“Sarò l’altro che senza saperlo sono.”
Borges

La quarta edizione de “Il lettino e la piazza”, che il Centro Psicoanalitico di Bologna organizza insieme alla Biblioteca Salaborsa, propone quest’anno il tema di ampio respiro: “Noi e loro. La fatica della prossimità”, cogliendo, come di consueto, un emergente sociale del nostro presente sul quale psicoanalisti, intellettuali e rappresentanti della società civile dialogheranno.
“Prossimità” è il titolo del primo appuntamento che Nicolino Rossi, psicoanalista, apre richiamando l’accezione di un concetto che esprime - a un tempo - sia vicinanza che alterità, com’è anche nello spirito di questi incontri. A confrontarsi due relatori, Stefano Bolognini, psicoanalista, e Vito Mancuso, teologo e scrittore, due visioni diverse sulla realtà che però hanno entrambe al centro la relazione. La differenza precipua, sottolinea Rossi, è che l’orizzonte della questione viene, dall’uno, esplorato lungo la verticalità di uno sguardo prevalentemente rivolto alle profondità dell’animo umano, e dall’altro, lungo una verticalità volta all’alto della trascendenza.

Vito Mancuso titola il suo intervento: “Chi è il mio prossimo?”
Parte dalla dimensione grammaticale, convocando come un compito del pensiero quello di pulire le parole fino a farle risplendere nelle loro radici. “Prossimo” viene dall’avverbio latino prope che significa “vicino”, che al comparativo fa propius, e al superlativo proxime, da cui deriva l’aggettivo proximus che in italiano diviene “prossimo”, aggettivo e sostantivo, che indica vicinanza, nel tempo e nello spazio.
Le parole non mentono, dice Mancuso, perché vengono dall’impatto originario della vita sulla nostra mente, impressioni della potenza vitale che diventano espressioni; le radici etimologiche rintracciano l’impatto originario fra il nostro sentire e l’esistente, i flatus vocis. Il mio prossimo è quindi chi mi è vicino, la madre prima di tutto, poi padre e fratelli, i consanguinei, i figli, gli sposi la cui vicinanza a volte può diventare una carne sola. Ma la prossimità non è facile.
Il secondo passo della sua riflessione guarda al vangelo, versetto 29 del terzo vangelo di Luca, l’unico che riporta la parabola del buon samaritano. Si parte dalla domanda che il teologo rivolge a Gesù per saggiarne la stoffa: “Maestro, cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Questa è, secondo Mancuso, la domanda che ci riguarda tutti, credenti e non: cosa si deve fare per sfuggire all’effimero? Per approssimarsi a quei valori che sanno di eterno e danno un senso alla nostra esistenza? Qual è il bello e il vero - nel senso della radice ver, di ciò che fa fiorire la vita -, come condurre la nostra esistenza salvandola dal non senso e dal vuoto, dalla notte e dalla nebbia (richiamandosi al decreto nacht und nebel di Hitler) che aggrediscono la nostra esistenza? Gesù, da buon gesuita, risponde con un’altra domanda: “Cosa sta scritto nella legge?” E qui il teologo ebraico fa un’operazione geniale: risponde fondendo il comandamento del Deuteronomio 6 che prescrive l’amore per Dio con il comandamento di Levitico 19 che prescrive l’amore del prossimo. Orizzontalità e verticalità complementari, perché non possiamo amare il prossimo se non prendiamo energia da qualcosa che ci trascende, consentendoci di andare al di là del nostro interesse. Questa dimensione di trascendenza la possiamo chiamare in modi diversi da “Dio”, e anzi, sottolinea Mancuso, dovremmo rivedere cosa intendiamo per “Dio”, perché certe rappresentazioni umane del nostro tempo hanno perso profondità e significato. Quando poi il teologo chiede a Gesù: “Ma chi è il mio prossimo?”, egli risponde con la parabola del buon samaritano, la cui rilevanza sta soprattutto nel fatto che quell’azione umanitaria Gesù non la fa compiere al sacerdote o al levita, le persone perbene dai quali ce lo si sarebbe aspettato, ma al samaritano, che per la mentalità del tempo era un eretico, un impuro, nella categoria dei detestabili.
In questa pagina evangelica il concetto di prossimo passa da una concezione statica, legata alla vicinanza fisica, a una concezione dinamica: il prossimo è colui che incontro e ha bisogno di me, anche se ho tutte le ragioni per evitarlo o è un mio nemico. È su queste basi che il Cristianesimo fonda il comandamento dell’amore universale. Ma è davvero possibile amare ogni uomo? Neanche Gesù ha amato tutti della medesima compassione, andate a rivedervi Matteo 15, dice Mancuso. Ma che amare tutti incondizionatamente non sia possibile, non significa che il comandamento sia falso ma solo che è un’utopia, cosa importantissima nella vita delle persone. Diceva O. Wilde: “Una carta del mondo che non contiene il Paese dell’utopia non è degna nemmeno di uno sguardo”; l’utopia per definizione è l’isola che non c’è ma che tuttavia è necessario ci sia. Questo il fecondo paradosso che spiega perché gli esseri umani siano giunti a parlare di qualcosa che non c’è parlando del divino, e che tuttavia spinge e attrae, sapendo che a quella dimensione non si può arrivare.
La vita, nella sua dinamica essenziale cui non possiamo sottrarci, è vicinanza ma anche lontananza, unione e solitudine, comunione e separazione, prossimità ma anche distacco. A partire dall’unità fondamentale della vita biologica, la cellula, che fa parte di un tessuto ma è separata da tutte le altre cellule da una membrana.
Ma questo emerge anche dall’attenta considerazione del comandamento biblico: ama il prossimo tuo “come te stesso”, non di più, e per poter amare il tuo prossimo devi essere te stesso. Se non sei individuato, se non hai dei confini - per l’individuazione è necessaria una membrana – non potrai amare l’altro. Siamo un sistema che dev’essere aperto o, come la cellula, muore; siamo individuazione e relazione, diastole e sistole. La vita è apertura ma anche chiusura, luci e ombra, amore per gli altri ma anche custodia del Sé, comunione e solitudine, comunicazione ma anche segreto. Trovare la mediazione fra questi due poli significa praticare l’arte del vivere.
Mancuso richiama a un pensiero che per essere vero non deve solo interessare la mente ma arrivare a trasformare la vita, avere una valenza performativa, qualcosa che smuove e rinnova. Si ama il prossimo quando si ama coloro che ci sono vicini, solo da lì saremo in grado di sostenere la prossimità universale. Dice il Tao Te Ching: un viaggio di mille miglia comincia con il terreno sotto i tuoi piedi, e il primo passo può essere il più difficile. Parlare di amore universale e poi non essere in grado di praticarlo nel senso della gentilezza, della cortesia, di un sorriso, è solo ipocrisia.
Non è specifico del Cristianesimo questo comandamento dell’amore universale: nel Metta Sutta, testo buddista sulla gentilezza, si legge: “Possano tutte le creature essere felici e in pace, che la loro mente sia felice. Che qualsiasi creatura, sia essa mobile o immobile, senza eccezione, lunga, grande, media o corta, minuscola o corpulenta, visibile o invisibile, che viva vicino o lontano, già nata o in procinto di nascere, che tutte queste creature – dico – abbiano una mente felice. Che nessuno mortifichi l’altro, che nessuno, in qualsivoglia situazione, disprezzi l’altro, che nessuno, per collera o risentimento, desideri il male dell’altro, così come una madre difende suo figlio, il suo unico figlio, a costo della vita, allo stesso modo, nei riguardi di tutte le creature, si deve sviluppare un’illimitata attenzione mentale e un gentilezza amorevole per tutto il mondo”.
Forse il comandamento dell’amore universale si potrebbe oggi comprendere meglio denominandolo come comandamento della gentilezza universale, per imparare a sorridere un po’ di più.

Stefano Bolognini articola i suoi “Pensieri per una prossimità sostenibile” partendo dal curioso destino della psicoanalisi, nata come investigazione dell’inconscio e strumento di liberazione da elementi oppressivi e inibitori di un Super Io schiacciante, che si ritrova adesso a trattare lati patologici concernenti la carenze di limiti, di spinte ideali e di motivazioni riparative.
L’accento posto sull’aggettivo “sostenibile”, intende il realisticamente possibile, ciò che è a misura d’uomo senza sacrificare la complessità di cui siamo fatti. Oggi siamo consapevoli che una relativa salute e maturazione derivano dall’armonizzazione delle diverse componenti interne, che c’è un livello incessante di integrazione che impegna l’essere umano lungo tutta l’esistenza. Sostenibile concerne quindi la sopportabilità e il come accordare le parti interne per dare un esito più vitale che mortifero o distruttivo. Questo è uno degli impegni con cui la psicoanalisi si confronta.
L’evidenza della pulsionalità umana, sia sessuale che aggressiva, la difficoltà di relazionarci con gli aspetti indesiderati e indesiderabili dell’altro, è qualcosa con cui facciamo i conti quotidianamente, dalla riunione condominiale alla ressa sull’autobus, e a volte i conflitti più dolorosi sono quelli con le persone più vicine. Poi c’è il conflitto interno, l’alterità intrinseca ad ogni individuo, le inimicizie con le proprie fantasie, sogni, impulsi. Sostenibilità, quindi, in relazione a una certa tolleranza delle correnti pulsionali rimosse e non rimosse, e delle varie componenti interne. L’essere umano deve fare i conti con l’Ideale dell’Io che gli pone l’ambizione di essere come vorrebbe; con il Super Io, la coscienza normativa, che gli chiede di essere come i genitori avrebbero voluto che fosse o come si aspettano le persone più care. Aspirazioni, obblighi, spinte pulsionali, le scissioni interne con cui battezziamo il buono e il cattivo, su cui proiettiamo spesso cose nostre. Armonizzare tutto questo è di una tale complessità che l’indicazione al procedere verso la bontà non è sufficiente, la prescrizione di comandamenti non è sostenibile da un punto di vista psicoanalitico.
Bolognini attinge alla prossemica, disciplina fondata negli anni ’60 in collegamento con l’etologia, per ricavare alcune indicazioni che ridimensionano il nostro livello di ambizione. Esistono spazi impliciti di una dimensione personale “intima” o “sociale” che richiedono di essere rispettati: curioso darne una metrica, ma sono convenzioni spontanee nelle relazioni, che funzionano come tali perché l’invasione di questi spazi - l’altro che si fa più “prossimo” in modo indesiderato - attiva le nostre aree subcorticali, quelle che non ragionano ma sentono, che innescano allerte e reazioni. Da essere umani siamo capaci di sofisticate funzioni corticali cognitive, logiche, noetiche, astentive, ma siamo anche sufficientemente animali da avere conservato funzioni subcorticali che consentono reazioni istintive.
Nomina poi l’articolo di Luca Goldoni sul quotidiano di oggi, che analizza i cambiamenti nell’uso dei pronomi di cortesia, altra misura di prossimità e distanza: se il voi si riferisce a un’epoca in cui le gerarchie e le distanze sociali erano tali che si arrivava all’uso del plurale maiestatis, il lei sarebbe la distanza riconoscitiva di una non-intimità. Ciò che Goldoni sottolinea acutamente è come il tu, che riguarderebbe l’area della prossimità più intima, venga oggi usato per simulare una familiarità - i francesi parlano di tutoyer, di “tueggiare”. In un sistema in cui gli ordini sono saltati, l’impressione è che il tu aggredisca i livelli di distanziamento o generazionali naturali, non ponendosi tanto su un piano interpsichico – che tiene conto delle identità dell’uno e dell’altro - ma transpsichico, che invade il territorio dell’altro e perfora livelli interni di rappresentazione di sé.
Quando Freud nel 1930 scrive “Il disagio della civiltà”, ha una visione disincantata della vita; in quell’epoca la grande utopia comunista, con il suo ideale di parificazione socioeconomica, suggeriva che l’eliminazione delle differenze socioeconomiche avrebbe fortemente diminuito l’aggressività intrinseca degli esseri umani. Freud dissentiva, non per motivi politici ma per la conoscenza dell’insopprimibile natura dell’essere umano: sarebbero cambiate le organizzazioni difensive degli individui e dei gruppi, ma non si sarebbe eliminata la pulsione aggressiva. Una lettura degli sviluppi politico-sociali in termini di difese collettive nei riguardi della passionalità umana portano in primo piano invece le formazioni reattive, cioè quei tentativi di enfatizzare fortemente il contrario della pulsione che viene combattuta, tentativi ossessivi di ripulire il campo che insospettiscono un analista.
Questo non significa che non possiamo avere proponimenti o esortazioni a considerare l’altro simile a noi, a trattarlo con cura e riparatività. Significa solo considerare che se nella nostra composizione interna c’è uno sbilanciamento a favore o troppo a scapito di una delle diverse istanze, l’individuo si disorganizza. Abbiamo bisogno di ideali - Fatti non foste a viver come bruti ha un senso perché l’essere umano senza ideali abbruttisce e deperisce veramente - ma abbiamo bisogno anche del contatto con la nostra pulsionalità, perché, come diceva Pascal, chi vuol essere troppo santo si ritrova bestia. Pascal non pensava fossimo né l’uno né l’altra, la sua era una visione aperta sulla complessità di una natura umana che non può essere sbilanciata verso una natura migliore. Così un eccesso di ideali fa ripudiare parti di sé; un eccesso di limitazioni e divieti ne reprime e mortifica altri; l’assenza di limitazioni porta l’individuo a sperdersi.
Quest’ultimo è un tipo di patologia che gli psicoanalisti di oggi riscontrano sempre più spesso: individui senza limiti, che l’analisi accompagna con molte difficoltà a riconoscere di averne, perché non riconoscerli espone a una sfida onnipotente, megalomanica, che vediamo spesso in adolescenza ma che è ormai diventato un problema sociale.
Il nostro Io centrale, responsabile del coordinamento del nostro vivere, è auspicabile sia in contatto con tutte le diverse aree del Sé, e come un direttore d’orchestra sappia dare a tutti i giusti tempi. In definitiva, lo scopo principale della psicoanalisi di oggi è diventato quello di una integrazione, ricomposizione e, se si può, di una certa armonizzazione delle persone.

Le domande dal pubblico sollecitano alcuni approfondimenti.
Mancuso richiama l’affermazione di Bolognini dei comandamenti come qualcosa di non sostenibile e ricorda che quando nel medioevo si cercava di fondare l’etica, la massima era: bonum faciendum, malum vitandum, un gerundivo che non si presentava come consiglio, ma come comando. Quando arrivò Kant, volle fondare l’etica non più su base eteronoma ma su base autonoma, dando sovranità al soggetto. Un’etica formale, certo, non contenutistica, ma che rimane un imperativo categorico. Poi ci sono due modelli, quello teleologico fondato sui fini e quello deontologico che intende stabilire le regole universali del corretto agire. Agisci in modo da trattare l’umanità come scopo e non come mezzo o agisci in modo da poter elevare a massima dell’agire universale la tua singola azione: se tutti facessero come io mi appresto a fare, il mondo sarebbe migliore?, questa la domanda cui dare risposta. Richiama poi alla consapevolezza dell’importanza del pensiero disobbediente e del poter trasgredire, ma in funzione di un’obbedienza a una maggiore verità, ragione e coerenza. Afferma quindi la necessità che nell’etica ci sia questa dimensione di imperativo, che siamo soggetti nella duplice accezione, compresa quella dell’essere al cospetto di qualcosa di più grande di noi, dei nostri istinti o ambizioni. Ciò che è più grande è la relazione equa, la giustizia e il diritto, che ci raddrizza lo sguardo. Quel che sente, da uomo religioso, è il primato di una dimensione al di là del mio io, che si impone, che Kant chiamava rispetto. Lo colpisce apprendere di una psicoanalisi che oggi si trova a fare il mestiere opposto di quando è nata, che deve immettere limiti e superego: pone semafori quindi, magari non nella forma dei comandamenti repressivi che hanno istituito i complessi di cui Freud si è occupato. Richiama e concorda con Kant sull’etica formale, che si deve lavorare ogni volta per capire il significato della propria azione: ciò che va insegnato ai nostri ragazzi è la forma, la danza del convivere con l’altro, ma per questo occorre un gerundivo. Mettere d’accordo le varie parti di noi e conoscersi: non a caso queste cose non tramontano, se pensiamo che duemila anni fa, sull’architrave del tempio di Delfi, stava scritto: Conosci te stesso. E con la psicoanalisi questo lavoro infinito è divenuto ancora più profondo.
Chiede poi a Bolognini come si chiami il sé che conosce se stesso, nello sdoppiarsi del sé fra soggetto e oggetto del conoscersi. Gli antichi parlavano di nùs, l’intelletto spirituale: piace l’idea dello spirito che conosce?

Bolognini riprende dalla funzione semaforica richiamando il punto più delicato, dal punto di vista psicoanalitico, che è quello dei desideri: la difficoltà è dire di non desiderare qualcosa. Vero che si può pensarla come una forma estremamente condensata che non intenda proprio il non avere desideri ma piuttosto il non perseguirli, perché impedire il desiderio non è sostenibile. Anzi, astenersi laddove non si desidera, non procura nessun merito, ed è lì, in fondo, che si misura il senso etico. Riguardo l’altro versante, quello dell’aggressività, richiama il lavoro di Winnicott sulla necessità di poter odiare, potendo prendere contatto con questi sentimenti, poi si cercherà di essere migliori sul piano delle azioni; ma ripromettersi di non odiare farà scappare di lato, in maniera inconsapevole, equivalenti di quel che abbiamo soppresso. Il contatto con sentimenti interni negativi o narcisisticamente offensivi (invidia, gelosia) è rilevante per l’etica, perché consente agli individui di regolarsi in maniera diversa.
Rispondendo alla domanda di Mancuso sul Sé che conosce sottolinea l’importanza di un conoscere che non sia teorico ma appunto esperienziale, che come tale non può prescindere da un certo contatto con l’altro; la relazione quindi, che è anche all’origine, perché il modo in cui le persone trattano il loro sé riproduce il modo in cui è stato trattato il sé infantile. Per la psicoanalisi il concetto di spirito e di qualcosa di trascendente non è facile da rappresentare, se non ricorrendo a degli equivalenti fantasmatici che possono rimandare a figure genitoriali ed equivalenti successivi. Sono dimensioni che allertano gli analisti, specie quando assumono una caratterizzazione scissa rispetto al resto del sé; diverso è se ci si riferisce a quel patrimonio interiore che ci viene trasmesso attraverso le generazioni, continuità del genere umano di cui siamo portatori anche senza saperlo, ma forse questo coincide solo in parte con l’idea del teologo.
Coincide in larga parte, conferma Mancuso, specie passando dalla filosofia di Hegel, a partire dalla lingua che ci contiene. Lo spirito rimanda alla libertà, anche di trasgredire agendo al di là della logica di corpo e psiche, in senso nobile o ignobile; lo spirito è l’effetto del caos, è imprevedibilità, principio di indeterminazione, la capacità di deragliare o decollare salendo. Quel che ci appassiona davanti all’arte, alla musica, alla bellezza, che ci fa star qui a cercare di capirci, quel che ci fa agire nel nome di una giustizia più grande, di una volontà di bene, al di là della nostra incolumità fisica o del nostro benessere psichico. La mente antica ha inventato il termine spirito per designare questa parte più nobile dell’essere umano e nel latino di spiritus, nel greco di pneuma e nell’ebraico di ruah, i termini originariamente richiamano al vento, elemento caotico, indeterminato, che non si sa da dove viene né dove va. Questa è la capacità di trascendenza.
Bolognini conclude considerando che forse, con più tempo per dialogare, si sarebbero potuti trovare altri punti di contatto fra questa visione ispirata a una verticalità che va verso l’alto e quella rivolta verso il profondo, perché in entrambi i casi sono valorizzati aspetti di creatività, di riparatività e rispetto.

Febbraio 2017

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