È ancora possibile, oggi, avere un rapporto con le immagini del presente e del passato? E quale?
Con questo interrogativo posto da Marco Antonio Bazzocchi, critico letterario ed Ordinario di Letteratura Italiana Contemporanea all'Università di Bologna, si è aperto sabato 30 gennaio 2016 il primo incontro de “Il lettino e la piazza”, il ciclo di conferenze nate per il terzo anno consecutivo dal lavoro comune del Centro Psicoanalitico di Bologna e della Biblioteca Comunale Sala Borsa che, come recita la locandina, mette psicoanalisti ed intellettuali a confronto con le istanze più urgenti del presente.
“Queste conferenze sembrano nascere quasi dal nulla” ha commentato Irene Ruggero, Presidente del Centro Psicoanalitico “ma sono il frutto di una intensa e laboriosa collaborazione”.
E davvero intensa lo è stata questa prima giornata che ha proposto, di fronte ad una platea attentissima, gli interventi di due psicoanalisti del Centro bolognese, Andrea Scardovi e Gino Zucchini, a confronto con il contributo del Professor Bazzocchi sul tema dell'Immagine, scelto come nodo centrale attorno al quale si articoleranno anche i prossimi due incontri in programma.
La riflessione sul potere evocativo delle immagini per interrogare e dare forma al nostro mondo interiore è il filo attorno al quale i tre relatori, presentati da Sabrina Mosca, anch'essa psicoanalista del Centro Bolognese e membro dell'attuale Esecutivo, si sono alternati tracciando un itinerario ricco di interconnessioni e risonanze, del quale coglierò alcune suggestioni, rinviando alla registrazione dell'intera conferenza visibile qui sul sito: I video di Sala Borsa 2016.
Proprio con la proiezione di immagini, il Professor Bazzocchi ha introdotto la relazione “Immagini in cui (non) ci riconosciamo” mostrando una tavola dell'Atlante Mnemosine di Aby Warburg, storico e critico dell'arte vissuto a cavallo tra '800 e '900. L'opera consiste in una raccolta di immagini antiche, rinascimentali e contemporanee all’epoca di Warburg, accostate in modo da rendere evidente la ricorrenza di alcune figure che lui chiamerà “formule del Pathos”, poiché in esse si incarnano passioni e sentimenti, che attraggono l'attenzione e vanno a costituire un patrimonio mnemonico di immagini a cui attingere, perché in esse tutti ci riconosciamo. Tra queste la figura della ninfa, essere misterioso, sfuggente, al confine tra umano e divino, che abita luoghi naturali; in essa Warburg colse la compresenza di due principi opposti: pur contenendo in sé elementi di bellezza vitale (come la ninfa raffigurata nel dipinto del Parto di S. Anna del Ghirlandaio), poteva albergare anche aspetti mortuari o distruttivi, come quelli caratterizzanti le antiche menadi, figure mitologiche femminili che in stato di possessione dionisiaca uccidevano gli uomini.
Ma come si esprime questa potenzialità delle immagini? Il Prof. Bazzocchi ne ha messo a fuoco alcune caratteristiche, per prima quella componente che chiama “lontananza”, presente nelle immagini dell'epoca che ci precede, in grado di caricarle del valore di qualcosa di lontano ed imprendibile, come la ninfa appunto. È ciò che si cela nel “volto” (etimologicamente ciò che si volge) che guardiamo con interesse e che invece manca nella “faccia”, termine che invece riguarda l'aspetto, l'apparenza. Il mezzo digitale non consente la lontananza, ad esempio FaceBook è una raccolta di facce per le quali vige piuttosto il criterio della “presenza”. Talmente presenti che si possono toccare, come ci spinge a fare il touch screen.
Ma essere in rapporto con l'altro implica invece coglierne quel mistero di lontananza proposto e potenziato nella cultura del romanticismo, quando i pittori e i poeti ponevano sempre il soggetto in rapporto con l'orizzonte lontano, con l'infinito (Leopardi), e l'amore, anche quello carnale, contiene questo senso di sfuggente lontananza.
Un altro elemento sul quale il Prof. Bazzocchi si è soffermato è lo sguardo. Sartre insegnava che è attraverso lo sguardo che l'altro si mette in rapporto con noi. Quella reciprocità dello sguardo che si perde nella videochiamata con Skype (poiché il nostro sguardo non è rivolto verso la videocamera che ci ritrae), facendo perdere al nostro corpo il valore del significato del nostro volto.
Infine il rapporto tra luce ed ombra costituisce un'altra componente sulla quale il relatore ha richiamato l'attenzione, poiché esso è profondamente cambiato nella società attuale dove siamo abituati ad immagini straordinariamente illuminate e retroilluminate che ci provengono dagli schermi di computer e cellulari, al contrario di quanto avveniva nelle prime fotografie e produzioni cinematografiche dove era presente con la luce anche molta ombra. La diffusione della luce elettrica da un secolo a questa parte ha cambiato la percezione della realtà ed i contatti umani, ed anche le opere d'arte, per secoli illuminate da luce naturale o da candele, si possono oggi guardare attraversate da potenti fasci di luce.
Ma non si può percepire il rapporto con l'altro senza ombra, così come non c'è desiderio senza paura della perdita, o vita senza morte. Solo se il bagliore e l'ombra coesistono nella stessa immagine, il bagliore ne può emergere come un punctum, secondo Roland Barthes, cioè una trafittura che evoca la lontananza e consente l'elaborazione del lutto della perdita di quell'istante, poiché la fotografia ritrae un momento che è già passato.
A conclusione della relazione il Prof. Bazzocchi ha citato il romanzo “La lucina” di Antonio Moresco, che contiene in sé molti degli elementi sui quali si è soffermato. Racconta di un uomo che si è ritirato in un luogo in mezzo alla natura ed isolato dagli altri suoi simili per cercare un nuovo rapporto con ogni elemento che lo circonda, alberi, piante, animali, ed entra in contatto, attraverso una lucina dall'altra parte della vallata (ancora la lontananza) con un bambino che come lui vive solo. Questo bambino gli insegnerà molte cose che hanno a che fare con la distanza e con la morte, avendo in sé molta ombra e un piccolo bagliore.
Dalla descrizione di una scena con ombra e qualche bagliore ha preso avvio la seconda relazione, dal titolo “Piacersi. La cura al tempo dell'immagine”, tenuta da Andrea Scardovi, psichiatra e psicoanalista del Centro Bolognese, che è tra i promotori di questa rassegna.
Scardovi ha introdotto il suo intervento con l'immagine delle riunioni serali intorno al fuoco delle tribù primitive descritte nei primi del '900 dall'etnografo Malinowski nelle isole Trobriand in Nuova Guinea, nelle quali si realizzava fra i diversi membri del villaggio una comunicazione preziosa, che Malinowski definiva “fàtica”, cioè basata non tanto sulla trasmissione di informazioni, ma su racconti e discorsi che permettono di costruire e mantenere una comunità. Una comunicazione che richiama il contatto che si stabilisce tra l'uomo e il bambino del racconto sulla “lucina” citato dal Prof. Bazzocchi, e può rimandare anche al dialogo fra le diverse discipline che vengono messe a confronto in questi incontri di Sala Borsa.
Questo tipo di comunicazione è quella che è in gioco nelle nostre pratiche di cura. Ma in molte teorie della cura la comunicazione è stata intesa come una trasmissione di informazioni e in quest’ottica il corpo e le emozioni, e in particolare quelle del curante, sono state ritenute per molto tempo un fattore di disturbo da eliminare per salvaguardare una vagheggiata neutralità della cura.
Il corpo, il sentire e in particolare il piacere, hanno cominciato a trovare posto nelle teorie relative alle pratiche di cura soltanto a partire dalla fine dell’800, quando con la nascita della psicoanalisi è divenuto possibile pensare l’importanza della sessualità per la realtà psichica, e il corpo ha cominciato così a trovare un ascolto e non solo una visione. Si tratta di un momento molto significativo per la storia del rapporto fra la cura e la conoscenza, in cui il pensiero psicoanalitico ha avviato una profonda trasformazione, culturalmente ancora in corso, del modo di intendere la neutralità del curante. In quello stesso periodo storico veniva rilevato un altro dato molto significativo per il rapporto fra conoscenza e cura. Alla fine dell’800 la mortalità dei bambini sotto ai due anni ospitati negli orfanotrofi degli Stati Uniti rasentava il 100%. La causa di questo fenomeno drammatico richiese molto tempo per essere riconosciuta, e alla fine fu individuata nel marasma, una specifica condizione clinica che si realizza in seguito alla mancanza di cure materne e di contatto fisico. Ma quali erano le ragioni per cui questi bambini ricoverati negli istituti non venivano toccati né presi in braccio? A quel tempo erano molto diffuse presso medici e genitori le teorie di L. Holt, un famoso professore di pediatria della Columbia University, che raccomandava di allevare i bambini limitando al massimo ogni contatto fisico. Occorse molto tempo perché la competenze scientifiche e istituzionali realizzassero che le cose erano molto diverse da ciò che asserivano queste teorie, così incredibilmente diffuse.
La parola marasma deriva dal greco “marasmos”: consunzione, che è il termine utilizzato da Ovidio per descrivere il deperimento di Narciso quando, dopo essersi innamorato della sua immagine rispecchiata nell'acqua, non avendo trovato l'agognata corrispondenza amorosa, si lascia morire consumandosi per diluizione (“amore liquitur”). Specularmente la ninfa Eco, corrispettivo acustico di Narciso, si solidifica in roccia. Una concretezza senza più alcuna liquidità quella di Eco; una liquidità privata di ogni consistenza corporea, quella di Narciso. Considerare questa “diluizione” di Narciso, che richiama il concetto di Bauman di ‘società liquida’, permette di scorgere nelle derive più edonistiche del nostro tempo, come sono ad esempio quelle legate al culto dell’immagine di sè, una paradossale difficoltà a vivere il corpo ed anche il piacere.
Scardovi ritiene questo un punto centrale: nella storia di Narciso e di Eco non c'è piacere, c'è piuttosto la tragedia della sua mancanza. E come si muore se il corpo non è nutrito, si muore anche, come Narciso e come Eco, se non è nutrita “quella straordinaria trascendenza naturale del corpo che chiamiamo mente”.
Un’altra figura mitica che ha molto a che fare con il problema dell’immagine è quella di Caino. Nelle versioni più divulgative della Bibbia troviamo scritto che Dio “non gradì i doni di Caino” e gradì invece i doni di Abele. Ma il testo sacro recita propriamente che Dio “riguardò i doni di Abele, non riguardò i doni di Caino”. Come a dire che sul grande FaceBook originario nessuno cliccò “I like” in risposta ai doni “postati” da Caino, che non ricevendo riscontro provò ansia, un'ansia che l’individuo originario non è attrezzato a poter pensare, e che può dunque essere soltanto agita, risolvendosi con l’azione violenta. L'assenza di risposta, la mancanza di un gradimento esplicito può diventare il sentire di essere indegni di sguardo, a conferma di quanto l’immagine abbia a che fare con la cura, e quanto sia importante tenere conto di questa vulnerabilità rispetto all’immagine per poterci prendere cura di noi. Lo stesso Dante, nel 33° canto del Paradiso, conclude il suo straordinario viaggio interiore ritrovando, al centro del cerchio di fiamme che rappresenta “l'Amor che muove il sole e le altre stelle”, la propria immagine: “Dentro da sé del suo colore stesso mi parve tinta della nostra effige, perchè il mio viso in lei tutto era messo”. Riflesso nello sguardo ritrovato di un oggetto di cui ha sperimentato la perdita Dante ritrova, dopo un lungo e sofferto itinerario, il proprio volto.
Ma l'immagine è una imitazione (da imago, imito) e quindi non è la realtà, ma una sua rappresentazione, ci ha ricordato Gino Zucchini, psichiatra e psicoanalista AFT, uno dei fondatori del Centro Psicoanalitico di Bologna di cui è anche stato Presidente. Nella sua relazione che ha titolo: “Da Galileo a Freud il paradigma della scienza umana: messeri mettete l'occhio” ha sottolineato come la verità sia la realtà vestita delle parole giuste, così come la scultura ha la realtà del blocco di marmo ma rappresenta una verità altrimenti destinata a rimanere muta, senza forma, senza immagine.
Si può definire efficacemente la psicopatologia più grave come il confondere la presentazione della realtà con la sua rappresentazione, ovvero l'attore Gassman con l'Amleto che sta interpretando. L'immagine è un luogo di teatro e la cornice del palcoscenico ci permette di partecipare alla scena rappresentata cogliendone qualche coloritura della storia reale, con emozioni imparentate a quelle che ci susciterebbe se fosse realtà (res extensa).
Il messaggio che ci pone Freud nel suo saggio “Ricordare ripetere rielaborare” è che i popoli che dimenticano la loro storia sono obbligati a ripeterne gli errori, anche nel senso che ciò che accadde “là e allora” viene percepito come stesse accadendo “qui ed ora”. È l'interpretazione di transfert lo strumento che permette all'analista, posto saggiamente alle spalle del paziente, di richiamare il passato nel presente, con prodigiosa transubstanziazione. L'analista è così Gassman che interpreta l'Amleto. Freud ha intuito l'inconscio come strumento per indagare nel mondo interno ciò che sfugge alla coscienza. Per cogliere ad esempio che ciò che sta soffrendo in una persona con un attacco di panico non è il muscolo cardiaco, ma il cuore inteso come luogo simbolico degli affetti, immagine appunto. La cura psicoanalitica pertanto si muove dal muscolo cardiaco, che è sano, al cuore, all'inconscio.
Ma cos'è l'inconscio? Zucchini ha raccontato che nel foro di Atene diabolos era il testimone menzognero che ostacolava la valutazione del giudice, mentre symbolos era il testimone onesto che aiutava ad arrivare alla verità. L'inconscio, dice Zucchini, è quindi il luogo della mente dove i diaboli prevalgono sui simboli, in attesa di diventare anch'essi simboli, attraverso il prodigio della parola interpretante, che dà, crea un senso. Poichè la parola ha un che di prodigioso, di divino: “In principium erat verbum, et verbum erat apud Deo, et Deus erat verbum”.
La psicoanalisi lavora per passare, per quanto umanamente possibile, dai diaboli ai simboli, seduta dopo seduta. Come la scaletta attraverso la quale gli attori dei “Sei personaggi in cerca d'autore” di Pirandello, dopo aver iniziato a recitare in platea, salgono poi dalla platea al palcoscenico chiarendo che sono personaggi e non persone reali: così la psicoanalisi consente di passare dalla realtà persecutoria ad una verità anche molto dolorosa ma che consente di vivere, ed arrivare in tal modo ad ospitare un dolore sano, al posto dell'angoscia contenuta nel delirio.
In fondo Freud ha seguito la strada tracciata da Galileo, che con il suo invito: “Messeri mettete l'occhio” al cannocchiale per guardare lo spazio stellare, ha portato la democrazia nella scienza. Analogamente Freud ha proposto di “mettere l'orecchio” agli eterni inascoltati, poiché la psicopatologia nasce quando non si è ricevuto sufficiente ascolto e consolazione dell'essere nati (“nasce l'uomo a fatica”, scriveva Leopardi), né sufficiente perdono. La parola ci permette di trovare le immagini che ci aiutano a rappresentare e quindi a pensare, perché, sostiene Zucchini in accordo con gli altri due relatori, ci mettono in relazione con l'assenza, anche se proprio per questo le immagini sono fragili, rispetto all'impatto delle tecnologie contemporanee.
La singolare consonanza delle tre relazioni si è espressa ancora più profondamente in un successivo giro di interventi stimolati dall'osservazione di Sabrina Mosca circa la difficoltà con cui le immagini visive contemporanee, alle quali siamo sovraesposti così prepotentemente a livello sensoriale, possano essere utili per dare forma ad aspetti del nostro mondo interno, se non in termini stereotipati o impoveriti, come scambiarsi auguri attraverso immagini preformate. Zucchini, citando le osservazioni di Simona Argentieri sul rischio di subire “l'iperpresente”, si è chiesto quale sia il tasso di realtà concreta nel dispositivo digitale che stiamo usando, e quanta assenza di realtà può invece lasciare spazio alla rappresentazione, all'immagine, alla creatività. Non è possibile al momento prevedere quali saranno gli sviluppi, ha sottolineato il Prof.Bazzocchi, è possibile che quella che ora appare come una sottocultura acquisisca tra cento anni una stratificazione tale da essere cultura, ma al momento è necessario trovare una regola per non cadere in un inganno. D'altra parte, ci ha ricordato Scardovi citando il giornalista Paolo Rumiz, l'antico appartiene a tutti, mentre “il moderno” richiede un lavoro, per potersene riappropriare, a ciascuno di noi.
Chiara Ghetti