Può la storia trasformarsi in una narrazione avvincente? Le vite minuscole di uomini oscuri possono avere un significato, etico ed estetico, anche oggi? Pare di sì, almeno a giudicare dall’ultimo spettacolo inscenato da Stefano Pesce che coniuga abilmente storia e narrazione.
Così è per la storia di Edgardo Mortara, una vicenda avvenuta città di Bologna a metà Ottocento (ma che ebbe ampia risonanza) e che arriva oggi sul palco restituita alla sua primigenia intensità. Un bambino ebreo, Edgardo Mortara appunto, viene battezzato da una domestica adolescente che lo credeva sul punto di morire per malattia (il cosiddetto battesimo in articulo mortis che può essere somministrato da chiunque a un moribondo).
Una morte che non avviene, ma che tuttavia lascia spazio ad un’altra morte, quella identitaria religiosa. A quel punto l’ignaro bambino passa da essere ebreo a essere cristiano, e come tale viene reclamato dalla Chiesa (interviene perfino il pontefice Pio IX) che, tramite il tribunale ecclesiastico, chiede sia allontanato dalla famiglia per essere educato alla religione cattolica in un collegio a Roma.
A nulla valgono i tentativi dei genitori, le richieste presso il tribunale della Santa Inquisizione, ufficio allora rivestito a Bologna dai domenicani. Il bambino viene strappato dalle braccia della madre e cresciuto a Roma. Nei cavilli della legge e dell’appartenenza viene persa ogni umanità e rispetto per le leggi degli affetti, quelle non scritte, che vengono così calpestate e violate. Edgardo Mortara si converte.
L’esperta capacità attoriale di Stefano Pesce si manifesta nel dare voce ai diversi personaggi e nel restituire l'assurda e dolorosa intensità di quella vicenda su un palco spoglio, con in mano l'unico oggetto di scena: un bastone, forse simbolo del potere che detta il ritmo della storia. Va ascritto a merito dello spettacolo il fatto che il testo è costituito unicamente dai documenti storici dell’epoca, che vengono animati dalla recitazione di Pesce.
Non si può a questo punto esimersi dal citare la Storia della Colonna Infame di Alessandro Manzoni, un testo straordinario di condanna della tortura, ma soprattutto di quei meccanismi di potere che, a cascata, generano ingiustizia e violenza, rendendo uomini giusti colpevoli di azioni che non avrebbero voluto commettere, così come i gendarmi non avrebbero mai voluto strappare il piccolo Edgardo dalle braccia della madre.
Manzoni sosteneva che quello che la storia aveva passato sotto silenzio fosse il regno dello scrittore, del romanziere soprattutto, che poteva dar voce e parola a chi parola non aveva avuto. Così anche nello spettacolo abilmente retto dalla sola voce di Stefano Pesce riprende vita e senso una vicenda altrimenti dimenticata che ancora oggi può far riflettere le coscienze.
D’altro canto questa era proprio una funzione originariamente del teatro, una funzione cioè politica e riflessiva. Perché l’arte di raccontare e di rappresentare è strettamente intrecciata con il pensiero e con la autentica democrazia.
“Perché infine che cosa ci dà la storia? Degli eventi che non sono, per così dire, conosciuti che dall'esterno; ciò che gli uomini hanno fatto; ma ciò che hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i loro risultati fortunati e sfortunati, i discorsi coi quali hanno fatto o cercato di fare prevalere la loro passione e la loro volontà su altre passioni o altre volontà, per mezzo dei quali hanno espresso la loro collera, effuso la loro tristezza, in una parola hanno rivelato la loro individualità: tutto questo e qualcos’altro ancora è passato sotto silenzio dagli storici; e tutto questo è dominio della poesia” (A. Manzoni, Lettre à Monsieur Chauvet).
Dominio felice, potremmo aggiungere, anche del teatro.