Due Vite di Emanuele Trevi è la storia del bene che ha legato per una vita lʼAutore a Rocco Carbone e Pia Pera, bene che si dipana via via nella descrizione delle vite, delle opere, dei caratteri e infine delle morti degli amici, scrittori di talento, intelligenza e profondità.
Bene che è il filo conduttore del lungo raccontare di loro, tanto che, alla fine, ci accorgiamo anche noi di voler bene al vivere smodato e famelico di Rocco e alla mitezza birichina e accudente di Pia. E di voler bene ad Emanuele, che usa sapientemente lʼarte narrativa per non lasciarli andare, per renderli ancora presenti e capaci di parlare.

“Perché noi viviamo due vite, entrambe destinate a finire: la prima è vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene. E quando anche lʼultima persona che ci ha conosciuto da vicino muore, ebbene, allora davvero noi ci dissolviamo, evaporiamo, e inizia la grande e interminabile festa del Nulla, dove gli aculei della mancanza non possono più pungere nessuno. Di una cosa sono sicuro: mentre scrivo e fintanto che me ne sto seduto a scrivere, Pia è qui, la sua presenza è ingombrante come quella del tavolo, o della lampada. Se invece penso a Pia, ci sono solo io che la penso, è tutto nella mia testa, allʼaltro capo del filo cʼè solo unʼassenza... Ne deduco che la scrittura è un mezzo singolarmente buono per evocare i morti, e consiglio a chiunque abbia nostalgia di qualcuno di fare lo stesso: non pensarlo ma scriverne, accorgendosi ben presto che il morto è attirato dalla scrittura, trova sempre un suo modo inaspettato per affiorare nelle parole che scriviamo di lui, e si manifesta di sua propria volontà, non siamo noi che pensiamo a lui, è proprio lui una buona volta” (pag.84).

Trevi ha raccolto lʼesperienza del Pirandello di “Colloqui con i personaggi”, quando davanti alla morte della madre la evoca nella scrittura con una forza tale da riceverne risposta: “tʼimmagino viva ancora laggiù, seduta su codesto seggiolone, nel cantuccio, piccola... Potrei seguitare ad immaginarti così con una realtà di vita che non potrebbe essere maggiore... Ma io piango per altro, Mamma! Io piango perché tu non puoi più dare a me una realtà. È caduto a me, alla mia realtà, un sostegno, un conforto...”. Poi, come suggerito da Trevi, compare il potere presentificatore della Scrittura: “...sento dentro, ma come da lontano la sua voce che mi sospira: guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sacre e più belle.”

E allo stesso modo “Due vite” guarda le cose attraverso lo sguardo di Trevi, ma anche di Rocco Carbone e di Pia Pera, che sono vivi per e con noi e rendono il testo “più sacro e più bello”; così li sentiamo come amici anche nostri, amici di una vita, con cui abbiamo riso, chiacchierato, bevuto, alle travi della casa di Rocco ci siamo inzuccati anche noi se non fosse stato per la mano accorta di Pia, posta tra la nostra testa ed il legno, grazie alla sua “vocazione inestirpabile ad accudire, proteggere.... quel gesto protettivo... le è così connaturato che assomiglia più al respiro e al battito del cuore che alle decisioni consapevoli” (pag23).

Della malattia di Rocco abbiamo sofferto con lui, con Emanuele e con Pia. Una malattia descritta magistralmente nella sua opera “L’apparizione”, che Trevi racconta così: “Il fatto è che Rocco era una persona in grado di stare bene anche più di molti suoi simili. Se bruciava la vita con una pericolosa intensità, come se fosse dotato di una miccia più rapida di quella degli altri, è proprio perché la capacità di godere era in lui altrettanto rigogliosa di quella di soffrire. Alla fine gli venne diagnosticata una personalità bipolare. Anche ad essere del tutto digiuni di conoscenze psichiatriche, la parola suona adeguata. Le montagne russe del suo umore prevedevano tuffi vertiginosi in basso e risalite altrettanto ripide, che si alternavano con grande rapidità” (pag 35).

Raffinato conoscitore dellʼanimo umano, si avverte in Trevi abitudine al pensiero psicoanalitico e dimestichezza con le categorie psichiatriche, del resto è figlio di un importante psichiatra e psicoanalista junghiano e di una neurologa psicoterapeuta. Egli ci suggerisce con la precisione dei poeti la posizione da cui osservare lʼaltro e forse anche il Sé: “Più ti avvicini ad un individuo, più assomiglia ad un quadro impressionista, o ad un muro scorticato dal tempo e dalle intemperie: diventa insomma un coagulo di macchie insensate, di grumi, di tracce indecifrabili. Ti allontani, viceversa, e quello stesso individuo comincia ad assomigliare troppo agli altri. Lʼunica cosa importante in questo tipo di ritratti scritti è cercare la distanza giusta, che è lo stile dellʼunicità” (pag18).

Nonostante questo background familiare Trevi soffre dellʼeccessiva attenzione dellʼamico Rocco Carbone ai propri movimenti interni e suggerisce: “...la felicità dovrebbe consistere in una sempre minore attenzione a se stessi. Altro che la cura di sé! Meno sai chi sei e cosa vuoi, meglio stai. Quello che ho sempre augurato a Rocco, nei tanti anni della nostra amicizia, è stato un minimo di inconsapevolezza in più. Ma questa è davvero una firma di saggezza che gli era del tutto estranea” (pag 36).

Felicità che raggiunge nonostante la terribile ed invalidante malattia lʼamata Pia, amica saggia, completamente appagata ed identificata nella cura del Suo giardino, come luogo dellʼaltro da sé, dellʼambiente che ci culla e ci contiene, della “dimensione vegetativa del nostro essere che tende a sfuggire alla coscienza come lʼattività di un organo involontario. Lʼindividuo che recupera alla sua consapevolezza questa forza negatrice, questo potere cieco di pura persistenza, questo ritmo stagionale di espansione e contrizione, riconoscendosi in questa via intuitiva in ogni fenomeno della vita cosmica, non considerandosi molto diverso da un cane randagio, da una venatura del marmo, da un cespuglio di rosmarino, ha ottenuto qualcosa di molto simile alla salvezza. Invece di rinunciare allʼegoismo (come se fosse possibile!) lo ha attraversato fino in fondo, ed è sbucato nella libertà senza bisogno di abiurare nessuna maschera indossata in precedenza. Questa è stata la strada di Pia...” (pag 86).

E con queste righe in qualche modo Trevi ci suggerisce anche la sua strada alla cura e alla conoscenza di sé, considerandoci un ambiente, da esplorare, curare, osservare, nutrire, potare, seminare, abitare, proprio come un giardino, attraversando ed andando oltre il nostro egoismo.

Pirandello, L. Colloqui coi personaggi e altre novelle, Garzanti 1994.

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