La memoria è lo scriba dell'anima (Aristotele)
Sono stati il titolo e la presenza di una ragazzina come protagonista a spingermi verso la “Storia di una ladra di libri” del regista britannico Brian Percival. Il film è la trasposizione cinematografica di un romanzo per ragazzi che ha avuto un discreto successo negli scorsi anni. L’opera letteraria, di uno scrittore australiano -Markus Zusak- nato da genitori tedeschi emigrati negli anni 50, è ambientata nella Germania nazista. Il titolo originale del romanzo, che mi pare più significativo, è “La Ragazza che salvava i libri” e rimanda alla necessità di salvare la cultura dallo sterminio.
La storia tratta della passione della ragazzina Liesel per i libri. L’audacia della bambina, che si esprime nel suo bisogno di conoscenza, vive nonostante l’obbligo nazista a bruciare tutte le opere letterarie fuorvianti per il timore che la parola scritta possa allontanare la popolazione dall’obbedienza a un’unica “parola gridata”. L’intera narrazione del film si sviluppa attorno all’energica potenza delle parole, tema che non può non attrarre.
La memoria della seconda guerra mondiale qui viene presentata in modo non feroce e straziante ma al contrario con delicatezza e armonia seppur il regista sia in grado di lasciare intendere tutto il dramma di chi alla guerra è sopravvissuto. E’ il punto di vista di chi rimane. La protagonista terrà viva la memoria degli eventi accaduti trasformandoli in racconti.
Liesel, resa orfana di fratelli e di genitori dalla selezione razziale portata avanti dal nazismo, trova nuovi genitori adottivi e vive la sua crescita protetta da una famiglia che si è adeguata al nazismo.
Il loro è un adeguamento poco convinto, che lascia spazio all’opposizione silenziosa al regime fino ad arrivare a nascondere in casa loro un ragazzo ebreo di nome Max.
Al centro della narrazione troviamo la rappresentazione della funzione paterna nei suoi aspetti più protettivi. Il padre adottivo, Hans, è una figura positiva, antinarcisistica, senza necessità di ostentare aspetti di Sè. La sua grandezza sta proprio nell’arte dell’essere dimesso pur irradiando una forte presenza. Molte sono le scene nelle quali con grazia aiuta la bambina ad adattarsi alla nuova vita. Aiuta Liesel a imparare a leggere senza mai porsi come il padre che ha e cede conoscenza lasciandole l’accesso ad aree da scoprire. E’ un padre musicista, che suona la fisarmonica, ricordo dell’amico ebreo morto per salvarlo durante la prima guerra mondiale. Un padre che aiuta la bambina ad avvicinarsi alla nuova madre, che è una figura ruvida e scontrosa ma in fondo capace di contatto emotivo.
Liesel definirà i nuovi genitori: “un padre con il cuore a fisarmonica e una madre vestita di tuoni”.
Le qualità del padre adottivo attirano lo spettatore e forse ci fanno riflettere su quali possano essere le qualità di chi si appresta a condurre una cura dell’anima, definizione che più di un secolo fa Freud dava alla psicoanalisi.
La coppia di genitori adottivi è solida, e tale solidità è data dalla tolleranza reciproca, rara qualità delle relazioni umane. A volte si ha la sensazione che nella produzione cinematografica più recente, anche non commerciale, vi sia una tendenza, forse un po’ eccessiva, a sottolineare la mancanza di qualità nei rapporti umani. Questo lungometraggio rappresenta tali qualità senza idealizzarle.
In questa famiglia si trova lo spazio per salvare delle vite ma più per l’umanità dei protagonisti che non per un’attiva opposizione al Nazismo.
Sulla “forza della parola scambiata” sembra puntare l’attenzione il regista che ne fa l’asse portante della trama. Il ragazzo ebreo chiuso nel suo nascondiglio, che viene da Liesel paragonato a un gufo senza ali, sopravvive due anni grazie all’affetto della ragazzina, veicolato dalle parole scambiate per raccontargli la realtà esterna a lui preclusa. Anche in questo scambio vi è una reciprocità.
Max infatti svilupperà a sua volta la creatività narrativa della ragazzina invitandola a scrivere e regalandole un diario. Singolare è la natura di questo diario che viene ricavato da un libro su Hitler. Ad ogni pagina di questo libro, che conserva copertina e titolo, Max sovrappone un nuovo foglio bianco per poi offrirlo a Liesel.
Mi pare una riuscita metafora del lavoro psichico necessario per elaborare le esperienze: cioè quello di un nuovo spazio per riscrivere un racconto proprio grazie alla storia precedente e traumatica. Il trauma deve poter stare dentro una relazione e deve poter essere rinarrato.
Tra Max e Liesel nasce una vera relazione perché Max, invece di scrivere la sua esperienza per elaborarla e forse anche per sopravvivere ad essa, desidera che sia Liesel a farlo e quindi avvia in lei una crescita psicologica.
Perché nel film Liesel diventa ladra di libri? Anche in questo caso sembra che il regista insista sull’importanza della memoria e della scrittura. La ragazzina, recandosi per delle commissioni a casa del capomastro del paese, viene attratta dalla moglie di questi che ha perso in guerra l’unico figlio. La donna le permette di accedere alla biblioteca personale del figlio scomparso perché rivede nella curiosità e nell’audacia di Liesel aspetti di ciò che ha perduto. Nella vita della coppia madre orfana-Liesel vi è una possibilità nuova di re-sperimentare il ricordo delle perdite di entrambe. Lasciata aperta una finestra della biblioteca proibita Liesel decide di introdursi per rubare dei volumi da poter leggere all’amico Max, ma in fondo i libri sono “salvati” più che rubati perché letti, scambiati e condotti fuori dal luogo immobile della biblioteca.
In questo film mi pare si condensino elementi dell’esperienza psicoanalitica che vanno dall’importanza della parola scambiata, al bisogno di riavviare una memoria che passi attraverso gli eventi dolorosi e traumatici della vita, alla necessità che la cura si realizzi grazie a un racconto costruito con un’altra persona e non per un'altra persona.