Questo lavoro è stato pubblicato sulla rivista Psicoterapia Psicoanalitica, anno XXIX, n.2/2022 della SIPP. Per gentile concessione.

Gli anni 20 del secolo scorso sono un momento del tutto speciale nella storia del cinema e nella vita di Chaplin. Siamo alle origini di quella settima arte che ha subito attratto platee di diseredati e, solo in seguito, grazie all’apporto di veri e propri geni della macchina da presa - e Chaplin fu forse il primo di questi - ha conquistato anche il pubblico più colto.
Chaplin è già un cineasta di successo, che sforna film a grande velocità, sentimentalmente però ha sposato la donna sbagliata e ha perso il suo primo figlio, nato malformato e morto tre giorni dopo. Ha bisogno di fermarsi, si prende un anno intero per girare The Kid, un periodo incredibilmente lungo per i suoi standard. Stenta infatti a trovare la storia giusta per ciò che ha in mente e, dopo una serie di traversie rocambolesche, degne di un suo film, tra fughe, nascondigli, rotoli di pellicola nascosti nei barattoli del caffè e in stanze d’albergo a causa del suo controverso divorzio, il film è pronto.

Il 21 gennaio 1921, migliaia di persone si accalcano davanti alla Carnegie Hall di New York per assistere alla prima. Ed è subito un enorme successo che resterà tale nella storia di Chaplin e del cinema. Il lungometraggio muto, accompagnato dalla didascalia “with a smile and perhaps a tear”, raccoglierà nel pianeta più applausi e incassi di qualunque altro.

Il film è anche un grande racconto autobiografico, in cui Chaplin, già famoso e ricco, ricostruisce i luoghi della sua povera infanzia londinese, mettendoci tutti gli ingredienti dell’infelicità: lo sforzo e la spinta a sopravvivere ai traumi, insieme alla riparazione, cioè fare qualcosa per i tantissimi bambini nella sua stessa condizione (è appena terminata la prima guerra mondiale e tanti sono gli orfani); il tutto condito dalla sua geniale capacità di trasformare la miseria fisica e psichica in racconto.
Sul rapporto tra dolore della perdita ed espressione artistica si è scritto molto.
Sappiamo che il trauma può influenzare e quasi rendere necessario l'instaurarsi di processi che facilitino il gioco e la fantasia. La creatività appare, in certi casi, un potente antidoto alla perdita e al lutto. Essa diviene un elemento propulsivo di rinnovamento, che contrasta il rischio di morte psichica, immobilismo e congelamento affettivo.
Sfogliando l’autobiografia di Chaplin, si ha l’impressione che trauma e creatività lo accompagnino fin dall’inizio nell’inferno di una quotidianità più che misera, insieme al sogno, alla fantasia, alla capacità di evocare e rappresentare.
Alcuni elementi tornano ripetutamente: il divorzio dei genitori, attori di vaudeville, l’alcoolismo del padre, che abbandona la famiglia, la follia della madre, la fame, la miseria estrema e la inesorabile discesa verso una vita di povertà e stenti; mentre i due fratellini Charlie e Sydney, il maggiore, si stringono in un sodalizio che durerà tutta la vita.
La madre è però una incantevole narratrice, innamorata del suo lavoro, e il personaggio di Charlot, il protagonista di “The Kid”, sembra riprendere i racconti che non aveva mai smesso di fare a lui e al fratello, per far scordare loro i morsi della fame e del freddo e farli sognare, nelle squallide soffitte in cui si erano ridotti a vivere.
Il film diventa perciò un inno alla capacità e alla necessità vitale di continuare a sognare con tutta l’energia di un’infanzia che non si abbatte, e Charlot è l’eroe di questo universo, il vagabondo che percorre le strade del mondo insieme al bambino, suo rappresentante infantile, in cerca di un padre perduto, che deve ritrovare per ricongiungersi con la madre e dare vita ad una nuova famiglia.
Le scene iniziali del film ritraggono una donna disperata, il cui unico peccato è di voler essere madre, costretta però ad abbandonare il suo bambino.
Fino a questo momento il film è scialbo, si animerà solo all’entrata in scena di Charlot. Chaplin lo veste con stracci e scarti di vestiario: un paio di calzoni sformati, due scarpe troppo grandi, il bastone e la bombetta, i baffetti che lo invecchiano, ma non nascondono la sua espressione di eterno monello. Charlot diventa il suo personaggio, quello che deve impersonare la sua essenza più intima con la forza del vagabondo ribelle, di chi sopravviverà comunque.
Per inventarlo torna al suo amore per Dickens, che conosce bene, perché il music hall in cui si era formato derivava direttamente da Dickens, che rappresentava per lui (in particolare in Oliver Twist), l’esempio supremo del bambino perduto che ha fatto strada, ma non dimentica l’inizio della vita, l’atmosfera di disperazione infantile, tra sconsolato smarrimento e bizzarra comicità.
Quando un nuovo dolore si abbatte su di lui con la morte del figlioletto, Chaplin deve riprendere a raccontare. Ha bisogno di una storia e sceglie quella che conosce fin dall’infanzia, perché l’ha vissuta.
Dai personaggi dickensiani prende una parte integrante della sua costruzione di sé, dal punto di vista artistico e psicologico, tanto che qualcuno ha scritto che The Kid è un rifacimento libero, ma riconoscibile, a tratti esplicito, di Oliver Twist.
Charlot ha la stessa “feroce vitalità”, la rabbia contro le istituzioni e la nostalgia della madre perduta. E’ un vagabondo gentiluomo, svelto di mano, che conosce tutti i trucchi per raggirare le vedove e il poliziotto di quartiere; è tentato furfantescamente di abbandonare il bambino in un cassonetto dei rifiuti, ma ha anche abitudini borghesi, come la preghiera della buonanotte e l’igiene personale e, quando decide di tenere il piccolo, se ne assume la piena responsabilità paterna.
A differenza di Dickens, Chaplin gli farà ritrovare la madre, alla quale regala il successo e la fama, riscattandola così dal suo peccato iniziale.
Come Dickens, anche Chaplin/Charlot è ossessionato dal cibo e non dimentica mai i bisogni elementari degli esseri umani. L’uso del poco che ha a disposizione per sopravvivere fornisce un esempio incantevole di risparmio e di sfruttamento creativo.
In termini psicologici rappresenta la spinta interna alla creatività, incalzato dalla necessità di trovare una via d'uscita, di aprirsi un varco, per quanto doloroso e parziale, verso il futuro.

Se sulla storia Chaplin non aveva dubbi, gli mancava però il bambino: fino a quando non trova il prodigioso Jackie Coogan, uno straordinario bimbo di 4 anni che sembra già sapere quanto dura è la vita per alcuni e quanta vitalità occorre per sopravvivere.
Sono entrambi attori e figli di attori. Chaplin lo scrittura dopo avere giocato con lui un intero pomeriggio. Si trovano subito a meraviglia insieme. A volte, racconta un uomo della troupe, non era facile capire se stavano giocando o recitando.
Forse con quel bambino Charlot può rivivere la perdita del figlioletto, senza esserne sopraffatto; può rispecchiarsi nel se stesso bambino, che ha perduto il padre e deve ritrovarlo per rifondare la sua famiglia.
Lo osserva con l’amore, la tenerezza, il divertimento, la curiosità di un adulto che può guardare se stesso bambino senza timore, senza la rabbia e il risentimento rivendicativo di chi non si è riconciliato con la sua infanzia e può invece finalmente guardarla senza paura: quella sognata più che quella vissuta.
“Vede” di nuovo come un bambino, che ha bisogno di identificarsi nel padre, per ritrovare così anche l’amata madre.
Sembra allora che parli di come si diventa padri, amando, odiando, fino a quando non si potrà sfuggire al rispecchiamento nella propria infanzia rivisitata in quella del proprio figlio.
L’ambivalenza viene smascherata e messa in scena: Charlot tenta di abbandonare il piccolo accanto ad un bidone dei rifiuti, di rifilarlo ad una madre ignara, di gettarlo in un tombino e le risate suscitate da questi gesti svelano il lato nero dell’umorismo, la predilezione per le soluzioni proibite e il tacito riconoscimento della crudeltà della vita.
E’ però come se di fronte alla magia di un infante scattasse un fascino che impone di ritrovare la propria infanzia e non abbandonarla più, in una combinazione di grottesco e sublime, sull’orlo del sentimentalismo, salvati sempre dalla comicità.
Chaplin può così inventare e mettere in scena l’archetipo moderno dell’adulto e del bambino che camminano insieme, che attraverserà decine, forse centinaia, di film, dal neorealismo italiano di “Ladri di biciclette” a “La strada” di Cormac McCarthy. Insieme uomo adulto e bambino devono fare un percorso, impossessarsi di uno spazio ostile o confuso, per costruire una genitorialità nuova, scelta al di fuori della famiglia tradizionale, passando attraverso una profonda indagine delle emozioni elementari indotte dalla separazione e dall’abbandono.
Così “The Kid” risponde alle tragedie private di Chaplin, ma lo fa sostituendo ad esse un dramma umano che trova riscatto e salvezza nella creazione di un profondo legame affettivo.
L’orrore dell’abbandono e la commovente vulnerabilità di un bambino costituiscono lo sfondo cupo e tragico di un mondo ostile. Lungi dal negare l’orrore, il suo modo di sconfiggerlo è trasformarlo, tramutando la disperazione in una serie di gag, che in quanto spettatori viviamo come l’invito ad un gioco, a volte sfrenato, altre volte tenero, attraverso il quale ci avviciniamo alla nostra matrice infantile.

Il poeta americano Hart Crane, dopo aver visto The kid, spedì a Chaplin una poesia, intitolata Chaplinesque che allude alla miracolosa capacità del film di generare emozioni da situazioni disperate, affermando la forza della solidarietà senza negare la realtà della privazione e dell’abbandono. La poesia si conclude con questi versi:

“We can evade you, and all else but the heart:
What blame to us if the heart live on.

The game enforces smirks; but we have seen
The moon in lonely alleys make
A grail of laughter of an emply ash can,
And through all sound of gaiety and quest
Have heard a kitten in the wilderness.”

Possiamo eludere tutti ed ogni cosa, ma non possiamo eludere il cuore:
che colpa abbiamo se il cuore continua sempre a vivere?

La partita costringe a smorfie sorridenti,
ma in vicoli deserti abbiamo visto la luna trasformare
in un Graal di risa un bidone
da spazzatura vuoto, e fra ogni voce di gioia e di ricerca
abbiamo udito nella solitudine il miagolio di un gatto

Lucia Joyce, figlia del grande James, nel 1924 scrive a Chaplin:
“L’originalità della sua creazione ha saputo offrire una consolazione alla miseria, facendo diventare Charlot il monello del pubblico”.

 

 

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