MITI ARBOREI, CULTI AGRICOLI E ACQUE SALUTARI

Il mito è un racconto. Narrazione di episodi fantastici, consente di accrescere il valore di un evento, circondandolo di caratteri ideali. Il mito connota i personaggi della storia, individuandoli come protagonisti di leggende capaci di esercitare potere di attrazione sulla fantasia o sui significati comunemente condivisi e dotati di caratteri grandiosi.

Il secondo viaggio di Sigmund Freud in Italia, compito col fratello Alexander, ha luogo nel 1896. Tocca Venezia, Padova, Bologna, Ravenna e Faenza; di qui, attraverso la ferrovia appenninica, Freud raggiunge Firenze, dove si trattiene per una settimana. Desiderio di Sigmund è quello di visitare Roma, meta ancora preclusa al suo percorso. L’arrivo nell’Urbe avverrà il 2 settembre 1901 e avrà il valore di un ingresso trionfale.
L’incontro di Freud con Ravenna si connota di tratti emotivi intensi, tali da entrare in un celebre sogno, che troverà il resoconto lungo una successiva narrazione. Entro il testo de L’interpretazione dei sogni (1899), Freud descrive una scena onirica, nella quale indica la percezione di essere a Roma. Con delusione, invece, scorge un fiumiciattolo dalle acque scure, sulle cui rive si trovano, da una parte, delle rocce nere, dall’altra, dei prati con grandi fiori bianchi. “Noto -scrive Freud- un certo signor Zucker… e decido di chiedergli la strada per la città.” Lo sforzo del sognatore è quello di vedere un agglomerato urbano che non ha mai visto da sveglio. Prosegue: “Scomponendo il paesaggio del sogno nei suoi elementi, i fiori bianchi indicano la città di Ravenna, che io conosco e che almeno per un breve periodo ha strappato a Roma il privilegio di essere capitale d’Italia. Negli acquitrini intorno a Ravenna, avevamo colto nell’acqua nera le più belle ninfee; il sogno le fa crescere nei prati, come i narcisi della nostra Aussee, perché allora c’era costata molta fatica coglierle nell’acqua.
Durante il soggiorno romagnolo, Freud scrive in una lettera: “Ravenna si è poi rivelata ricca di piaceri. Teodorico, Dante, mandorle, fichi dell’albero presso il mausoleo di Teodorico, vecchie chiese, mosaici, una pineta cantata da Dante, pesche, vino e caffé si sono coniugati in grandiosa armonia.
Il mito di Ravenna entra nelle rappresentazioni di Freud. La città conobbe un destino da capitale. Di fatto, dopo il trasferimento da Roma a Milano del potere imperiale d’Occidente, compiuto da Valentiniano (364), Onorio sposterà la capitale a Ravenna nel 402, sotto la pressione delle orde di Alarico. Ravenna, città protetta dagli acquitrini e dotata di porto, rappresenta la sede ideale per organizzare sistemi difensivi. Così, dopo la caduta dell’impero d’Occidente, Ravenna viene eletta capitale d’Italia da Odoacre, re degli Eruli. Seguirà il dominio degli Ostrogoti, con Teodorico, re per 47 anni. Al termine della guerra greco-gotica, Giustiniano proclama Ravenna capitale prima della prefettura d’Italia (554), poi dell’Esarcato (584).

Il luogo ove si apre il giardino Freud a Ravenna è collocato presso la basilica di Santa Maria in Porto. Qui echeggia il nome di un approdo marittimo, che dista alcuni chilometri dalla città. Il monastero dei Canonici lateranensi venne trasferito dalla primitiva sede (oggi Santa Maria in Porto fuori), per volontà del governatore veneziano. Siamo negli anni in cui Ravenna è soggetta al potere della Serenissima (1441-1509). La chiesa viene completata nel secolo XVIII; più celere era stata la realizzazione del convento. Si tratta di uno spazio architettonico di pregio, ornato dalla loggetta lombardesca a due ordini, eseguita da maestranze ticinesi tra il 1503 e il 1518. Oggetto di culto locale e accolta entro la basilica, è la Madonna greca, bassorilievo in marmo orientale del V secolo, raffigurante la madre di Dio (secondo il modello iconologico bizantino), che ha festa e processione la domenica in Albis. Recata in Occidente al termine della prima Crociata, la Madonna greca lega il proprio arrivo sul lido ravennate a una leggenda. Questa porta in scena Pietro degli Onesti, monaco antiscismatico al tempo della lotta fra papa e imperatore, ricordato nel Paradiso dantesco col nome di Pietro peccator. Il monaco ravennate, fuggito in Oriente al tempo dell’antipapa Clemente III, fondava nel 1096 il monastero dei canonici lateranensi sulla costa adriatica, luogo del suo prodigioso sbarco, al termine di una tempesta di mare. Qui la leggenda fa arrivare, galleggiante sulle acque, l’8 aprile 1100, il manufatto marmoreo della Madonna greca. Nessuno riesce a recuperare l’immagine dalle onde; solo Pietro potrà raccoglierla e collocarla in chiesa.
Il mito della Madonna greca ci consente di occuparci del valore delle acque salutari: flutti del mare da cui ottenere salvezza, onde portatrici di messaggi dal mondo ultraterreno, oggetto di promesse al termine di traversate perigliose. Un mito ravennate, da cui sarà affascinato Carl Gustav Jung, è quello di Galla Placidia, l’imperatrice, che volle edificare (424) sul luogo dell’approdo, al termine di un difficoltoso viaggio per mare da Bisanzio a Ravenna, nel pieno dell’inverno, la basilica di San Giovanni Evangelista. Il mito di Galla Placidia si lega anche alla bellezza del suo mausoleo, ornato di mosaici, espressione di una sublime rappresentazione dello spirito. Un altro mito legato alla bellezza è stato accolto dalla Pinacoteca ravennate (trasferita nel 1969 entro il monastero di Santa Maria in Porto). Si tratta di Guidarello, il guerriero effigiato nel marmo da Tullio Lombardo (1525), emblema di una bellezza capace di sedurre oltre la morte.
Le acque salutari assumono in Romagna anche il valore della terapia. Le aquae calidae, legate nelle loro sorgenti al mito di una ninfa o al compiersi di un prodigio, assumono sulla costa di Riccione il valore di una laica funzione. Qui, le fonti salutari rinviano alla figura leggendaria di un giovane, Alessio Monaldi, la cui presenza è indicata nel secolo XV, capace, per il tocco del bastone, di far sgorgare acqua dal suolo lungo la via Flaminia, con lo scopo di dissetare due viandanti. Le terme del beato Alessio, oggi consigliate per le affezioni della pelle e del metabolismo, sono ricche di acque, che, sgorgando dal sottosuolo, assumono valori minerali per il contatto profondo con argille di origine pliocenica.

I culti agricoli si legano, sul territorio romagnolo, soprattutto a semplici immagini mariane, sorta di elementi tutelari del raccolto, della fertilità, della ricchezza diffusa entro le campagne.
A Filetto, borgo non lontano da Ravenna, in diocesi di Forlì, troviamo il santuario della Madonna di Sulo. Qui si offre culto a un’immagine mariana, che ha festa nel periodo di Ferragosto. Vuole il mito che il simulacro di Maria, una rozza ceramica faentina acquistata alla fiera di Lugo, fosse posto da un giovane sopra un albero, ormai rinsecchito, entro il podere paterno. La presenza della Vergine avrebbe avuto il potere di fare rinverdire la pianta. Siamo nel settembre 1618. Sul luogo del prodigio, viene eretta una cappella; poi è costruito il santuario che onora l’immagine, salita a patrona del parto e della fecondità. Il rinnovamento della vegetazione e la vitalità delle coltivazioni entrano nel mito col valore dell’intervento divino, capace di garantire la certezza del raccolto e, con questo, la continuità della vita, intesa tanto come fecondità dell’essere umano quanto come rigoglio perenne della natura.
A Massa Lombarda, nella parte di Romagna che fu cara agli estensi, troviamo una frazione che ha nome latino: Fruges, le messi. Essa accoglie un santuario: la Madonna del Trebeghino, detta anche Vergine dell’oppio, dal nome latino dell’acero campestre, opulum. Vuole il mito, risalente al secolo XV, che un contadino rinvenisse tra le zolle del proprio campo, durante l’aratura, un bassorilievo policromo della Vergine col bambino. Lasciata l’immagine appesa a un acero campestre, l’agricoltore andò a messa. Al termine della funzione, trovò il proprio campo completamente arato. Sul luogo del prodigio sorse un edificio sacro, ove la Vergine è oggi onorata nel giorno di Pentecoste. Qui il culto mariano diviene una celebrazione del lavoro dell’uomo, inteso come opera capace di accordare il mondo del cielo e lo spazio della terra, laddove la concretezza del lavoro agricolo assume valore intriso di temi sacri e profani.

Abbiamo fatto cenno ad alcuni alberi. Hanno la funzione di introdurre un mito arboreo. L’enorme olmo di Masiera, località ravennate fra Bagnacavallo e Fusignano, sopravvisse fino alla metà del XX secolo. Così largo da dover essere cinto dall’abbraccio di sette uomini, presentava sul tronco un incavo ampio e profondo. A esso ci si accostava con timore. Si era diffusa, infatti, fin dal secolo XVIII, la leggenda che quello spazio vuoto fosse collegato alle viscere della terra e che da esso nascessero i bambini. Così l’olmo, antropizzato e insieme divenuto sacro, veniva assimilato alla potenza generativa del grembo femminile e al suo mistero.

Ci spostiamo a Rimini, sul colle di Covignano. Estate 1286, un pastore, chiamato Rusticus, trova riparo dalla calura fra gli alberi della collina. Qui scorge un tronco, che pare avere un profilo umano. Decide, allora, di scolpirvi l’immagine di Maria e si affanna per trarre dal legno la statua della Vergine. Niente da fare: l’impresa è superiore alle sue qualità. Giungono improvvisamente due viandanti e si offrono di aiutarlo. In breve la statua viene realizzata. Si tratta di una raffigurazione della Vergine col bambino. I due viandanti rivelano di essere angeli. Desiderio di Maria, aggiungono, è quello che sia posta la statua su una barca e affidata alle correnti adriatiche. Con dispiacere, Rusticus esegue l’invito dei due celesti messaggeri. La barca, senza guida, prende la via del Nord. Alcuni pescatori decidono di seguirla nel suo percorso. Così, la statua, solcando le acque, arriva a Venezia e approda alle Fondamenta nuove. Il popolo porta il manufatto entro la vicina chiesa di San Marziale e lo colloca in una cappella. Onorata di altare marmoreo e di affreschi eseguiti da Sebastiano Ricci, l’immagine è tuttora venerata col nome di Madonna di Rimini.

Siamo, dunque, tornati a Venezia, compiendo il viaggio inverso a quello di Sigmund Freud e ricongiungendo due estremi della civiltà adriatica, che, per la via d’acqua, ha diffuso i commerci e i segni di una cultura capace di conservare i miti delle origini e la tradizione dei culti. Tutto questo, attraverso i segni dell’arte, può ancora parlare allo spirito, fino ad ampliare la diffusione degli interrogativi sul pensiero e ad accrescere il valore dei rapporti e dei legami esistenti fra luoghi diversi, diffusi fra il presente e il passato.

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