concetto di poiesi psicoanalitica in riferimento al sentimento di "esistere realmente". Per Winnicott (1974): "l'alternativa all'essere è il reagire" e "il reagire interrompe l'essere e annienta". Sottolinea la distanza fra sentimento dell' "esistere", più legato ad un ambito oggettuale (Golse), ed "essere", più simile ai vissuti catastrofici di non esistenza, ponendo l'accento sui primi, con un invito a non trascurarne la portata. Esistenza e inesistenza, sono temi cardine della "psicopatologia dell'attualità", un tema esplorato anche nel già citato testo (Bastianini, Ferruta, Guerrini Degl'Innocenti, 2021). Si sofferma quindi sulla riflessione di Ogden inerente il passaggio dal paradigma epistemologico a quello ontologico della psicoanalisi più recente, dal conoscere all'essere, citando Anzieu (1996) che, ci ricorda, non esserci sentimento di esistenza senza una pelle comune, con particolare riferimento all'importanza vitale dell'Oggetto.
Interrogando il tema della caducità e della finitezza, un tema attuale nella clinica contemporanea, riflette sul piacere "che non riguarda soltanto una necessità interna del soggetto, ma la qualità vitale che egli trova, o meno, fuori da sé, ovvero nell'oggetto. Nel '25 Freud scrive che "il giudizio di qualità precede il giudizio di esistenza". Accostando arte, poesia e psicoanalisi, ricorda Rilke che scrive "compito dell'arte è dare forma alle cose, che diventano così, nella forma che ne dice la verità, reali per noi". "… le cose, prese nella loro caducità, attendono da noi una redenzione da una sorta di opaca inesistenza. Attendono di diventare finalmente reali". Anche il nostro compito come psicoanalisti è di dare forma alle cose che diventano così reali attraverso un'intimissima comprensione e trasformazione (movimento veicolare), al pari del lavoro invisibile ma prezioso delle api, "raccogliamo il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare d'oro dell'invisibile".
Citando il Dr. Zucchini in Res Loquens (2014), l'infant (colui che non parla ancora) viene ad esistere in un mondo e in un linguaggio che gli preesistono totalmente e che dovrà percorrere e fare propri. La rassegnazione al linguaggio comporta un movimento di appropriazione del mondo circostante.
Se le parti psicotiche inneggianti l'onnipotenza narcisistica e mosse dalle angosce di non esistenza si oppongono, spingono ad agire esprimendo comunque il tentativo di ritrovare dei segnali che, se investiti affettivamente, divengono segni in grado di ristabilire la comunicazione e così il sentimento di esistenza. La cura nella scelta delle parole, creare un modo unico di parlare con un paziente, è il lavoro analitico per la creazione di sé (Ogden, 2016). "La poiesi è una capacità di base del nostro arrivare ad essere", mette in relazione dinamica esterno e interno, sostiene e rende possibile un senso di esistenza.
Dalla rassegnazione secondo l'etimo di Zucchini alla commozione cui ci conducono le parole del Dr. Bolognini (2019): "Da un certo punto in poi nella loro evoluzione professionale gli analisti sono felicemente rassegnati a lasciarsi sorprendere dall'emergere non decidibile e non programmabile di soluzioni interpretative e intuizioni empatiche, dopo aver sospeso ogni atto intenzionale di ricerca ed essersi affidati all'attenzione fluttuante".
Lasciando spazio a ciò che ci attraversa avviciniamo il senso dei nostri limiti e confini, quel "senso di vita e morte nel transfert-controtransfert" che egli stesso definisce "la misura più importante dello stato del processo analitico momento per momento" (Ogden 2016).

Stefania Nicasi, La voce delle parole
La relazione della Dott.ssa Nicasi ci conduce a riflettere sull'importanza dello scegliere le parole e sul come le usiamo per favorire uno scambio autentico nei consessi e nella scrittura psicoanalitica, interrogandosi, infine, sulla voce delle parole.
Citando Foresti ci invita ad avventurarci nella sfuggente dimensione dell'oralità abbandonando quella rassicurante della scrittura, a ingaggiarci nella discussione, accorciando le distanze senza arrivare ai ferri corti ma, semmai, ad una "disputa felice" (Bruno Mastroianni).
Ricordando alcune parti dell'ultimo pensiero di Ogden in merito al paradigma psicoanalisi ontologica/epistemologica, propone che questi due aspetti possano essere considerati in felice oscillazione piuttosto che in "alternativa". Ferruta suggerisce il più mitigato "psicoanalisi esperienziale" invece che psicoanalisi ontologica.
Recuperando nella propria memoria di bambina il piacere delle parole del poeta Ungaretti che recitava in TV le proprie poesie e mostrandoci un filmato dell'epoca, si chiede però se sia davvero necessario rinunciare alle interpretazioni "classiche, alle spiegazioni e ai commenti e a tutto quel parlare quotidiano" che, insieme alla rêverie, costituisce un "lessico familiare" di fondo, originale e specifico di quella coppia al lavoro nella stanza d'analisi.

Stefano Lorenzi

We use cookies
Il nostro sito utilizza i cookie, ma solo cookie tecnici e di sessione che sono essenziali per il funzionamento del sito stesso. Non usiamo nessun cookie di profilazione.