“Porsi le questioni giuste è ciò che, dopo tutto, fa la differenza
tra l’affidarsi al fato e perseguire una destinazione, tra la deriva e il viaggio.
Mettere in discussione le premesse apparentemente indiscutibili del nostro modo di vivere
può essere considerato il più urgente dei servizi
che dobbiamo svolgere per noi stessi e per gli altri.”
Z. Bauman
La Kultur che avrebbe dovuto realizzarci nelle immortali conquiste della creatività umana, ha da tempo rivelato il lato buio del declino morale della vita civile.
Ma ben oltre la corruzione spicciola di scenari clientelari o burocrazie kafkiane da oliare, gli Autori esplorano la corruzione come funzionamento psichico profondo, declinata nei comportamenti familiari e collettivi, divenuta una vera e propria patologia di sistema.
Che la riflessione sia condotta a partire dall’esperienza clinica o facendosi ispirare dalla letteratura o dalla cronaca, ciò che i diversi contributi mettono sotto la lente d’ingrandimento sono fenomeni di deterioramento della funzione parentale, educativa, sociale, politica.
Si corrompe la funzione genitoriale (o formativa) con atteggiamenti ipersaturanti che spengono la curiosità e il bisogno di ricerca di significato, quando si plasma l’altro assoggettandolo ai propri bisogni, o lo si trattiene adescandolo con promesse di protezione invece di esprimere una funzione emancipatoria. È corrotto il familismo amorale barricato nella claustrofilia del proprio interesse o il maternage di un linguaggio politico appiattito e uniformato dalle logiche di consenso, che blandisce con illusioni di sicurezza la delega sempre più indolente di una communitas ormai adattabile ad ogni scempiaggine.
La famiglia e la collettività sono poli fondamentali della nostra soggettivazione: ma cosa resta della possibilità di arricchirsi se lo sviluppo di un pensiero originale e critico viene sacrificato all’adesione mimetica a forme conformistiche per la sponda di un’appartenenza?
L’identificazione a massa con la mentalità del gruppo consente un certo contenimento controfobico delle angosce attraverso la reificazione delle certezze proprie delle ideologie, un adattamento primario che occlude la conoscenza e il lavoro psichico volto ad apprendere dall’esperienza e a costruire un legame di senso tra sé e il mondo esterno senza semplificazioni orbate o onniscienti.
Un esempio ci viene offerto nel ripercorrere la vicenda dell’impresa Eternit e della comunità di Casale Monferrato, che per decenni visse – e purtroppo morì – sull’economia della lavorazione del cemento e dell’amianto. L’interesse non è rivolto a chi, per logiche di profitto, calpestò i diritti e la salute delle persone, ma alle vicende psichiche di quei cittadini che a lungo negarono, anche davanti ai dati dell’incidenza dei tumori nella zona, la consapevolezza che la fonte del reddito che dava da vivere alla propria famiglia era contemporaneamente il veleno che la uccideva.
È nell’attenzione a questi risvolti che il libro si fa strumento di pensiero, permettendoci di farci carico della questione al di là dei proclami delle forme deteriori del vittimismo o del relegare all’esterno la devianza, incorniciando “i corrotti” come altro da noi e preservando così la nostra immagine. Esplorare la corruzione dal punto di vista di chi la esercita, di chi la subisce e di chi vi collude, illumina la zona grigia che ci riguarda tutti. Che la corruzione alligni là dove è inibito l’esercizio di un pensiero autonomo, diventa una questione particolarmente rilevante in un’epoca come la nostra, nella quale la spinta ad emergere per uscire dall’anonimato finisce così spesso con il consegnarci all’adesione conformistica a modelli massificati.
Il male contemporaneo sta nella sua opacità esistenziale, in un pensiero privo di spessore e incapace di sostenere il conflitto, il dolore mentale, la caducità e la complessità del reale. In questo habitat, la corruzione è la lima sorda di una “retorica totalitaria” dal potente effetto uniformante su di un unico stile di vita omologato, dall’adattamento inconscio alla condiscendente servitù volontaria, il “così fan tutti” di un sistema di illibertà che ciascuno, adeguandosi, riproduce e rafforza, facendo venir meno il dissenso e la speranza stessa che si possa vivere altrimenti.
Le forze sociali si intrecciano con la psicologia profonda e l’operazione di stampo ideologico si collega a quella intrapsichica, perché la pressione sociale ad adottare una falsa coscienza agisce insieme alla tendenza regressiva, in ognuno, a liberarsi del conflitto e della tensione morale. Un contesto culturale che corrompe sostenendo la fuga dal pensiero (e dalla realtà) plasma la frammentarietà ed espone al rischio di un’emorragia del Sé, perché poco alla volta si evacuano, insieme alle tensioni, le stesse capacità psichiche per elaborarle. Una cura del male che non fa che alimentarlo, perché questo scorticamento dell’interiorità ci lascia sguarniti di strumenti integrativi e metabolici, rendendoci ancora più esposti all’adesione acefala a soluzioni prêt-à-porter.
Riolo (Psiche 2005/2), nominando il difetto dell’ordine simbolico e l’angoscia di integrazione tipici del nostro tempo, parla di eidolopoiesi: l’uso normalizzato di produzioni allucinatorie individuali e collettive, un’ipertrofia dell’immaginario che crea nuove realtà funzionali all’evitamento delle frustrazioni, trasformazioni in allucinosi che vanno a scapito dei processi di significazione. Un paesaggio che ricorda la Leonia di Calvino.
Il soggetto etico è colui che elabora su di un piano personale la capacità di cogliere le implicazioni degli eventi e tollerarli in un clima di incertezza, che considera l’alterità come parte di sé, che agisce consapevole delle responsabilità; i funzionamenti scissionali, invece, fanno perdere plasticità alla mente, allentano i legami affettivi e la sensibilità, lasciando solo indifferenza e cinismo.
È spinosa l’area al confine fra patologia ed etica, ma più che un giudizio morale sulla nostra società, l’impegno è quello di cogliere che cosa, nelle derive dell’ethos collettivo, risulti disfunzionale alla crescita psichica e ostacoli la libera soggettivazione delle persone.
È un’eredità freudiana la distinzione fra aspetti morali ed etici e l’esclusione di un discorso normativo, perché quella psicoanalitica è un’etica negativa (in rapporto alla sospensione del giudizio con cui opera). La conoscenza della complessità dell’individuo con le sue conflittualità, specie quella inconscia, offre un contributo specifico: “la relazione analitica è fondata sull’amore della verità, ovverosia sul riconoscimento della realtà, e tale relazione non tollera né finzioni né inganni” (1937, p. 530-31); una verità, quella cui si riferisce Freud, che non ha a che fare con la superiorità di un certo sistema morale, ma con l’impegno responsabile del lavoro interiore dell’analisi di smascherare le illusioni, di assumere su di sé il dubbio e il dolore mentale, permettendo all’individuo più consapevoli e articolate possibilità di scelte responsabili.
Quella analitica è una pratica di soggettivazione che sostiene la tenace promozione di un’attività significante, l’importanza generativa (e curativa) di uno spazio psichico come area potenziale e trasformativa dove si inseriscono le capacità di simbolizzazione e il libero pensiero. Riflettere sulla nostra posizione rispetto all’area del disagio della civiltà è un indicatore epistemico interessante, perché ci interroga sul delicato equilibrio fra il rispetto dell’autodeterminazione e la funzione disalienante che è insita nello strumento analitico, una tensione etica tutt’altro che priva di complessità.
Il nostro lavoro si sviluppa sul significato che i fatti assumono nella mente del soggetto, ma il piano trans-soggettivo dell’esperienza è utile da interrogare sia per comprendere la contaminazione dei conflitti psichici con i fenomeni di ordine culturale, sia perché ogni analista è inserito nel medesimo contesto sociale del proprio paziente, e la mancata analisi di questi aspetti può far perdere di vista l’effetto di influenzamento che i meccanismi corruttivi sono in grado di provocare sulla nostra strumentazione di bordo. Cremerius parla di maternizzazione della teoria (Il mestiere dell’analista, Boringhieri 1985), che considerando come focus un atteggiamento riparativo, può far mancare la funzione paterna del lavoro sul conflitto; Petrella e Berlincioni (Argonauti 103/2004) rimarcano quei rimaneggiamenti teorici e tecnici che rischiano di far mancare l’impegno nell’analisi dei dispositivi del carattere, in particolare il carattere normotico - e certe forme serpeggianti di non-integrazione sono ormai tali nel placet del fodero sociale.
I funzionamenti che interessano l’intercapedine fra il dentro e il fuori, le sindromi psicosociali (Di Chiara), quei funzionamenti perversi che sfruttano l’oggetto per demandargli l’onere del lavoro psichico da cui si esonerano (Racamier), rischiano di rimanere aree opache e non integrate. Argentieri (L’ambiguità, Einaudi 2008) ha descritto le intense reazioni controtransferali suscitate dai tentativi di corruzione della funzione analitica, che mira a una complicità fraudolenta per mantenere la coppia in una condizione indifferenziata, con il progetto criptico di sfuggire alla responsabilità della propria realtà psichica. Una tale dolorosità di assetto si può mettere in relazione alla qualità narcisistica di un attacco alla funzione di lavoro psichico, alla quotidiana fatica “depressiva” per l’integrità che si trova di fronte l’agile esonerarsi dal fare i conti con le dimensioni angosciose o scomode della propria esistenza.
Come ripristinare lo spazio mentale per il conflitto e la comprensione emozionale, mantenendosi fedeli alla funzione emancipatoria della psicoanalisi? Come contrastare l’adesione inerte a certe realtà di pervertimento etico, ristabilendo una dialettica che permetta all’individuo di integrarsi e realizzarsi nel suo mondo, affrancato da istanze morbigene che ne ostacolano la crescita?
Nell’articolarsi dei diversi contributi che compongono questo libro, ci viene offerta una panoramica sia della subdola estensione dei fenomeni corruttivi, sia dei molti vertici di pensiero dai quali è possibile elaborarli. Un’ouverture sulle questioni che, mentre affina chiavi di lettura sulle realtà più quotidiane, alimenta l’invito ad approfondire il pensiero, un richiamo a ciascuno ad avere buona cura della propria parte come condizione per costruire una civiltà in cui coltivare la speranza di altro.
Scorrono come fili rossi fra le pagine, i riferimenti alla funzione edipica della mente, all’importanza di tollerare il conflitto, alla rinuncia all’onnipotenza come unica strada che consente di guadagnare quel poco di potere possibile del proprio pensiero, snodi che rappresentano una stella polare del procedere a sostegno dell’integrazione al prezzo di un’impegnativa esperienza di conoscenza e di responsabilità di ciò che si conosce. E alla fine di una lettura che ingaggia a osservare il presente con sguardo meno miope, viene da chiedersi: nel cambiamento socio-culturale che ci trascina tutti, quanto ancora questi punti di riferimento faranno da punto fermo (per definire ciò che è “sano”?) e tracciare da lì l’ampiezza delle distorsioni?
Si parla da tempo di perdita dei garanti metasociali, di evaporazione della funzione paterna, di sfocatura del Super-Io, della scomparsa del registro della colpa per quello della vergogna; perché è l’interiorizzazione di un’autorità che ci permette di andare al di là dell’angoscia “sociale” per una vera e propria coscienza morale, cioè la possibilità di operare sostenendo una tensione etica e non con l’unica preoccupazione di essere scoperti. Questi cambiamenti, insieme all’eugenetica e alla tecnologia che spingono l’illusione di onnipotenza sempre più in là, ai meccanismi scissionali che imperversano corrodendo la realtà con le loro manipolazioni perverse, come lavorano sulle filiazioni? Con che impregnazioni inconsce si procederà a inscriversi nella catena delle future generazioni di cittadini e di analisti? Come si sposterà - o di quanto si è già spostata - quella stella polare?
Al termine del Disagio della civiltà Freud commentava che un funzionamento nevrotico ha sullo sfondo il funzionamento normale a consentire di rilevarne lo scarto, ma se tutta la massa si ammala, il riferimento va cercato altrove. Non liquet.
Viene in mente una poesia di Magrelli: “Mi accanivo sull’Etica, quando / il problema riguardava l’ottica?”