Bologna, Centro storico e MAST, 12.10 – 19.11. 2017 (MAST fino al 14 gennaio 2018)
Catalogo: © Mast.Electa (a cura di François Hébel, Urs Stahel et al.)
E’ in corso la terza edizione della Biennale Foto/Industria che, secondo tradizione, si estende dalla PhotoGallery del MAST ad alcune delle sedi espositive più prestigiose del centro storico di Bologna.
Etica ed Estetica al lavoro: un titolo che, rifacendosi all’ideale greco di bontà e bellezza, rivela il proposito degli organizzatori di integrare la riflessione sulla bellezza dei prodotti finiti con l’esplorazione dei processi più oscuri che presiedono alla loro produzione. Ma c’è un’altra coppia di termini sulla quale si richiama l’attenzione: Identità e Illusione. Vengono così evocate le molte facce di quella parte dell’identità che si radica nell’identificazione col proprio lavoro.
A sviluppare i principali nodi di questa mappa concettuale provvedono le immagini: in bianco e nero e a colori, di piccole e grandi dimensioni. Il loro fuoco è puntato ora su paesaggi immensi; ora su interni confortevoli, ma ristretti e conchiusi; e ancora su uomini, donne, bambini e perfino robot antropomorfi al lavoro; nonché su macchine affascinanti, tanto ingegnose nei meccanismi che le animano, quanto permeate di bellezza nella loro struttura.
Quattordici gli artisti-fotografi in mostra: Ruff, Koudelka, Friedlander, Fontcuberta, Rodchenko, Jodice, Epstein, Myers, Borzoni, Lange, Fournier, Valsecchi, Bernard-Reymond, Watabe.
Faccio qui riferimento a due di loro in particolare: Joseph Koudelka, ingegnere aeronautico ceco che negli anni Sessanta, appena ventinovenne, abbandonò la professione per dedicarsi soltanto alla fotografia; e Vincent Fournier, giovane fotografo francese con interessi per quelle aree di confine che toccano scienza, fiction e utopia.
Dice Hébel di Koudelka nel presentarne le opere: «vi mostrerà ciò che non vedete». E lui ci mostra la terra come carne dolente trafitta da lamine ferrose, al cui orizzonte si stagliano sottili ciminiere avvolte in masse di vapore nero. Convivono sulla sua “pelle” tracciati dalle linee purissime, cumuli di rifiuti informi e ferite profonde. Sono paesaggi dalle tonalità aspre e cupe, che danno risalto soprattutto agli effetti devastanti della rivoluzione industriale (Figg. 1-2).
Eppure affascinano per la loro maestosità, perché portano impresse le tracce potenti di un’operatività pregressa. Un effetto analogo ottiene l’ingegnere fotografo quando volge il suo obiettivo alle vestigia di un altro passato glorioso, quelle del mondo greco-romano.
Notevole il contrasto con l’opera di Fournier che ottimisticamente punta lo sguardo al futuro e alle sue “possibilità”, offrendo esemplificazioni della ricerca tecnologica più avanzata. Si resta colpiti dagli enormi osservatòri rivolti verso il cielo o verso cime innevate, a scrutare Marte, la Luna o il territorio inospitale dell’Antartide; così come dagli esseri umani, accampati al riparo di minuscole tende, isolati e a stento percepibili sullo sfondo di spazi sconfinati. In alternativa, dominano il centro della scena gli astronauti: moderni esploratori equipaggiati di tutto punto, ma talora curiosamente adagiati in seggiolini simili a culle neonatali.
E infine uomini e donne intenti a “prendersi cura” di robot multifunzionali; o colti nell’atto di passeggiare, fianco a fianco, in loro compagnia. Sono immagini poetiche e al tempo stesso inquietanti; incantevoli nelle loro tonalità rarefatte, ma che non rinunciano a porre l’interrogativo sul ruolo che l’uomo potrà avere nel contesto di un’economia globale automatizzata (Figg.3-4).
Come controcanto a questa antologia d’immagini che si alternano nel documentare le ferite dell’abbandono e il potere vivificante dell’accudimento, vengono proposti due interventi di Anish Kapoor, lo scultore e architetto britannico di origine indiana.
E’ sua la scultura che oggi accoglie i visitatori sulla rampa d’accesso al MAST. Reach, un ponte dalle superfici a specchio, lanciato a congiungere simbolicamente il mondo dell’industria alla città e sul quale, per riflessione, si congiungono cielo e terra. Scultura complessa nella sua semplicità, che esprime «la tensione tra vuoto e pieno, tra ideale e reale […], ma anche la volontà di avvicinare questi poli, in una soluzione che sia sintesi e non divisione», come dice Isabella Seragnoli, la mecenate bolognese a cui si deve tutto questo.
Ma desta ancor più meraviglia la mostra Luoghi d’origine - Monumenti per il XXI secolo, che di Kapoor espone una selezione di plastici (per lo più di opere architettoniche) attraverso i quali si intuisce la genesi delle sue sculture più potenti. Innumerevoli le suggestioni che derivano dall’osservare il “paesaggio” variopinto di questi bozzetti: vero e proprio laboratorio di idee in fieri. Basti qui sottolineare il risalto che viene dato ai legami che intercorrono tra forme del paesaggio naturale, forme dei corpi viventi e forme del paesaggio costruito.
Legami che affiorano costantemente nel lavoro di ricerca dell’artista, in un susseguirsi incessante di rimandi reciproci: tra l’organico e l’ingegneristico, tra la durezza inossidabile dell’acciaio e la morbida mutevolezza della natura; e ancora tra cielo e terra, tra giardini paradisiaci e baratri infernali. Il tutto in un gioco di sorprendenti ribaltamenti prospettici (Figg. 5-8).
E’ forse questo uno dei tratti distintivi dell’arte di Kapoor: un forte impegno teso a preservare - accanto a ciò che il progresso tecnico-scientifico oggi ci consente - le forme originarie, mettendo in essere una creatività che difficilmente può prescindere dalla memoria dei “luoghi d’origine”. Una creatività che, in qualunque ambito si esplichi, trae i suoi frutti più alti dall’infernale fucina di Efesto.