Il ciclo di Seminari per gli esterni del Centro Psicoanalitico di Bologna dedicato ad Infanzia, Adolescenza e Genitorialità, si è concluso con una mattinata dedicata al tema delle consultazioni psicoterapeutiche genitori-bambini con il contributo di Franco D’Alberton, psicologo e psicoanalista S.P.I.-I.P.A, esperto in psicoanalisi del bambino e dell’adolescente.
D’Alberton, nella disamina introduttiva, ci porta a conoscere molteplici esperienze sviluppate in questo campo, in epoche e luoghi differenti del mondo, riconducibili ad una matrice psicoanalitica. Lungo questo itinerario si sofferma sulle specificità teoriche e tecniche differenziando i contesti territoriali in cui si sono sviluppate, ma anche illuminando le molte affinità sul piano metodologico di questi approcci clinici.
Si parte dai colloqui con la Baronessa Emmy von N in Studi sull’isteria che testimoniano come già Freud nella Vienna di fine ‘800, agli albori della psicoanalisi, avesse intuito come il sintomo affondasse le sue radici in una sofferenza transgenerazionale e come il permettere di raccontare liberamente la propria storia rappresentasse una opzione metodologica fondamentale, ancor oggi distintiva della psicoanalisi, per poter accedere alle ‘reminiscenze patogene’. E’ soprattutto Ferenczi che fissa l’attenzione sulle carenze ambientali precoci e parla di ‘cicatrice traumatica primaria madre-bambino’. Molti autori successivamente (Aulagnier, Abraham e Torok, Faimberg) parleranno di trasmissione transgenerazionale delle fantasie inconsce e dei fantasmi familiari, processo che, pur teorizzato in vario modo, pone al centro l’idea che, in quanto non rappresentate e non rappresentabili mentalmente nei genitori, tali fantasie finiscono per diventare patogene nel bambino attraverso il meccanismo dell’identificazione proiettiva, traducendosi in sintomo o patologia di sviluppo. E’ da quei pediatri, neuropsichiatri infantili, psicologi clinici e assistenti sociali che operando in ambito pubblico da una prospettiva psicoanalitica si erano posti il problema sia di individuare trattamenti che permettessero di raggiungere una quantità maggiore di pazienti sia d’intervenire precocemente, che arrivano i principali contributi alla consultazione psicoterapeutica genitori-bambini nella prima infanzia. Winnicott nel suo lavoro in ospedale dedica particolare attenzione ai colloqui psicoterapeutici con genitori e bambini che pur con una finalità diagnostica assumevano per lui una valenza terapeutica. Vi è poi la ‘grande stagione della pedopsichiatria francofona’ del secondo dopoguerra (Lebovici e Diatkine, Kreisler, Soulè, Ajuriaguerra, Dolto, Houziel) che fa delle consultazioni terapeutiche nella prima infanzia oggetto d’interesse strategico; l’esperienza inglese dell’Under Five Counselling Center della Tavistock (Miller) ed all’Anna Freud Centre gli studi sulla trasmissione transgenerazionale dei patterns di attaccamento (Fonagy, Target). Sono la scuola di Ginevra (Cramer, Espasa, Manzano) e, dall’altra parte dell’oceano, quella di Selma Fraiberg e dei suoi colleghi del Mental Health Programm di San Francisco (Shapiro, Adelson, Libermann, Silverman, Pawl) che spostano definitivamente il focus del trattamento sulla relazione madre-bambino. Entrambe le scuole sono impegnate a sviluppare interventi psicoterapeutici brevi – di sostegno allo sviluppo – che permettano una mobilizzazione psichica del genitore ambendo a modificare alcune rappresentazioni interne connesse con il ruolo genitoriale. Le ipotesi di lavoro e le metodologie sviluppate a San Francisco come a Ginevra - lavorando con popolazioni socialmente diverse - presentano ampi margini di sovrapposizione quali la centralità del ‘rimosso’ (‘il ritorno del passato nel presente’) come snodo cui accedere per avviare processi trasformativi nel genitore e la valorizzazione del contributo che il bambino può portare nel processo terapeutico del genitore. Fraiberg, lavorando nei sobborghi popolari della città, immagina la psicoterapia genitore bambino come un’esperienza correttiva di attaccamento per la madre promuovendo un suo appoggio al sistema curante; gli psicoanalisti di Ginevra, intervenendo soprattutto su madri appartenenti alla fascia sociale medio-alta, insistono sulla necessità di favorire la presa di contatto con le aree conflittuali connesse con le esperienze di bambino del genitore ‘consentendogli di ritrovare e recuperare un oggetto perduto il cui lutto è ancora conflittuale’ (Espasa & Manzano, 1982). In Italia, Dina Vallino, prendendo le mosse dal metodo dell’Infant Observation di Ester Bick mette a punto una metodologia che chiama consultazione partecipata, in cui i genitori partecipano ad un lavoro di piccolo gruppo che, a partire dalle osservazioni sul bambino/adolescente del terapeuta è finalizzato a favorire l’espressione della vita fantasmatica familiare ed a metterli a contatto con le stratificazioni immaginarie del sintomo. Viene citata, in ultimo, la recente esperienza di Normann e del gruppo di psicoanalisti scandinavi che lo hanno affiancato (Montelatici Pravtz, Salomomsson) che hanno ideato una ‘psicanalisi adattata ai requisiti del lattante in quanto analizzando in presenza della madre e del padre’ (Normann, 2004) in cui ‘le comunicazioni dell’analista nel corso dei trattamenti sono rivolte al bambino con l’intenzione di raggiungere il genitore utilizzando il campo analitico che prende forma attorno alla relazione genitore-bambino, genitore-analista, bambino-analista ed alle tematiche di transfert e controtransfert implicite in tutte queste relazioni’ (D’Alberton, 2017).
Ritroviamo nelle esemplificazioni cliniche di consultazione terapeutica genitore-bambino nella prima infanzia, il retroterra di esperienze di estensione del metodo psicoanalitico discusse nella relazione introduttiva. Nel presentare il caso, D’Alberton ci mostra un utilizzo della consultazione come ascolto liberamente fluttuante delle dinamiche affettive dei genitori in presenza del bambino all’interno di uno spazio per i genitori ed il bambino in cui l’analista mantiene uno sguardo binoculare costante sui racconti della madre e del padre e sui giochi del bambino. Si struttura così un contenitore psichico accogliente in cui analista, genitori e bambino possono darsi un tempo sufficiente affinché contenuti affettivi latenti, possano affiorare alla coscienza ed essere espressi. In questo modo si favorisce lo sviluppo di una tessitura di pensieri e comunicazioni inedite che, puntualmente, permettono di far emergere un nodo fantasmatico centrale correlato con il disagio nella relazione madre-bambino e con il sintomo o la problematica di sviluppo del bambino.
Il dibattito ha visto il coinvolgimento di molti operatori dei servizi: personale infermieristico impegnato nel lavoro con prematuri, neuropsichiatri infantili che operano nei presidi territoriali, psicologici impegnati nelle esperienze ‘under five’ della città di Bologna o comunque nei consultori materno infantili. In particolare si è posto l’accento sull’importanza di dare tempo, di ‘creare dei vuoti’ per fare emergere un dramma da ascoltare: è questa una condizione preliminare per poter aiutare i genitori di bambini piccoli alle prese con una problematica ri-organizzazione di ruolo determinatasi con la nascita di un figlio. Si constata da più parti come il trend in molte istituzioni sanitarie è quello di mettere il paziente e lo stesso operatore sotto pressione in nome di parole d’ordine come ‘efficacia’, ‘efficienza’, ‘protocolli’, rinunciando in questo modo a quello che può nascere da proposte terapeutiche meno strutturate che, di fatto, permettono l’accesso allo spazio dei ricordi del genitore favorendo così processi evolutivi alle volte sorprendentemente veloci. Nel lavorare su queste situazioni, appare indispensabile dare nuovamente valore alle pause come condizione per ripristinare un ritmo che si è interrotto all’interno della relazione precoce genitore figlio. D’Alberton osserva che in tutte e due le esemplificazioni cliniche presentate si era alle prese con ‘una realtà interna/esterna che premeva e che costringeva a schiacciare la relazione madre figlio in un copione molto stretto, relazione all’interno della quale non si era potuto instaurare quella che Winnicott avrebbe definito un’area intermedia tra madre e bambino, tra oggetto esterno ed interno, tra presenza e assenza dell’altro. In conclusione, con una formula apparentemente semplice ma che ci riporta alla specificità della metodologia analitica, D’Alberton sintetizza così il senso della sua pratica della consultazione terapeutica con genitori e bambini nella prima infanzia: “Creo lo spazio affinché qualcosa possa prender forma; che sia un gioco, un ricordo, un ritmo, una musica o una poesia non importa, ciò che importa è non farci prendere dalle nostra ansie di guarire.”
Bibliografia
D’Alberton F. (2017). Le consultazioni terapeutiche genitori-bambini nella prima infanzia. Relazione al ciclo di seminari Infanzia, Adolescenza e Genitorialità, Centro Psicoanalitico di Bologna
Espasa F. P. & Manzano J. (1982). La consultation thérapeutique des très jeunes enfants et leur mère. La Psychiatrie de l'Enfant, 25(1), 5.
Norman J. (2004). Le trasformazioni di esperienze infantili precoci. Un bambino di sei mesi in analisi, in L’annata Psicoanalitica Internazionale, Borla, Roma 2006
Maggio 2017