In questa opera prima presentata al Festival di Berlino del 2011, il regista argentino Taretto mette in scena una commedia al tempo stesso lieve e profonda, regalandoci uno sguardo da ‘urbanista antropologo’ (Mereghetti, Corriere della sera, 30.09.2014) sulla convulsa realtà di Buenos Aires, una città in piena espansione urbanistica.

Egli illustra le esistenze di due giovani single, Mariana e Martin. Mariana è un architetto sottoccupato che si guadagna da vivere allestendo vetrine ed è immersa nelle sue passioni architettoniche, mentre Martin, un programmatore di siti web, è alle prese con le proprie fobie ed ossessioni abitative. Tra i numerosi spunti offerti da questo film, mi soffermo su di una frase pronunciata da Mariana in una delle scene iniziali:

“Come si fa ad incontrare qualcuno che non si sa neanche chi è?”. Mi sembra che questa frase possa essere rivolta sia all’altro da noi che a noi stessi e che in questo senso il film rappresenti una metafora riuscita del processo di “soggettivazione”, termine col quale noi psicoanalisti indichiamo lo sviluppo identitario.

La costruzione dell’ identità si dipana infatti lungo un cammino faticoso, costituito da tappe che punteggiano i vari momenti della nostra esistenza. All’alba della nostra vita, impariamo a conoscere noi stessi attraverso le cure dell’altro, della mamma o di chi ne fa le veci e più tardi scopriamo l’altro partendo da noi stessi.

Tuttavia i due protagonisti sembrano indugiare in aree infantili; lui si perde nella sua realtà virtuale che rinvia in qualche modo ad un mondo fatato mentre lei gioca con manichini/bambole e coi vestiti all’interno delle sue vetrine. Qualche anno addietro Martin è stato lasciato da una fidanzata in partenza per un altro paese, la quale gli ha affidato in eredità il suo cagnolino. Questo cagnolino, definito dal ragazzo come “un giusto compromesso tra un peluche e un cane vero”, sembra assumere del resto la consistenza di un oggetto transizionale.

Sul piano della realtà geografica i due protagonisti del film di Medianeras sono vicini di casa e si incontrano casualmente a più riprese; tuttavia rimangono distanti l’uno dall’altra, ciascuno intrappolato nel proprio mondo: lui vive in simbiosi col computer, mentre lei è impegnata a riparare i cocci del suo cuore infranto dopo ogni delusione d’amore. La loro sofferta interiorità appare essere sia un rifugio che una prigione. Ed allora come uscirne?

L’architettura dell’amore implica sforzi ed impone trasgressioni: bisogna aprire delle finestre abusive nella medianeras (da cui il titolo del film dove la medianeras rappresenta il lato nascosto dei palazzi di Buenos Aires).

La medianeras è un’area cieca e negletta destinata ad ospitare le scritte pubblicitarie e qualche sparuta pianta rampicante. Solo forando il lato oscuro delle medianeras dunque, si potrà illuminare il sé nascosto dei protagonisti e metterlo in contatto con il mondo esterno. Sembra allora necessario fare prima luce in sé stessi per conquistare la disposizione a vedere l’altro così com’è, con le sue qualità e non solo come proiezione dei nostri desideri. Il percorso amoroso della ragazza va dall’oggetto inanimato, un manichino che lei tiene nel suo appartamento come mero supporto delle sue fantasie erotiche, verso una progressiva umanizzazione. Un esempio di questo cammino è rappresentato da una scena del film in cui lei si dispone, come corpo vivo, al centro di una coreografia di oggetti inanimati, all’interno della sua vetrina.

Il film è la storia dell’ assemblaggio dei frammenti di un puzzle, uno dei quali contiene già la risposta al nostro quesito iniziale e cioè, come accennavo prima, dovremmo conoscere noi stessi per scoprire /riscoprire l’altro. E forse l’oggetto d’amore è già dentro di noi, è nelle figure del libro d’infanzia ripreso in mano dalla ragazza ormai grande e sfogliato in solitudine. E se, per avere una buona foto, come sottolinea il fotografo francese Henri Cartier Bresson, bisogna allineare lo sguardo con la mente e il cuore, analogamente in questo film, il sospirato incontro dei due protagonisti avviene al culmine di una riuscita sincronizzazione tra mondo interno e mondo esterno. Possiamo coglierne un esempio significativo, quando, alla fine del film la ragazza associa all’improvviso l’immagine di un personaggio ricorrente del suo libro, di nome Wally , con il ragazzo in carne ed ossa che lei scorge nella via, guardando in basso dalla finestra del suo palazzo. Ella potrà dunque, finalmente, distinguere/riconoscere Martin dall’anonima moltitudine che affolla il marciapiede.

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