Il Biografilm Festival ha dedicato quest’anno un’intera sezione al ricordo di Gianni Celati, definito Poeta del Documentario, scomparso all’inizio del 2022.
Lo ha fatto proiettando diversi suoi documentari, di cui è stato sia protagonista che regista, all’interno del suggestivo chiostro di Santa Cristina della Fondazza, alla presenza di molti dei suoi collaboratori di un tempo.
Il suo primo film da regista ha il curioso nome di “Strada provinciale delle anime”, che sembra già contenere in sè parte della poetica dell’Autore. Spiega infatti Celati, voce fuori campo all’inizio del film, che quella strada esiste davvero e la sua scoperta lo colpì fin dai sopralluoghi effettuati alcuni mesi prima di girare.
“Perchè proprio quella strada? Forse soltanto per il suo nome o perché, attualmente, non porta da nessuna parte”. Come la vita, viene detto nel documentario.
E proprio questo racconta il film: un viaggio senza una meta apparente, seguendo le strade della Bassa ferrarese che vanno verso il Delta del Po, ispirato da uno dei libri del Celati scrittore, “Verso la foce”, pubblicato nel 1988, pochi anni prima della realizzazione del film nel 1991, commissionatogli dallo storico Direttore di Rai 3 Angelo Guglielmi.
All’inizio dell’estate di quell’anno, insieme al grande fotografo e amico Luigi Ghirri, raduna un po’ di parenti, amici e conoscenti, una trentina di persone, e li carica su una corriera azzurra, ripercorrendo con loro i luoghi attraversati durante i sopralluoghi dell’inverno precedente perché, dice, “volevamo vederli in un altro modo, cioè insieme ad altre persone”.
Notazione straordinaria nella sua apparente semplicità, che parla della sua intima convinzione che la conoscenza, il modo di guardare il mondo, non sia mai un viaggio solitario ma che ha sempre origine all’interno di una relazione, meglio di un gruppo.
Una convinzione che avvicina la sua poetica a molta psicoanalisi moderna, in particolare al pensiero di Wilfred Bion.
E c’è molta sintonia con Bion anche in un altro breve ma straordinario commento, affidato alla voce di uno dei partecipanti al gruppo girovagante:
“Allora, c’è uno che mi ha chiesto: Cosa siamo venuti a vedere qui? Perché certuni, in viaggio, guardano solo quello che gli hanno detto di guardare e se non gli hanno detto cosa guardare si sentono persi. Ma io mi chiedo: è meglio sentirsi persi o guardare solo quello che ti hanno detto di guardare?”
Al centro del film il paesaggio, colto in mille forme diverse, a volte stridentemente diverse: il bellissimo paesaggio delle valli di Comacchio e della foce del grande fiume, delle case scrostate, spesso abbandonate e quello delle strade trafficate, degli argini e dei bar di provincia, degli svincoli stradali, delle discariche a cielo aperto.
Un paesaggio che non è mai “luogo comune”, sempre inafferrabile perché, come scriveva Andrea Zanzotto, “non si stanca mai di lasciarsi definire ma è in fuga da ogni possibile definizione perché in sè le racchiude tutte”.
Il paesaggio, dice Vittorio Lingiardi, nella sua duplice posizione di psicoanalista e poeta, è insieme luogo fisico e mentale e per indicarlo crea un neologismo: Mindscapes, fondendo mind e landscapes. Nel suo libro omonimo Lingiardi ama citare un analista francese, Pontalis, che a proposito del paesaggio scriveva:
“Ci vogliono parecchi luoghi dentro di sé per avere qualche speranza di essere se stessi”.
Forse questo film di Celati è anche questo, una straordinaria metafora della vita:
un girovagare alla ricerca di luoghi e paesaggi solo in parte familiari ma spesso inediti e sorprendenti per gli stessi viaggiatori, che con il loro viaggiare “costruiscono” il paesaggio stesso e con esso se stessi, in un movimento che si apre procedendo verso la foce e il mare.