Nell’ambito del Festival della complessità di Parma,
Freud’s Book e le Librerie Feltrinelli presentano:
DESIDERIO E LEGGE
Conversazione con Sarantis Thanopulos
a cura di Daniela Federici
Federici
Ho pensato di iniziare questa chiacchierata leggendovi alcune frasi di Calvino:
“Il signor Palomar vuole guardare un’onda. Però isolare un’onda separandola dall’onda che immediatamente la segue e pare la sospinga e talora la raggiunge e travolge, è molto difficile; così come separarla dall’onda che la precede e che sembra trascinarsela dietro verso la riva, salvo poi magari voltarglisi contro come per fermarla. Insomma, non si può osservare un’onda senza tener conto degli aspetti complessi che concorrono a formarla e di quelli altrettanto complessi a cui essa da luogo.”
Questo pensiero mi pare una bella rappresentazione di quello che troverete in questi libri: la capacità di tenere in mente, articolate fra di loro, diverse questioni per riuscire ad argomentare un tema complesso.
Il desiderio è un tema sicuramente caro agli psicoanalisti ma è centrale anche per ciascuno di noi perché il desiderio è alle origini della vita psichica ed è il motore della nostra esistenza.
Una delle definizioni che ne da Thanopulos è “l’estroversione della nostra soggettività”, ciò che ci rende eccentrici. Per tutta la vita ci troviamo ad avere a che fare con questa antinomia: da una parte il baricentro dell’Io, i propri interessi, l’autoreferenzialità, e dall’altra siamo sempre sbilanciati e anelanti verso un altro che sposta il centro fuori di noi.
Noi nasciamo in questa dimensione: il neonato viene alla luce in una condizione indifferenziata e poco alla volta scopre l’alterità, e mentre scopre questa alterità scopre sé. Perfino la nostra identità si definisce a partire da un altro.
Ma lo possiamo vedere anche in un’altra forma: l’essere umano per esistere psichicamente ha bisogno di un riconoscimento. Non credo occorra essere dei clinici per sapere i danni che può fare il nascere non desiderati o crescere dovendo diventare qualcuno, dovendo corrispondere alle aspettative di un altro. Winnicott usa un’immagine molto bella per dire questo: parla della necessità che il bambino veda se stesso nel riflesso degli occhi della mamma che lo guarda. Se il bambino non vede sé e ciò che la madre gli da il diritto di diventare, ma vede quello che la madre vuole che lui sia, potremmo dire che il bambino, pur nato biologicamente, non nasce psichicamente.
Nel regno animale, quando la madre di una cucciolata partorisce i suoi cuccioli e inizia a leccarli, quei leccamenti attivano gli organi interni: se manca questa funzione “attivante” i cuccioli moriranno. Il riconoscimento, dal punto di vista della psiche umana, fa qualcosa di molto simile: è un invito, una chiamata a esistere.
Questa è la prima questione che volevo proporti: se puoi cominciare a portarci dentro i tuoi lavori raccontandoci il desiderio che è capace di negoziare la libertà di concedere all’altro di essere quello che è, di non dover essere tutto per noi, e quando invece questa possibilità si sloga, si perverte, così che le relazioni di desiderio possono trasformarsi in desiderio di potere fino a dominare l’altro, ad annullarlo.
Molta cronaca ci racconta di questo, quando si parla di desiderio per quel modo di essere in relazione per cui: “se non posso averti io, non ti avrà nessun altro!”
Thanopulos
In realtà i due libri sono collegati. Se uno dovesse leggerli entrambi, gli consigliere di partire da “Il desiderio che ama il lutto” e andrei poi a “Desiderio e legge” che ho scritto con un amico che è anche un interlocutore speciale che vive vicino a casa mia a Napoli. Con lui, Silvio Perrella che è un fine letterato e con Aldo Masullo, ci incontriamo e discutere con piacere tra di noi. In qualche maniera c’è una cultura conviviale in questo libro, due persone che si frequentano, si incontrano e ciascuno conosce il pensiero dell’altro. Lui, Fabio Ciaramelli, è un filosofo che ha la cattedra di filosofia del diritto alla Federico II di Napoli, credo uno dei miglior esponenti della filosofia del diritto in Italia in questo momento. Questo libro scritto a quattro mani ha permesso a lui di esprimere le sue idee sullo stato del desiderio nelle relazioni sociali oggi, e a me di stabilire una relazione tra il desiderio e la legge.
Se, cioè, il desiderio deve essere regolato dalla legge – ciò che solitamente si pensa -, o se sia, in realtà, il desiderio a fondare la legge. Sono due opzioni in contraddizione, in conflitto tra di loro, con diverse ricadute sul nostro modo di pensare la vita sociale. Me ne occupo da diverso tempo e sento che sia una questione ineludibile, sia, in campo psicoanalitico, per definire che tipo di lavoro facciamo con le persone che fanno richiesta di analisi, sia per capire in che tipo di società viviamo.
La cosa che mi ha mosso a scrivere il libro “Il desiderio che ama il lutto” è stata una certa insoddisfazione che nutrivo nei confronti della classica definizione del desiderio fatta sia da Freud che da Lacan. Sono stati loro a fondare il discorso sul desiderio nel campo psicoanalitico, l’uno perché l’ha messo al centro del sogno e l’altro perché l’ha esteso nella vita delle relazioni.
Il problema con Freud - ma non solo con lui - ha a che fare con la sovrapposizione fra bisogno e desiderio. Se andate a vedere nei vocabolari è difficile distinguere i due termini, perché le definizioni che si danno di bisogno e desiderio sono largamente sovrapponibili. Così come quando parliamo nella vita quotidiana: dire “ho bisogno di..” e “ho desiderio di..” sono interscambiabili. È tentazione comune parlare del desiderio come fosse un bisogno: “ho bisogno di te”, per esempio. Nell’impiegare questi termini percepiamo una differenza che però non valorizziamo. La scotomizzazione di questa differenza, non è, a mio avviso neutrale. Viene dalla sovradeterminazione del desiderio da parte del bisogno e riguarda il tipo di società in cui viviamo.
Sarò schematico, scusate il carattere riduttivo del discorso reso necessaria dal momento della giornata in cui parliamo e dalla brevità del nostro incontro. Immaginate di bere un bicchiere di vino. Sul versante del desiderio si beve il vino per gustarlo, per sentire le trasformazioni e anche le destabilizzazioni che accadono dentro di noi, questo alternarsi fra ciò che afferri e ciò che ti sfugge. Si grande importanza alla persistenza dell’esperienza gustativa che non è mai uniforme e lineare. Se invece seguo la logica del bisogno, io bevo per dissetarmi.
La questione del desiderio è più complessa di come l’aveva in mente Freud, chi leggerà il libro lo capirà meglio. Freud pensava il piacere come ritorno allo stato precedente, quindi spiegava l’appagamento fisico del desiderio esattamente nei termini del bisogno: il piacere per lui era il sollievo che ricavi da una diminuzione della tensione. Ne “Il problema economico del masochismo” fa un altro discorso e ammette la distinzione fra situazioni di tensione che creano piacere e situazioni di distensione che sono frustranti. Ammette quindi una complessità, parlerà di “ritmo” ma è un discorso che poi non riprenderà più. Ora, i motivi per cui intraprende questa strada sono complessi e non ci interessano qui; quel che ci interessa è che lui si riconosce nella necessità che abbiamo di privilegiare la stabilità a scapito della destabilizzazione.
Va da sé che nel campo del desiderio l’altro è riconosciuto; nel campo del bisogno, no. Quando il bisogno non è collegato alla logica del desiderio, l’uso dell’altro è impersonale, ce ne serviamo per scaricare una tensione, è uno strumento che usiamo e di cui ci sbarazziamo se ci disturba. Nel campo del bisogno l’altro ci è indifferente e diventa anche estraneo perché non c’è una relazione personale.
La presenza del desiderio cambia le cose radicalmente: non possiamo desiderare senza rispettare il desiderio dell’altro, altrimenti l’altro non è vivo e desiderabile. E ciò vale in tutte le relazioni. Questo discorso centrale del rispetto dell’altro non viene da un imperativo morale separato dal desiderio, viene dalle dinamiche, dalla logica intrinseca del desiderio stesso: se l’altro è solo uno strumento nelle mie mani non è più vivo, è un manichino che svilisce il desiderio. È nel mio interesse proteggerlo dall’eccesso del mio desiderio, perché altrimenti il mio desiderio muore con lui.
Nella direzione opposta - perché c’è l’altra forma dell’amore che è quella del masochismo originario, cioè la necessità che noi abbiamo di lasciarci andare nell’altro, che è altrettanto fondamentale – non possiamo veramente entrare nella relazione amorosa senza lasciarci possedere dall’altro. Tuttavia è chiaro che c’è un eccesso di masochismo che ci può impedire di vivere il desiderio perché annichilisce la nostra soggettività.
Quindi, da una parte dobbiamo difendere l’altro dall’eccesso del nostro desiderio e dall’altra difenderci dall’eccesso di desiderio dell’altro. Il senso di responsabilità è questo: siamo responsabili nei confronti dell’altro per non danneggiarlo, ma nello stesso tempo dobbiamo avere un senso di responsabilità verso noi stessi.
Ci sono due tipi di hybris: Creonte è colui che non rispetta la responsabilità nei confronti dell’altro, il suo desiderio eccede nel non tenere in considerazione il desiderio dell’altro; Antigone eccede nel senso di non essere responsabile nei suoi stessi confronti. Sono le due situazioni senza ritorno nelle quali possiamo cadere.
Dove c’è la relazione di desiderio siamo paritari con l’altro, non esiste un rapporto di potere all’interno della relazione di desiderio, non si può prevaricare l’uno o l’altro. È chiaro che ci sono momenti in cui uno sconfina nei confronti dell’altro, ma devono essere all’interno di un incontro che nel suo insieme resta paritario. Se siamo in un mondo dominato dal bisogno siamo ineguali e le relazioni sono strumentali. Questo cambia totalmente la nostra visuale del mondo. Ovviamente il nostro mondo è un misto di queste situazioni, c’è un constante conflitto tra le due prospettive.
Il desiderio mi sbilancia, mi destabilizza, mi sporge verso l’altro, facendone una figura co-costitutiva della mia stessa soggettività. L’altro non mi può assolutamente essere indifferente. Poi spero avremo tempo di approfondire la differenza fra l’altro che è amico o nemico del mio desiderio o che può essere tutte e due e cose insieme, in realtà. Il desiderio ci porta quindi in un campo di relazioni complesse dove l’altro è indispensabile e riconosciuto nella sua alterità.
Mi dicevi della libertà. Quando diciamo che l’altro è co-costitutivo del nostro desiderio, che non esiste un desiderio che prevarica l’altro perché non lo mantiene “vivo” come suo oggetto, facciamo entrare in gioco anche il senso di responsabilità, la capacità, quando ci relazioniamo con l’altro, di tenere conto del suo diverso modo di essere, di rispettare la sua differenza. E non puoi rispettare la sua differenza senza rispettare la sua libertà. Libertà, differenza e desiderio vanno insieme, non sono disgiungibili.
Forse ricorderete che Hegel – Lacan ha ripreso questo discorso - parla della legge del desiderio, “per desiderare l’altro devi desiderare che l’altro ti desideri”, come valore che nasce fuori dalla relazione di desiderio. È una visuale intelligente, esterna al desiderio, che in qualche modo lo educa. In realtà il rispetto dell’altro nasce dall’interno della relazione di desiderio con lui, nella contrattazione tra gli amanti, nella modulazione reciproca delle loro passioni che li mantiene entrambi desideranti e desiderabili. Non è il frutto di una saggezza nata a posteriori. È un sapere del desiderio stesso.
Ciò che possiamo aggiungere al discorso di Hegel, è che noi non desideriamo soltanto che l’altro ci desideri, questa definizione del desiderio è monca: noi desideriamo che l’altro sia vivo, quindi desiderante oltre che desiderabile (perché si mantenga tale). Ma per essere veramente desiderante deve essere libero di desiderare altro da noi. Quindi non possiamo dire: “desidero che l’altro mi desideri”. È più esatto dire: “io desidero che l’altro sia libero nel desiderarmi o non desiderarmi”.
Se poi vogliamo chiamare in causa Proust, possiamo fare un passo avanti e dire che in una relazione di desiderio noi investiamo l’incertezza fra l’essere desiderati e il non esserlo. È questo che muove il desiderio. Per questo è sbilanciamento, perché contempla il rischio. Mentre per il bisogno il rischio è il nemico assoluto. Nel campo del bisogno io o faccio sparire la tensione o mi sento in un enorme disagio, destabilizzato.
Quindi bisogna distinguere due tipi di una destabilizzazione. Nel campo del desiderio la destabilizzazione mi trasforma – le onde di cui parlavi, le onde che mi portano verso l’altro e mi estrovertono verso la vita. È una trasformazione dalla quale non tornerò più a com’ero prima. Il rischio è contemplato perché senza di esso non c’è destabilizzazione e trasformazione vera e quindi un godimento vero. Mentre nel campo del bisogno la destabilizzazione è un’esperienza molto frustrante, che non ci si può assolutamente permettere.
Io parlo della relazione amorosa ma ciò che vi dico lo possiamo estendere a tutte le relazioni con le cose che ci piacciono. Ogni cosa che ci piace va gustata: assaggiata, sperimentata, goduta in profondità. Noi gustiamo il corpo dell’amante ma anche gli oggetti inanimati: un libro, una musica, un film, un piatto di pasta. Prendiamo il piatto di pasta: non lo annientiamo, come dice Hegel, questa è la logica del bisogno. Lo facciamo permanere dentro di noi come esperienza gustativa: rispettiamo le sue intrinseche qualità, il suo “idioma”. Ogni cosa la godiamo nella misura in cui ci sorprende, ci sfugge, non ci permette una sua definizione una volta per sempre. Ci piace questa dimensione irriducibile, del nostro oggetto di desiderio, al nostro tentativo di catalogarlo e renderlo prevedibile. Qualsiasi esperienza gustativa ha questo significato. Quindi dobbiamo rispettare perfino la libertà della pasta: non è una cosa paradossale.
Federici
Lo dici a Parma!
Hai sfiorato una seconda questione, che viene resa molto bene in questo testo, sul desiderio riguardo alla legge. In un’epoca come la nostra, nella quale siamo gravemente insofferenti verso qualsiasi forma di limite, regola, norma, tu entri in questo discorso con un’onda vastissima, perché parti dalla responsabilità e arrivi all’etica, al Super io, al padre – oggi si parla molto di un’evaporazione del padre come causa di questi problemi.
Ma una cosa che fai per entrare in questa complessità, e che rende lo scritto molto efficace, è di farci immaginare il punto di origine della regola nella vita di un bambino. Da dove tutto inizia, raccontato come una storia.
Il dottor Thanopulos ci fa immaginare una mamma che conosce il suo neonato che nasce e poco alla volta si adatta ai suoi bisogni; entrambi scoprono un ritmo: sonno, pappa, cacca, e lentamente si regolano, uno con l’altro. Una danza. Non la coercizione o l’imposizione del limite: una danza, un ritmo naturale. Poi gradualmente la mamma si sfila da una perfetta corrispondenza ai bisogni del bambino e in questo modo gli fa conoscere la frustrazione. Ma mentre gli porta un’esperienza negativa, diciamo così, gliene offre un’altra positiva, perché il bambino, in quella mancata corrispondenza, scopre il desiderio.
Mentre ti leggevo avevo in mente un’esperienza che credo abbia fatto chiunque osservando un neonato: c’è un tempo in cui, quando la pappa non arriva subito, il neonato strilla disperato potendosi calmare solo all’arrivo della pappa. Ma più in là, il bambino comincia ad associare i rumori della mamma che prepara in cucina con l’idea che di lì a poco arriverà la pappa: il bambino non piange più ma lalla. Sta aspettando. E se il desiderio è attesa, il bambino sta imparando a desiderare.
Questo mi fa pensare ai molti genitori che nella volontà di dare tutto ai figli li ingozzano, anticipandone i desideri. Non gli si fa un gran servizio, perché non si insegna ad aspettare - e oggi questo non avere la capacità di tollerare la frustrazione è un grosso problema.
Un’altra cosa che tu spieghi molto bene: il bambino scopre che la mamma non è tutta per lui, c’è per esempio un omone che si chiama papà. Anche quella è una frustrazione: ma come, non è tutta per me?! Però questo diventa anche uno spazio di libertà, perché se lei non è tutta per me, vorrà dire che neanch’io dovrò essere tutto per lei, che non dipenderà solo da me la sua felicità. E questa è una grande libertà: ci arrivano molti figli che sono incastrati nel compito più o meno inconsapevole di rendere felice un genitore.
Quello che mi sembra molto efficace nel tuo discorso è il mostrarci come c’è una natura delle cose, qualcosa perdi e qualcosa acquisti: togli le rotelline alla bicicletta e perdi stabilità, però vai più forte. Questa legge di natura dove la regola è nelle cose.
In un tempo dove non tolleriamo più niente, perfino il tempo che passa - perché non tolleriamo di invecchiare, lo viviamo come un limite, come ci aspettassimo il diritto all’onnipotenza, una strada dritta senza funzioni semaforiche – quella che evidenzi è una prospettiva molto utile da pensare. Volevo chiederti qualcosa di questo problema: cos’è che non riusciamo più a tenere, che non sappiamo più considerare uno stato di natura da poter accettare?
Thanopulos
Vi dicevo che dobbiamo andare oltre la definizione di desiderio di Lacan, che ha sviluppato in una maniera molto contraddittoria le sue definizioni successive del desiderio. La sua definizione più consolidata è quella del desiderio come metonimia della mancanza a essere.
I discorsi di Lacan sono sempre molto complicati anche linguisticamente, per cui in definitiva c’è anche difficoltà a penetrare nel suo pensiero, ma sostanzialmente quel che vuole dire è che l’essere umano ha questa sua costitutiva mancanza a essere, a sentirsi compiuto in qualsiasi sua esperienza. È quindi destinato, negando questa mancanza, a passare da un oggetto di desiderio all’altro, perché se trovasse un oggetto e si “fermasse”, diciamo così, si troverebbe a fronteggiare questa sua mancanza - che in realtà nessun oggetto può fargli superare. È costretto quindi a passare da un oggetto all’altro, all’infinito.
Questo discorso è problematico perché chi bazzica un po’ il campo della psichiatria sa che questa è anche la definizione della fuga maniacale. Ma questa è la posizione di Lacan e non possiamo ignorarla perché è controversa. Pone una questione fondamentale: l’essere umano in effetti è mancante. Ma come affronta veramente questa mancanza? Noi sappiamo dalla nostra esperienza che gli oggetti di desiderio cambiano, a volte sono insoddisfacenti, ma senza per questo diventare maniacali.
La teoria in questo caso, innamorata di se stessa, contraddice l’esperienza. È un errore che facciamo spesso quello di slegare la teoria dall’esperienza diretta. Non sono per l’empirismo, ma neppure per una dimensione della teoria e della vita in cui l’idea mangia la realtà.
Direi invece che l’essere umano - e questa penso sia una differenza fondamentale – fa un passo importante quando trasforma la sua mancanza esistenziale in mancanza dell’altro, scopre, al posto della ricerca della pienezza che non deve cercare una sua autonomia ontologica nel senso di un essere pieno di sé e a sé stante, ma scopre una dimensione relazionale. Quando la mancanza a essere – che io preferisco chiamare mancanza originaria – diventa mancanza dell’altro, noi riusciamo a passare dalla mancanza a essere al vivere nella mancanza. Ciò significa che quel che perdiamo come pienezza dell’essere, la ritroviamo come infinita possibilità relazionale.
Parlo di un relazionarsi con tante cose, con possibilità infinite, perché non è in gioco solo la relazione concreta che noi abbiamo con gli altri esseri umani, con le situazioni o gli oggetti culturali, le opere d’arte ecc., ma anche la nostra capacità di relazione attraverso i sogni e l’immaginazione. Scopriamo, come antidoto alla nostra difficoltà costitutiva, l’infinito di relazioni che non sono maniacali, ma relazioni di piacere e di incontro con diversi oggetti, alcuni dei quali assumono un carattere privilegiato. Perché se una caratteristica fondamentale del desiderio è la libertà di sé e del suo oggetto che amplia costantemente il campo dei tuoi interessi, un’altra caratteristica altrettanto importante è l’esigenza di evitare la dispersione, perché dove si disperde eccessivamente non c’è la possibilità del godimento.
Quindi viviamo in un’antinomia che permette di godere delle nostre relazioni e di non bloccarci sul piano relazionale, mantenendo costante la nostra apertura dell’essere al mondo, che è la nostra protezione esistenziale.
Da questo punto di vista, quello che dicevi, ha a che fare con la differenza: le regole nascono dal regolarsi. Questo è fondamentale. È nel rapporto fra madre e bambino che noi impariamo a regolarci, cioè a tenere conto l’uno dell’altro. Non esiste fondamento vero, naturale, delle regole che non parta dalla nostra necessità di regolarsi nel campo del desiderio. In definitiva quando parlo di responsabilità e di desiderio responsabile che tiene conto dell’altro, non parlo di una cosa che raggiungiamo a tavolino, preventivamente, ma, come dicevo prima parlando di Hegel, nella relazione stessa attraverso il reciproco regolarsi, in cui sentiamo dove siamo vivi e dove non lo siamo, dove l’altro è vivo e dove non lo è, un regolarsi che fa parte del desiderio stesso e della sua logica. Naturalmente ha a che fare col fatto che il desiderio, se non incontra una costante apertura alla differenza, muore per assuefazione, perché è una caratteristica del desiderio il doversi costantemente rinnovare. Questo, permettimi di ripetermi, non significa necessariamente passare da un oggetto all’altro - che non aggiunge nulla sul piano della differenza, perché il passare da un oggetto all’altro ci rende gli oggetti in-differenti, mentre la differenza è vissuta, è relazioni affettivamente pregnante. Quindi un oggetto al posto dell’altro distrugge la differenza e quindi il desiderio.
Da questo punto di vista il lutto è fondamentale perché è ciò che ci permette di mantenerci nel campo della differenza anche senza cambiare oggetto: possiamo restare nel campo del desiderio rinnovando costantemente la nostra differenza con l’oggetto se accettiamo il lutto. È quello che tu definivi lo spazio dell’attesa, che l’altro non è scontato e prevedibile, ma c’è e non c’è, l’importante è che da qualche parte sia disponibile. Ridefiniamo costantemente il contratto con lui accettando nuovi aspetti della sua differenza. Queste cose di cui parlo non sono cose stravaganti, ma cose che facciamo continuamente all’interno di una relazione di coppia, amicale, erotica, affettiva. Percepiamo sempre che il nostro rapporto con l’altro si rinnova o stagna, e quando stagna significa che abbiamo difficoltà ad accettare le perdite e le delusioni necessarie e così facendo blocchiamo l’esperienza della differenziazione e del lutto. E l’oggetto perduto lo ritroviamo sempre identico, perché l’oggetto ha una sua costanza e consistenza, una sua cifra, caratteristiche riconoscibili e familiari, ma nello stesso tempo deve avere la possibilità di mostrare un altro aspetto, così da essere sempre identico e trasformato. Non scopro niente, basta leggere quello che diceva Eraclito: nello stesso fiume entriamo e non entriamo, siamo e non siamo.Questa è la legge del desiderio.
Se non accettiamo il lutto non riusciremo a rinnovare veramente il nostro rapporto con l’altro, e il lutto, schematicamente, significa accettare di trasformarsi. Per dialogare con un altro devo accettare di spostarmi dal mio centro di gravità e acquisire un nuovo assetto. Spesso non riusciamo a comprendere l’importanza di questo.
Da ciò derivano anche due diverse definizioni della legge, che sono in conflitto ma esistono e agiscono entrambe, dobbiamo tenere entrambe presenti. Una è la prospettiva della legge che nasce dal senso di responsabilità: sul piano delle relazioni di desiderio, senza le quali con l’altro non siamo in grado di godere di nulla, l’altro è paritario, non può non essere rispettato. Ciò fonda la legge dal punto di vista etico. Questo dice Sofocle quando, in Antigone, dice: il desiderio siede tra le leggi possenti.
Per capire in che trappola siamo finiti a partire da Hegel (nel campo del desiderio lo troveremo sempre di fronte), che pure di Antigone ha fatto una lettura molto intelligente, ricordiamo che c’è un’apologia dell’Eros lì, che non è banale, perché ne mostra anche tutti gli aspetti rischiosi. Eros invitto in battaglia è il centro di Antigone, e invece Hegel ci parla della legge della città, della famiglia.
Sofocle introduce la legge dell’Eros, per lui la legge della città, le leggi del mondo non si possono dissociare dai desideri. Non dice che sono le leggi a definire ciò che è il giusto nel campo del desiderio, dice, invece: ci sono le leggi e c’è il desiderio, ed esso siede paritario tra esse. Nulla quindi è legittimo, secondo questa prospettiva, se non deriva dall’esigenza del desiderio di rispettare il suo oggetto. L’autoreferenzialità, il non rispetto dell’oggetto è hubris, ciò che la legge deve punire.
Su un altro piano invece, che è collegato più con il bisogno che con il desiderio, la legge mette il semaforo. La relazione non è più pertinenza dei soggetti desideranti, è la legge che dice ciò che è opportuno e ciò che è prioritario.
Quel che voglio dire è che non si può immaginare una società in cui c’è solo la legge del desiderio, la società è sempre – e questo Sofocle l’aveva capito bene – una situazione in cui c’è il desiderio e ci sono le possenti leggi. Ma c’è un conflitto costante, non è una coesistenza pacifica. Finora noi abbiamo vissuto in questa coesistenza – e nel finora includerei anche ciò che è successo dopo la seconda guerra mondiale ma escludendo lo sterminio degli ebrei, perché lo sterminio cambia totalmente le carte in tavola. Non avendo risolto questa questione, avendo lasciato dei nodi irrisolti, di nuovo le nuvole si avvicinano.
Oggi questa coesistenza è a rischio, le leggi si impongono sul desiderio. Slittiamo verso un’ipernomia, non esattamente l’eccezione dalla legge, di cui parla brillantemente Agamben, ma la norma come eccezione della vita, la norma distrugge la vita o non ne tiene più conto, non aspira più a regolare la vita ma vi si contrappone e gli impone la sua forma.
Oggi si parla del “diritto di sicurezza”, in contrapposizione al desiderio. La ricerca della sicurezza slegata dal desiderio, l’apertura al mondo che ci fa conoscere la realtà, ci chiude in un assetto difensivo, ferma l’esperienza e rende la nostra condizione più precaria. Fa ormai parte del nostro modo di vedere le cose della vita. Però dobbiamo tener presente che più siamo sul bisogno di sicurezza, meno siamo vivi; più siamo nel campo del desiderio e più siamo vivi. Queste sono cose che non possiamo ignorare, rispetto alle quali non possiamo non assumere una responsabilità.
Federici
Mi viene da chiederti se secondo te sono “malattie del desiderio” alcune cose che, da analista, mi sembra di riscontrare sempre più di frequentemente.
Le dico in ordine sparso. Le situazioni che definirei di impoverimento di un principio di autodeterminazione: la fatica da parte di alcuni giovani di prendere in mano un progetto di vita, di appassionarsi a qualcosa, di interessarsi e proiettarsi nel futuro. Ci sono anche tante difficoltà oggettive, è chiaro, ma sembra a volte una atarassia, un’inerzia. Qualche anno fa aveva fatto un successo editoriale clamoroso il libro di Benasayag “Le passioni tristi”. Altro fenomeno: i cosiddetti “attacchi di panico”. Per carità, lo dicevamo anche tre settimane fa presentando il libro della Turnaturi: la crisi d’angoscia è un sintomo che sta dentro forme molto diverse, ma mi sembra sempre più frequente in quelle situazioni in cui il giovane tiene fin quando è dentro un percorso strutturato come gli studi fino alle superiori, ma appena si deve prendere in mano un percorso di studi universitario o entrare nel mondo del lavoro o uscire di casa, ci si ritrova con questa vertigine assolutamente disorganizzante. L’altro fenomeno che mi viene in mente sono le dipendenze: sostanze, relazioni sessuali compulsive, videogiochi. Sembra che siamo più propensi a mettere le sensazioni e gli eccitamenti al posto dell’impegno, di una dimensione affettiva. “Surfiamo” molto velocemente sulla superficie, penso per esempio all’abuso di pornografia su internet: lì per eccellenza tu puoi amministrare il tuo desiderio, mettendoti in una situazione di eccitamento, non ti apri a essere sorpreso da qualcosa che può coglierti all’improvviso. Che lettura ne dai?
Thanopulos
Mi vengono in mente quelle situazioni in cui una persona sta per sposarsi, magari con delle titubanze, e ci sono altri intorno che corteggiano. Può aver chiaro di preferire la persona con la quale si sta sposando e ha intenzione di rimanere fedele al suo impegno, però si mantiene in una posizione di non definizione dove la certezza è sospesa. Sono situazioni che conosciamo tutti. Si mettono in atto strategie che salvano capra e cavoli. Tuttavia nelle relazioni amorose la strategia non significa niente, la strategia non ha a che fare con il desiderio, parliamo di “strategie del desiderio” ma il desiderio aborrisce la strategia. Quando siamo nella strategia siamo su un piano difensivo. Molte persone cercano di arrivare al matrimonio strategicamente, rendendo prevedibile, rispetto alle proprie ansie, l’arrivarci; ma questo modo lo disinveste e lo svuota di significato, che è una contraddizione sulla quale prima o poi vanno a sbattere.
In generale non amo l’espressione “passioni tristi” perché nella tristezza non trovo qualcosa di negativo. Credo anzi che la tristezza sia costitutiva della passione, che bisogna saper essere tristi, in qualche modo, per poter vivere l’esperienza del lutto.
A proposito del desiderio che ama il lutto, voi sapete che nella tragedia greca ci sono dei sentimenti importanti perché la tragedia sia godibile e produca piacere.
Il problema che Aristotele si era posto era: com’è possibile che da situazioni così catastrofiche, disastrose, dolorosissime, uno possa uscire con un sentimento di piacere?
Qui si può vedere chiaramente la dinamica del desiderio rispetto al bisogno che cerca un piacere di sollievo, non sosta nella tensione.
Aristotele sosteneva che la trasformazione di dolore in piacere avviene attraverso un processo di katharsis, che non ha a che fare con la purificazione o con la scarica. Lui nominava due sentimenti fondamentali: Eleos che è la compassione e Phobos che è il terrore. Le situazioni messe sulla scena tragica sono adatte a creare terrore, perché sono in grado di metterti di fronte alle conseguenze della tua hybris, il disastro che può causare ogni tuo errore preterintenzionale – amartia – nella relazione con l’altro, che la pregiudica, ma anche stimolare compassione, perché con-patisci con l’altro, vivi la stessa passione, non ti distacchi, non lo giudichi, non ne sei superiore, riconosci che avresti potuto fare le stesse cose e che il motivo per cui avresti potuto farlo deriva dalla passione, senza la quale non puoi vivere. La passione è una bella cosa, ma anche una brutta bestia da gestire; gli spettatori greci la vivevano fino in fondo ed erano quindi solidali con i protagonisti sulla scena e allo stesso tempo ne avevano terrore. Questo miscuglio di tensioni dentro di loro permetteva la trasformazione, lo sbilanciamento, lo sconvolgimento del loro mondo interno che si risolveva solo raggiungendo un nuovo equilibrio. Per questo le tragedie avevano anche uno scopo “educativo”, riaprivano i confini del rapporto con l’altro e permettevano ai cittadini di poter vivere i loro conflitti in una maniera non catastrofica.
Dopo errori preterintenzionali, delle cui implicazioni gravi non sei consapevole quando le compi, che ti portano in una impasse catastrofica nel rapporto con l’altro, “o tu o io” – devi rimetterti in discussione e trovare un nuovo equilibrio con lui. Allora, mentre difendo le passioni smisurate che mi hanno portato all’impasse, senza giudicarle, ma accettando che mi appartengono, il terrore mi dice: c’è un limite, devi rivedere l’equilibrio delle passioni dentro di te, farti accessibile nei confronti del dolore per ciò che rischi di perdere. La tensione mette in gioco tutti i punti dove il desiderio deragliato per eccesso di autoreferenzialità può ritrovare la strada dell’altro e risorgere. L’abilità del tragico è nella capacità di toccare una potenzialità di desiderio che non c’è stata prima.
Devo molto a un grecista inglese, Taplin, che ho letto una ventina di anni fa. Sapete che Aristotele ha scritto mezzo secolo dopo la fine della grande tragedia, c’era però un contemporaneo dei tragici greci, Gorgia il sofista, che scrivendo l’Encomio della bella Elena, in cui cercava di dimostrare che Elena non fosse colpevole, si è posto un problema analogo a quello del grande filosofo. In che cosa consiste il potere di persuasione dei poeti tragici? La loro capacità di promuovere emozioni, sentimenti, cambiamenti d’animo e di visuale?
Gorgia parla di tre i sentimenti: Eleos e Phobos, che descrive in maniera più intensa rispetto ad Aristotele, e forse li avrà presi da lui, e “il desiderio che ama il lutto”.
Il desiderio ama il lutto perché è il lutto che lo fa nascere. Il desiderio è messo in gioco dalla passione del protagonista, con cui lo spettatore si identifica per compassione, ma sanguina per la ferita della perdita dell’oggetto desiderato che il suo eccesso determina. La mescolanza tra passione che rivuole ad ogni costo il suo oggetto e il terrore che ammonisce che la ferita può diventare irreparabile, catastrofica - la perdita dell’altro sta per trascinarti nel baratro - imponendo il rispetto di ciò che insegui, fa rispetto dell’oggetto fa ri-nascere il desiderio che ama il lutto, che si riconosce nella perdita perché è la perdita che gli restituisce sia il suo oggetto che se stesso nella sua nuova condizione.
Come ho detto prima non amo l’espressione “passioni tristi” perché la tristezza ha a che fare con il lutto ed è una cosa buona. Quando per esempio parliamo di malinconia, il grado estremo della tristezza, nominiamo una condizione in cui hai perso in modo inesorabile il tuo oggetto – che non è più disponibile, non lo puoi ritrovare - e non puoi fare un lutto, né creare uno spazio della mancanza. La melanconia è come una ferita che può solo sanguinare una soggettività necessariamente ripiegata su un versante autoerotico, ma che cerca qualcosa, l’alterità perduta: non ha altra sponda che il sanguinare. Tuttavia finché sanguiniamo siamo ancora vivi. Con un dolore insopportabile, ma vivi.
Il problema è quando, al posto di oscillare fra lutto e melanconia, al posto del senso della mancanza mettiamo l’inerzia. La morte prende il posto della vita e diventiamo ciechi, sordi, insensibili all’alterità. Perché è la nostra carne sanguinante che ci porta verso l’altro. L’altro apre una ferita dentro di noi, staccandosi, e il desiderio sanguina.
Se pensiamo a come funziona la nostra società, se noi siamo sul piano del bisogno, su una dimensione omeostatica, la strategia è quella di contrarci. Se ci contraiamo, se il nostro corpo perde il suo tessuto vivo e si irrigidisce, non sanguiniamo più. Ma il nostro tessuto vivo dell’essere diventa fibrosi.
L’imperativo che domina il nostro mondo è: non soffrire. Che non significa che provi piacere, ma che cerchi di evitare il dispiacere. Una strategia, ma non ci accorgiamo di come lasciamo che la morte si impadronisca della nostra vita. È un circolo vizioso, perché il prezzo che si paga nell’essere inerziale è sentirsi morto, allora parte da lì tutta una serie di strategie di eccitamento, per tirarsi su, per sostenersi su una dimensione adrenalinica dell’esistenza che imita la vita. Ma siccome l’eccitazione porta tensione e la frustrazione del desiderio crea un’ulteriore tensione sotterranea, si ricorre ai calmanti. Oggi il potere è nelle mani di coloro che riescono a produrre oggetti eccitanti e calmanti. E non stiamo parlando solo di quegli oggetti che sono tali immediatamente alla vista, ma perfino degli oggetti più sofisticati di cui il desiderio potrebbe fare buon uso, ma che sono prodotti a questo fine: eccitare e calmare, oggetti che non usiamo veramente, ci servono solo per scaricare tensione.
E ormai questo ci riguarda tutti. Nella nostra vita il conflitto è fra chi è molto alienato e chi, nonostante viva dentro questa dimensione, resiste. Per questo penso che siamo in una società che ha una tentazione totalitaria, dove la democrazia diventa sempre più formale e se non vigiliamo, se molliamo siamo perduti.
La mia rubrica “Le verità nascoste” sul Manifesto di domani può essere una buona chiusura di questo incontro: riguarda una transessuale, un uomo che vuole diventare donna, che si è sposata. È un caso che ha suscitato un certo clamore mediatico. Ha rilasciato un’intervista dopo un paio di settimane dicendo che si trovava molto male perché dopo il sostegno e la partecipazione iniziali, si sono ritrovati molto isolati. E questo perché le persone hanno scoperto che lei, che è la prima transessuale in Italia ad aver fatto la ri-attribuzione legale di sesso, pur essendosi dichiarata donna, non ha voluto togliersi il genitale maschile. Questo sia i familiari che la comunità non lo tollerano.
I transessuali, per una serie di motivi complessi e diversamente valutabili - che evidenziano, tuttavia, anche tutte le contraddizioni nelle quali siamo immersi nella nostra società – vivono in una dissociazione psichica dal loro corpo, cioè affermano il primato della psiche sul corpo: “ho un corpo di uomo ma psichicamente sono una donna”. Ma hanno bisogno del loro corpo perché le radici del piacere sono somatiche, quindi il motivo per cui la maggior parte delle persone non fa l’operazione è che dopo non potrebbero provare più piacere. Quel che gli viene chiesto, quindi, è di essere radicali, una visuale “normativa”, diciamo così, che non considera il loro godimento. Alla fine la società o la cultura imperante chiede loro di essere eunuchi.
Il regime teocratico di Teheran perseguita gli omosessuali ma non i transessuali: quel che fa scandalo è la sessualità, l’importante è che non ci sia scandalo sul piano del godimento.
Non ci rendiamo conto di queste derive.
Certo, possiamo pensare, con tutti i problemi della nostra vita dobbiamo occuparci di queste cose? Eppure è là che si può cogliere meglio quel che sta accadendo, la natura della malattia che sta comprimendo la nostra esistenza, l’elemento sotterraneo che lavora sotto le apparenze di sintomi poco evidenti o fraintesi nel loro significato.
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