a cura di Gabriella Bartoli
Di Lucio Saffaro - triestino di nascita e bolognese d’adozione; fisico, matematico, artista e scrittore (1929-1998) - è esposta a Palazzo Fava una selezione di opere pittoriche e grafiche. Bologna, a coronamento delle due mostre precedentemente allestite alla Galleria d’Arte Moderna (1986) e al Museo delle Scienze di Palazzo Poggi (2004), torna a rendere omaggio all’artista, documentandone l’intero percorso creativo (1954-1997). Un percorso multiforme che ha reso non facile inquadrarlo a chi se n’è occupato da un punto di vista critico.
“Tra Arte e Scienza”, “Tra Rinascimento e Mitteleuropa” sono le espressioni alle quali più spesso si ricorre per definirne l’identità culturale. Affascinato com’era dai temi della prospettiva, del “rapporto aureo” e della “divina proportione”, Saffaro per tutta la sua vita mantenne vivo il dialogo con i maestri del passato: tra gli altri, Alberti, Piero della Francesca, Pacioli, Leonardo, Dürer, Holbein, Uccello, Vermeer.
Il che non gli impedì di frequentare la contemporaneità. La critica ne ha indicato la consonanza sia con artisti come Duchamp, Man Ray, Pistoletto, sia con le forme espressive dell’arte concettuale, citazionista e simili. Quanto a lui, la sua personale curiosità di scienziato lo aveva portato a prendere contatto anche con alcuni percettologi di formazione gestaltista, che andava interrogando sulla dinamica delle illusioni visive nonché sulle invenzioni degli esponenti di Optical art e di Arte cinetica: incerto egli stesso su quanto la sua produzione potesse esservi collegata.
Ma veniamo alle opere.
Davanti ai dipinti giovanili degli anni Cinquanta scatta immediato il richiamo alla metafisica, quella di De Chirico soprattutto. Colpiscono la vivacità dei singoli colori e la nitidezza dei contrasti che ne derivano. Eppure non ci si può sottrarre a un’impressione di piattezza delle immagini rappresentate. Esse sembrano acquisire una loro identità solo grazie alla giustapposizione di singole forme geometriche: quasi tasselli di un collage, che rimane però sospeso tra l’astratto e il concreto (Fig. 1).
Occorre arrivare agli anni Sessanta - quando si presentano come protagonisti della scena i solidi geometrici - perché s’imponga con evidenza la tridimensionalità delle strutture, e con ciò la corposità degli oggetti raffigurati, a prezzo però della perdita, almeno apparente, di qualsiasi riferimento antropomorfico.
Sono volumi splendidi, dalle forme regolari, dai colori saturi, inclusi in ambienti nei quali per lo più campeggiano statici: poggiati su una base oppure sospesi nello spazio. Appaiono come stelle o pianetini ben bilanciati pur nel loro equilibrio precario (Figg. 2-3).
A queste pitture - le più numerose - si alternano altre nelle quali si coglie un’impressione di movimento. Osserviamo “La descrizione del tempo”. Qui i corpi sono distribuiti, lungo una stessa direttrice, sui diversi livelli di una scala: da uno più grande a uno più piccolo, quasi a delineare la traiettoria di una freccia in corsa verso un bersaglio (Fig. 4).
C’è, sì, la resa del movimento, di un movimento vitale, che però si accompagna alla malinconica consapevolezza dell’artista che ad esso corrisponde lo scorrere del tempo. Sono esplicite, in proposito, alcune citazioni dai suoi scritti che si leggono su un pannello didascalico di una sala d’esposizione: «Indagherei il principio, se potessi sfuggire alla fine»; a seguito di una precedente orgogliosa dichiarazione: «Indagherò sul senso originario del pensiero fino a trovare la sostanza prima dell’esistenza e le dimensioni del suo significato».
Impressioni di movimento provengono anche dalle rappresentazioni di certi poliedri ad alto grado di complessità, che in qualche modo si pongono in continuità con i poliedri platonici di antica memoria o con quelli di Euclide e Keplero (https://www.didatticarte.it/Blog/?p=4007). Sono corpi le cui varie sfaccettature si affiancano e sovrappongono le une alle altre con un ritmo così regolare da suggerire un ciclo di crescita continua: espressione ottimistica, in questo caso, di una matrice che gemma e si espande dando luogo infine a una meravigliosa fioritura (Fig. 5).
Una linea ulteriore di riflessione prende spunto dall’osservazione di alcune particolarità della costruzione pittorica. Capita a volte che, sulle pareti dell’ambiente in cui il poliedro-protagonista è collocato, siano raffigurate strutture elementari che inquadrano un solido a lui simile. Sono interpretabili alternativamente come finestre o cornici o specchi (Fig. 6). Così non è del tutto chiaro chi esse inquadrino: un altro da sé oppure un autoritratto o, ancora, il sé riflesso da uno specchio. Ne scaturisce la visione di possibilità alternative: andare all’esterno e verso l’altro; oppure rimanere staticamente ancorato a un hic et nunc congelato e senza tempo, fermo in contemplazione davanti a un ritratto di Dorian Gray al contrario, per citare l’immagine usata da Renato Barilli in un suo scritto sull’opera di Saffaro (Una mirabile fabula de lineis et figuris, 2004). Fisso cioè nella visione di una bellezza incorruttibile nel tempo, quella stessa bellezza istantanea delle cose che già Leonardo e Vermeer cercavano di immortalare sulla tela avvalendosi di semplici tecnologie come lo specchio e un'arcaica camera ottica.
A volte sono altri dettagli marginali ad attirare lo sguardo: certi piccoli incavi che paiono in attesa di accogliere o dai quali è già scaturito qualcosa; le ampie distese marine; le arcate avvolgenti del santuario bolognese di San Luca… Tenui indizi, che rimandano all’immagine mai perduta di un contenitore di marca materna e a fantasie di contatto, immersione, compenetrazione.
Sono opere che certamente adombrano una complessa dinamica interiore, ma soprattutto rivelano la costante tensione di un pensiero che non si arrende di fronte all’ignoto, proponendo una forma di conoscenza pluridimensionale, esplorata anche nella sua qualità di raffinata eleganza. Nello stesso tempo rendono visibile al fruitore quella particolare funzione che è propria dell’arte come della scienza: il far confluire i vari aspetti della realtà entro formule-metafore che la rappresentino al meglio, sia per pregnanza semantica sia per qualità estetica.
Merita infine di essere segnalato lo “spettacolo” della sala con cui si conclude il percorso espositivo. Si offre allo sguardo del visitatore come uno scrigno sulle cui pareti azzurrine risaltano oggetti preziosi ed enigmatici, rilucenti di bellezza adamantina, lì collocati in posizione inferiore, ma in concorrenza con le scene quanto mai terrestri dei Carracci e con i geometrici cassettoni del soffitto ligneo, morbidi pur nella loro scansione ordinata.
Luglio 2023