Bologna, Centro storico e MAST, 3 ottobre -1 novembre 2015 (MAST fino al 10 gennaio 2016)
Catalogo: © Electa (a cura di F. Hébel, U. Stahel et al.)

Questa seconda edizione della biennale di fotografia industriale propone le immagini di illustri maestri della fotografia d’arte che nel corso della loro attività hanno mantenuto un fertile dialogo col mondo del lavoro, nonché quelle di giovani autori da poco affacciatisi alla ribalta internazionale. Tra gli altri: Basilico, Berengo Gardin, Burtynsky, Campigotto, Cartier-Bresson, Fontana, Gorny, LaChapelle, Link, Monzón, Mulas, Slavin. Le quattordici mostre, allestite in luoghi diversi della città (palazzi storici, chiese, musei, gallerie, banche, ville), rendono omaggio a “prodotti” dell’ingegno destinati a loro volta a “produrre” oggetti industriali. Di qui il forte risalto dato ai processi di automazione che nel corso dei decenni hanno contribuito a trasformare radicalmente la scena del lavoro e non solo.

W.Link, La locomotiva hot shot in direzione est, 1956

Le foto - in bianco/nero e a colori - sono documento storico e insieme rappresentazione artistica di questa realtà. Lo scatto talvolta è cercato e “trovato” in natura, come nelle splendide immagini di Winston Link, volte a celebrare arcaiche locomotive a vapore ancora attive negli anni Cinquanta sulle strade ferrate della Virginia: sorta di giganti onirici che irrompono in paesaggi immacolati o si affiancano a moderni “drive in” (La locomotiva hot shot in direzione est, 1956). Altre volte, invece, la scena è intenzionalmente preordinata, come nei provocatòri paesaggi industriali di David LaChapelle: “veri” solo in apparenza, di fatto ricostruiti in studio assemblando sottoprodotti riciclati della lavorazione del petrolio (Land Scape, Green Fields, 2013).

D.LaChapelle, Land Scape, Green Fields, 2013
D.LaChapelle, Land Scape, Green Fields, 2013

Lo spettacolo che si offre al visitatore è vario. Da un lato vengono esaltati i frutti della progettazione ingegneristica: apparati sempre più sofisticati che nelle loro strutture meccaniche e nella dinamica sembrano competere con i meccanismi del corpo umano; complessi organismi essi stessi, a integrazione protesica del primo.
Poi è il turno degli oggetti prodotti industrialmente da quelle macchine: a volte sorprendenti nella loro fragile levità, in forte contrasto con la pesantezza e apparente rozzezza delle matrici. Esempi comunque di straordinario connubio tra funzionalità d’uso ed esteticità della struttura.

E, ancora, colpiscono gli uomini e le donne avvolti nei ruvidi indumenti da lavoro: ora segnati pesantemente dalla fatica; ora intenti a svolgere con mani robuste operazioni di singolare delicatezza; ora in posa davanti alla “loro” macchina, orgogliosi di uno strumento che coopera, nella sua automazione, con le loro abilità cognitivo-motorie, fino a farli sentire co-autori di grandi imprese.

E. Burtynsky, Residui di nichel, Ontario, 1996
E. Burtynsky, Residui di nichel, Ontario, 1996

Infine, il rovescio della medaglia. Accanto a tanta esaltazione del lavoro e della quota d’innovazione e sviluppo che vi è connessa, ecco le foto farsi strumento di denuncia degli effetti ambivalenti della cultura industriale. Dallo snaturamento del “volto” della terra agli inquietanti luccichii metallici delle carrozzerie d’auto; le quali, assiepate a riempire strade metropolitane, fanno da sfondo ai ritratti di donne e uomini in totale isolamento pur in mezzo alla folla. Talora persi nella frenetica consultazione delle loro protesi elettroniche, a cercare altrove abbozzi di relazioni.

 

Ne offrono esempi espressivamente potenti Edward Burtynsky (Residui di nichel, Ontario, 1996) e Óscar Monzón (Maya 002 e 004, 2014; da una serie di “fotografie di strada” il cui titolo rimanda al sanscrito "māyā", nel duplice significato di "creazione” e "illusione").

Ó. Monzón, Maya 002 e 004, 2014
Ó. Monzón, Maya 002 e 004, 2014"

Il girovagare leggero per sedi espositive che sanno di antico e moderno, di sacro e profano, lascia al visitatore l’impressione globale di una sinfonia visiva le cui variazioni toccano via via tutto quanto è corollario della motivazione umana a inventare e creare: il processo e gli agenti del produrre, gli oggetti concretamente prodotti, fino alle scorie del processo produttivo e al loro riciclo.
Sul filo di queste suggestioni è facile riandare alle alterne vicende di Prometeo, il semidio caro agli dei che donò furtivamente all’uomo il fuoco sacro, e con esso le facoltà del pensare e ricordare. Salvo doversi poi confrontare con quanto gliene derivò: dall’invidia vendicativa degli stessi dei, alle applicazioni nefaste dei suoi doni da parte degli uomini, fino a una provvidenziale, per quanto tardiva, liberazione dai ceppi della colpa.
Da vedere, per la curiosa consonanza tematica, una mostra da poco inaugurata a Roma: Russia on the road. 1920-1990 (Palazzo delle Esposizioni, 15 ottobre - 15 dicembre 2015). Raccolta felice di pitture che coglie il momento in cui le macchine divennero protagoniste non solo nella vita quotidiana dei russi, ma anche nello spazio del loro immaginario artistico; quando auto, metropolitane, treni, aerei, dirigibili e sputnik - agli occhi dei più vivaci artisti postrivoluzionari - si fecero metafora di trasformativi viaggi di conquista.

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