Ero ancora presa dalle considerazioni sulla mostra dedicata da Vittorio Sgarbi a Felsina pittrice, incerta se e come darne notizia in questo spazio, quando mi è capitato di vedere a qualche distanza di tempo la mostra sul Barocco romano e, infine, quella volta a celebrare le origini dell’arte milanese legate ai destini dei Visconti e degli Sforza.
E’ stato allora immediato il collegamento con Expo 2015, l’evento che vede l’Italia impegnata a mettere in mostra i gioielli di famiglia.
Da un lato i nuovi padiglioni (Eataly, il Padiglione Italia, Slow Food) dislocati in vari punti del sito fieristico milanese a promuovere e talora offrire concretamente cibo, oltre che a far riflettere sul tema di questa esposizione universale (Nutrire il pianeta, Energia per la vita); nonché le iniziative che la stessa città di Milano presenta in alcuni dei suoi angoli più suggestivi proponendo legami espliciti tra cibo e arte: come ad esempio Arts and Foods, la singolare esposizione curata da Celant alla Triennale.
Dall’altro è come se molte città italiane - un tempo signorie, ducati o luoghi cardine dello stato pontificio - in un sussulto di orgoglio avessero fatto a gara nel proporre i particolari sapori delle loro cucine culturali, in una trasposizione metaforica dell’arte come insostituibile alimento della mente: vero e proprio oggetto transizionale nel senso che Winnicott attribuì ai più evoluti prodotti culturali.
Ne offro qualche piccolo assaggio.
DA CIMABUE A MORANDI - FELSINA PITTRICE.
Sgarbi ha seguito un criterio molto personale nell’allestire la mostra bolognese, della quale polemicamente sono state criticate, ancor prima che si aprisse, la mancanza di basi scientifiche, nonché una sorta d’improvvisazione. E invero il criterio che la informa sembra essere quello delle “associazioni libere”: lungo il cui flusso, denso e ininterrotto, si alternano opere più celebri con altre più umili e meno conosciute. Il fine è quello di dare spazio alle voci dei meno noti e di sottrarre, all’opposto, a una negligente dimenticanza capolavori storici; ma anche quello più ampio di ricostruire in tal modo l’identità artistica di un territorio.
Selezionare e giustapporre le opere prescindendo dai contenitori che fanno parte della tradizionale strumentazione filologica favorisce nel fruitore, insieme a una maggior flessibilità percettiva, la disposizione a leggere in filigrana, nella vasta produzione che si dispiega ai suoi occhi, l’evolversi dell’operare artistico di una popolazione: sia nel produrre in proprio, sia nell’accogliere artisti esterni a lei congeniali. Da Cimabue a Morandi per l’appunto.
Così, nello scorrere delle immagini, viene a poco a poco a prender forma l’icona di Felsina pittrice che, secondo quanto Longhi aveva sostenuto fin dagli anni Trenta, e dopo di lui Arcangeli, è «icastica», talora «sulfurea» o «dolente»; e che nell’incontro con gli «stranieri» (Cimabue, Niccolò dell’Arca e Raffaello) passa dal gotico al classicismo, mantenendo tuttavia, nei suoi riguardi, un’oscillazione costante tra l’adesione ammirata e la «risposta umorale». Ne è esempio la pittura di Amico Aspertini certo più affine a Dürer che a Raffaello (Matrimonio mistico di santa Caterina, 1540 c.).
Evitate in tal modo le secche del manierismo, si approda allo splendore secentesco dei Carracci e di Guido Reni, esponenti (soprattutto i primi) di un naturalismo che, pur radicato nel classicismo, conserva forti venature locali.
Così Arcangeli davanti al Ritorno dalla fuga in Egitto di Ludovico (1599-1600): «Le acque remote del Vangelo si son mutate in quelle della “bassa padana”, […] la leggenda sacra s’è tradotta in una vicenda popolare, emiliana, di “valle” o di fiume, d’acque basse e di tempo mutevole, d’un tono reso appena melodrammatico dall’arte».
Ancora tre secoli di fedeltà alla tradizione, e poi Felsina balza di nuovo in primo piano grazie allo stacco innovativo di Giorgio Morandi. Gli oggetti delle sue "nature morte" - suppellettili d’uso comune, per lo più contenitori d’alimenti - si trasformano impercettibilmente in oggetti-personaggi (still life?). Sono esplorati nelle loro forme, sfondi, posizioni reciproche, e resi con pennellate che, da nette e scandite, tendono via via a sgranarsi, fino a che forme, ombre e sfondi sfumano tra loro in una delicata intercambiabilità di pieni e di vuoti.
Una pennellata «sfaldata», la definì Brandi, espressiva di «un attacco dissolvente all’oggetto». Tappa cruciale nel corso di una meditazione durata un’intera vita, che l’artista, nel chiuso della sua stanza di via Fondazza, condusse sugli “oggetti”, sulle loro relazioni, sull’avvicendarsi delle loro presenze-assenze. Mantenendosi in equilibrio su un crinale sottile, sospeso tra rappresentazione e astrazione, tra rappresentazione di oggetti fisici e surreale rappresentazione di ritmi interiori.
Da Cimabue a Morandi. Felsina Pittrice
Bologna, Palazzo Fava, 14 febbraio – 30 agosto 2015
Catalogo: © 2015 Bononia University Press (a cura di V. Sgarbi)
BAROCCO A ROMA - LA MERAVIGLIA DELLE ARTI.
La mostra apre lo sguardo sul Seicento romano colto nel momento dell’affiorare di un nuovo linguaggio artistico, che per una serie complessa di motivi ebbe dalla Chiesa impulso e illuminato sostegno fino a irradiarsi da quel “centro” a tutta Europa e, grazie ai gesuiti, fino all’America centro-meridionale.
Già a partire dalla Controriforma cattolica (la risposta istituzionale alla dissidenza protestante) la Chiesa aveva assegnato all’arte il compito di propagandare le sue verità attraverso la formula del «movere, docere, delectare»; ammaestrare, cioè, movendo gli affetti e procurando diletto. Più tardi, con papa Urbano VIII Barberini, costringerà all’abiura l’eretico Galileo. Ma sarà proprio la messa in crisi della concezione geocentrica del cosmo a sostenere una delle spinte dinamiche del Barocco, volto a celebrare, tramite una sorta di compensazione, la centralità della chiesa romana e insieme della città “eterna”. Dal Sole astronomico al Sole terreno della Roma cristiana e barocca.
Con «l’immaginazione al potere» (Argan), Roma inondò il mondo di visioni insolite, affascinanti, bizzarre, intrise di contrasti: tra luce e ombra, tra morte e vita, tra ordine e caos. Visioni volte a catturare l’attenzione e a persuadere, ma espressive anche delle profonde inquietudini che turbavano l’uomo del nuovo secolo, una volta spezzatosi l’ideale rinascimentale di armonia e proporzione. Non a caso al nome di una perla di forma irregolare o di un sillogismo dalla struttura incongrua si fa risalire il termine “barocco”.
Qualche breve nota sulle opere in mostra: pitture, sculture, disegni, oggetti d’artigianato. La prima sala, dedicata agli inizi, è già da sè uno spettacolo: opere straordinarie di Rubens, Vouet, Poussin (allora presenti a Roma) si mescolano a quelle degli emiliani Carracci, Reni, Lanfranco, Domenichino, Guercino. E nella scultura, accanto a un giovanissimo Bernini, ancora collaboratore di bottega del padre Pietro, compare un altro bolognese, l’Algardi. E’ rilevante la presenza degli emiliani tra gli innovatori, proprio per quella loro capacità di tenere insieme classicismo e naturalismo.
Sono opere soprattutto di carattere sacro, tra le quali spicca per contrasto l’Atalanta e Ippomene di Reni (1615-1618 c.); un Reni che trae spunto dal mito per una rappresentazione di teatrale vitalità, assai lontana dal tono devoto e malinconico di tante sue creazioni. Proprio sull’immagine di questa giovane coppia, quasi danzante benché impegnata in una mortale competizione, gli interpreti si sono sbizzarriti ritrovandovi tematiche bibliche, alchemiche e persino freudiane: dalla ricerca dell’onniscienza e dell’eterna giovinezza, alla forza dirompente dell’eros, alla punizione divina per il suo potere dissacratorio.
Poi con l’avvento dei grandi architetti - Bernini, Borromini e Pietro da Cortona - giunge a maturazione quello stile che farà di Roma una città faro; come ben documentano gli organizzatori della mostra che dalle sale di palazzo Cipolla hanno esteso la fruizione ai principali complessi architettonici risalenti a quel secolo: dall’Oratorio dei Filippini, alla chiesa di S. Ivo alla Sapienza, al palazzo di Propaganda Fide con la Cappella dei Re Magi di Borromini e altro ancora. Scrigni preziosi, chiusi per lo più alla fruizione pubblica e che per l’occasione hanno ospitato concerti di musica barocca.
Sullo sfondo di un’atmosfera di invitante magnificenza così ben rievocata, viene facile dare spazio a una voce fuori dal coro, selezionando tra i disegni in mostra quelli di un Autore anonimo dal titolo Critica al progetto berniniano di Piazza San Pietro in forma umana (controprogetto) (1657-1659). Sono due schizzi che evidenziano una possibile pecca del progetto berniniano: lo spazio trapezoidale anteposto alla facciata della basilica e ai due emicicli del colonnato, che dà articolazione alla piazza, ma conferisce un che di costrittivo all’espressione di accoglienza che Bernini intendeva imprimerle. In alternativa l’anonimo disegnatore proponeva uno schema di colonnato direttamente connesso alla facciata della chiesa, a suo parere più consono alla visione simbolica di un abbraccio rivolto alla comunità dei fedeli. Come sembra suggerire pure la mimica facciale di un San Pietro non più contratto nella rigida postura delle braccia, ma rilassato e sorridente nell'atto di accogliere. Del “controprogetto”, che avrebbe forse comportato l’abbattimento di alcuni preesistenti edifici papali, non si tenne alcun conto.
Barocco a Roma. La meraviglia delle arti
Roma, Fondazione Roma Museo, Palazzo Cipolla, 1 aprile - 26 luglio 2015
Catalogo: © 2015 Skira (a cura di M.G. Bernardini e M. Bussagli)
ARTE LOMBARDA. DAI VISCONTI AGLI SFORZA - MILANO AL CENTRO DELL’EUROPA.
Infine, andando a ritroso, l’arte lombarda del Tre e Quattrocento, della quale già Longhi aveva rivendicato l’autonomia - rispetto soprattutto alla scuola toscana - identificandone nel rigore etico del fare e nell’ottimismo la cifra espressiva.
La mostra offre una corposa cornice storica entro cui inquadrare il patrimonio artistico dell’epoca, ponendo l’accento sul contributo che le singole committenze ebbero nel determinarne l’evoluzione. L’ostensione delle opere - pitture, affreschi, sculture e diversi esemplari delle arti minori (lontani antenati dei moderni oggetti di design) - procede quindi di pari passo con la narrazione delle vicende dei Visconti e degli Sforza: da Azzone a Ludovico il Moro. Viene così gradualmente a formarsi, sul piano immaginativo, una galleria di ritratti, per lo più di tiranni e condottieri.
Eppure gli oggetti esposti s’impongono talmente allo sguardo per via della loro bellezza da far arretrare sullo sfondo gli intrighi di corte e le feroci campagne di conquista di quei signori. Quasi stupisce che a tanto pragmatismo abbia fatto da contraltare lo svilupparsi di un gusto estetico di estrema raffinatezza, perseguito anche nella quotidianità privata. Apprendiamo, ad esempio, che Filippo Maria Visconti pretendeva dal fornaio di fiducia che ogni giorno inventasse “nuove forme” per i suoi panini e che, appassionato com’era per il gioco delle carte, lo aveva in qualche modo nobilitato investendo un patrimonio nel commissionare un semplice mazzo di carte: lo splendido, dorato mazzo di tarocchi uscito dalla bottega di Bonifacio Bembo.
Ma, come si sa, le vie della riparazione sono infinite; e sono molteplici pure le funzioni che l’oggetto d’arte ha per le varie parti in gioco (riparazione, sublimazione, esibizione di potere…); ne sapevano qualcosa le grandi famiglie di banchieri fiorentini, a loro volta così generose nel loro mecenatismo.
Di ben altra portata fu l’atteggiamento di apertura dei signori lombardi sia verso le corti europee più avanzate come la Francia, sia verso gli “stranieri locali”: da Giotto a Bramante a Leonardo. In ciò vincendo tenaci resistenze cittadine di tipo protezionistico, di cui ebbe a soffrire anche il tormentato cantiere del Duomo.
Qualche osservazione ancora su due opere che mi paiono caratterizzare l’arte lombarda delle origini: la Madonna con Bambino (1370-1380 c.) di Bonino da Campione e l’Uomo d’arme con barba ed elmo (1487-1488 c.) di Donato Bramante (Figg. 5-6).
La Milano dell’Expo 2015 presenta in questa sede espositiva una curiosa “maternità”. Una madre, con aria di giovinetta, compie un leggero ancheggiamento per meglio sostenere il figlioletto, al quale volge uno sguardo carico di tenerezza. Il piccolo, non più poppante e vestito di tutto punto, regge in mano una penna e un quadernetto e pare cercare l’approvazione materna per quanto sta disegnando o scrivendo. E’ còlto nell’attimo in cui sembra affacciarsi l’uso transizionale di un oggetto culturale, che si interpone tra lui e la madre: non certo a inficiare il rapporto, ma anzi a rinsaldarne il caldo contatto.
Dal bimbetto con penna e quaderno di Bonino all'uomo d'arme di Bramante. Il suo attempato guerriero faceva parte della decorazione del palazzo di un Visconti poeta e animatore di un cenacolo culturale. Collocato com’è su uno sfondo architettonico di concezione antica, disteso sulla parete a creare un effetto prospettico di straordinaria dilatazione dello spazio, punta a esaltare i valori di prestanza, audacia e impegno degli eroi dell’epoca. In parallelo, attraverso questi artifici rappresentativi, l’artista di Urbino introduceva nella pittura lombarda una profonda innovazione in chiave monumentale che avrà un seguito nell’apparato decorativo di Santa Maria delle Grazie e della Certosa di Pavia.
Giova qui ricordare che, quasi contemporaneamente, Leonardo, in fuga dalla competitività dell’ambiente fiorentino, offriva i suoi servigi a Ludovico il Moro presentandosi non tanto come pittore ma come ingegnere e architetto: disposto a progettare macchine da guerra, opere di bonifica e irrigazione, nonché un monumento in onore di Francesco Sforza.
Di fatto l’ambiente culturale lombardo gli permise di mettere a frutto una già viva attitudine alla sperimentazione, portandolo a elaborare idee e invenzioni straordinarie; il che non gli impedì, nei quasi vent’anni del suo soggiorno milanese (1482-1499), di produrre capolavori pittorici come la Vergine delle Rocce, la Dama con l'ermellino e l’Ultima Cena. Sempre intento a mantenere aperto un canale di comunicazione tra arte e scienza e a scrutare i nessi che legano tentazioni distruttive e disposizioni protettive verso la vita, la bellezza e la convivialità.
Bene si integrano con questa collettiva le mostre personali dedicate a Giotto, Bramante e Leonardo, a sottolineare - al di là delle caratterizzazioni regionali di un’Italia ancora divisa - l’immediatezza e la trasversalità unificante del linguaggio visivo, specie se affidato all’estro di artisti-viaggiatori già a loro modo “internazionali”.
Arte lombarda. Dai Visconti agli Sforza. Milano al centro dell’Europa
Milano, Palazzo Reale, 12 marzo – 28 giugno 2015
Catalogo: © 2015 Skira (a cura di M. Natale e S. Romano)