Il lettino e la piazza è una metafora piuttosto ardita introduce il Dottor Zucchini, perchè collega insieme il più piccolo ed intimo dei luoghi del nostro vivere con il mondo intero. Rispetto alla piazza come facciamo noi, figli di quel lettino, a non essere intimiditi? In verità, la realtà del mondo ad occhi aperti e la realtà del mondo ad occhi chiusi, sono in una relazione che è nel mestiere degli psicoanalisti dagli inizi della psicoanalisi.

Perchè il titolo di oggi, giustizia e relazione? La giustizia è propriamente relazione, da che i padri costituenti hanno cancellato dalla legge l’orrore della pena di morte e della tortura, in cui veniva usata la vendetta come fosse giustizia. La vendetta aboliva ogni relazione, costituendo l’incontro tra un onnipotente Io dalla parte del potere e la vittima torturata, al fine di arrivare alla verità.

Da che è stata abolita la pena di morte, la giustizia ha acquisito una funzione riparativa, di qui la relazione. Che la giustizia si proponga di essere riparativa è un progetto che dobbiamo ben sapere essere bisognoso di decenni se non di secoli; siamo soltanto agli albori di esso.

Di questo argomento parleranno oggi due persone molto competenti e con molti titoli per farsi ascoltare. Padre Guido Bertagna è stato invitato qui oggi, per parlarci dell’esperienza assai audace e delicata da lui ideata, di far incontrare le vittime della violenza politica, con i responsabili di fatti di sangue molto gravi. Da un sacerdote forse ci attenderemmo di sentire usare la parola perdono in modo misericordioso; scopriremo invece dalle sue parole, non solo quanto severo, duro e doloroso possa essere il perdono, ma anche come esista la possibilità di vivere un dolore sano, molto importante da esplorare nell’animo sia dei feriti che dei feritori.

La Dott.ssa Luisa Masina, medico psichiatra, membro ordinario della società psicoanalitica italiana, ci aiuterà a comprendere come la psicoanalisi sopporti di essere metafora del progetto realizzato da Padre Bertagna, perchè in fondo la faccenda di violenza e vittime della violenza, è all’interno di ciascuno di noi. Quando questo dramma interno assume sostanza e forma consistenti, ha nome nevrosi, psicosi, caratterialità, tutti modi di una lotta interna nella quale la violenza interiore è più presente che non il sano dolore riparativo delle parti; per dolore sano intendiamo la comune condoglianza, certificato di valore dell’oggetto perduto.

Che cos’è la psicoanalisi? È un diavolo propiziato dalla competenza dello psicoanalista, tra l’inconscio che è in cerca di parole e la coscienza titolare della competenza al pensiero. Pensare, come suggerisce l’etimologia, viene da ponderare, soppesare, ed ha quindi a che fare con il sollevamento di un peso; il nostro operare psicoanalitico infatti è un’operazione che va dal peso al senso. Questo suggerisce una legittima parentela tra gli argomenti dei nostri oratori, mediatrice la parola.

Riprendendo l’itinerario dal peso al senso, quello che cerchiamo di fare tutti quanti, introduce Padre Bertagna, è proprio cercare un senso, un significato e anche una direzione. Il cammino di cui voglio parlare oggi, è il tentativo fatto da alcune persone molto coraggiose, nell’intraprendere quello che a tutti gli effetti è stato un esodo, da una terra di schiavitù a una terra che non si conosce, che non si riconosce.

I protagonisti di questo cammino, sono persone che vengono dall’esperienza degli anni ‘70, che sono stati anche gli anni di piombo, ovvero anni di atroce violenza.

Ricordiamo che Bologna è la città in cui nel 2002 è stato ucciso Marco Biagi, ed è dunque testimone della difficoltà a portare dietro un peso cui si fa fatica a dare un posto e un senso.
Vi parlerò quindi di storie che vengono da quegli anni, di persone che hanno subito violenza e persone che invece hanno procurato quelle ferite; non dimentichiamo mai che il nostro è un paese in cui si fa fatica a dare spazio al dolore delle vittime, e che paga anche un ritardo drammatico nel porre le giuste attenzioni legislative.

In questo contesto il 7 dicembre 2008, ha preso avvio il nostro cammino, informale ma allo stesso tempo solenne, partito a Milano da un gruppo di 4 feritori ed una vittima della loro violenza; esso affonda le sue radici in una storia piuttosto lunga fatta di ascolto, cominciata sul finire degli anni 90.

Lavorando al fianco del Prof. Ceretti e della Prof.ssa Mazzucato, entrambi mediatori penali, ho potuto constatare due cose, entrambe molto importanti.

La prima ha proprio a che fare con l’ascolto; c’è un bel passo nel Talmud, in cui viene detto che Dio ha dato all’uomo una bocca e due orecchie, il che dovrebbe presupporre che bisogna ascoltare il doppio di quello che si parla. Se qualcosa nasce infatti, nasce dall’ascolto, perchè l’ascolto è il concepimento. Fa parte della tradizione iconografica cristiana, una bellissima annunciazione in cui lo spirito parla a Maria dall’orecchio, la “Conceptio ex auditu”; l’ascolto è davvero in grado di dare vita.

Nel corso della nostra esperienza, ci siamo inoltre resi conto che ascoltare non consisteva soltanto nel fare memoria di fatti, ma che in qualche modo rappresentava la prima terra di incontro tra storie che non si sarebbero potute incontrare direttamente. Lavorando con la maggior trasparenza possibile, le persone erano a conoscenza del fatto che mentre da un lato incontravamo le vittime, eravamo dall’altro anche in contatto con coloro che avevano direttamente o indirettamente provocato il loro dolore. Il fatto che una vittima accetti di incontrare, seppur indirettamente, ovvero tramite me, il suo carnefice è qualcosa di straordinario, per nulla scontato: nella violenza o stai vicino a chi ha colpito o a chi ha subito.

Un’altra cosa di cui ci siamo resi conto, è che i responsabili dei fatti di sangue e le vittime, esprimevano con parole molto simili, desideri piuttosto comuni, come ad esempio che il loro dolore potesse trovare la possibilità di essere fecondo, specialmente per le persone giovani. Ecco le parole di alcuni: “Forse potrei trovare pace, se il mio dolore potesse essere condiviso e messo nelle mani di qualcun altro”.

Questo ci ha convinti, non senza timori, che forse si poteva tentare un primo momento di incontro in due gruppi distinti, formati l’uno dalle vittime e dai loro famigliari, l’altro dai responsabili della violenza armata; noi avremmo funzionato come ideali elementi di unione e di informazione di quanto stava avvenendo nell’altro gruppo.

Il lavoro è andato inaspettatamente molto bene ed è via via prolificato, grazie agli inviti fatti dagli stessi partecipanti ad amici ed amiche nel prendere parte alla nostra esperienza.
Così il gruppo di Milano ha preso via via sempre più consapevolezza di sè, e nel 2009 ha visto nascere a Roma un secondo gruppo diviso in due reparti.

Durante l’anno, soprattutto in estate abbiamo momenti in cui viviamo insieme, mangiamo allo stesso tavolo, dormiamo sotto lo stesso tetto e ci diamo un programma finalizzato a rivisitare la storia di ciascuno e a scongelare le memorie. Ricordiamo come il dolore abbia un importante potere fissativo, ed è per questo che abbiamo cercato tramite la narrazione di dare sempre più spazio a quella che nel tempo è diventata una vera e propria polifonia di voci. C’è una forza decisiva nella possibilità per ognuno, di raccontare la propria storia in presenza della controparte.

Nel 2013 infine il gruppo, non certo senza fatica, ha deciso di raccontare ad altri la propria esperienza, per provare ad allargare il cerchio del confronto, uscendo così da quella riservatezza che fu necessaria inizialmente a garantire la serenità minima necessaria.

Voglio esprimere la mia più viva ammirazione per la profondità del coraggio di quanti hanno deciso di mettersi in gioco, suggerendo l’idea che il pensiero degno di questo nome è sempre una mediazione, unica alternativa ai rischi dell’angoscia e dell’onnipotenza.

Il mio sguardo, comincia la Dottoressa Masina, è quello di una psicoanalista, ed è quindi prevalentemente orientato al mondo interno dell’individuo, all’intrapsichico, senza però trascurare le sue relazioni anche con il mondo esterno. Come traccia seguirò il titolo della mia relazione “Ripetere, riparare, trasformare”, e comincerò riflettendo sul concetto di ripetizione. Con esso la psicoanalisi ha familiarizzato sin dai suoi albori, spesso mettendolo in relazione a quello di trauma. Questa parola tanto abusata nel linguaggio comune, è però ancora portatrice di un alone di mistero ed è abitata da fantasmi in cui convergono molteplici significati.

Dal greco la parola trauma significa ferita, un turbamento prodotto da una profonda emozione; in psicoanalisi si riferisce a qualsiasi esperienza del tutto inaspettata che il soggetto non è in grado di affrontare, un’esperienza dal carattere effrattivo, cioè capace di violare le sue difese causando quella che potremmo chiamare una sorta di siderazione. Va detto che il trauma è un concetto relativo: ciò che risulta traumatico per un individuo, può non esserlo per un altro, e nemmeno per lo stesso soggetto in un momento differente della sua esistenza.

Secondo Freud il trauma è quella realtà in grado di suscitare in ciascun individuo un modo peculiare di difendersi che viene chiamato rimozione, ovvero qualcosa che elimina il ricordo del trauma senza però cancellarne gli effetti.

Secondo le più recenti acquisizioni delle neuroscienze, in seguito ad un trauma precoce molto intenso, sovente non interviene la rimozione bensì accade che non si formino neppure le tracce mnestiche dell’evento e cioè il suo ricordo.

Tuttavia il trauma, in questo caso trauma non pensato e non verbalizzabile, rimane comunque incistato nella mente dell’individuo come un corpo estraneo senza che egli ne abbia consapevolezza, e può arrivare ad esprimersi attraverso disturbi somatici. I traumi non elaborati talvolta possono tramandarsi muti tra le generazioni, come una sorta di eredità ingombrante e misconosciuta, che può dare origine a sintomi o comportamenti ripetitivi. Trauma ripetizione memoria, sono tra loro strettamente correlati e ciò che non può essere ricordato, secondo Freud, viene ripetuto in una sorta di coazione inconsapevole.

Ne “Il libro dell’incontro” di Padre Bertagna, continua la Dottoressa, mi ha molto colpito l’espressione utilizzata da Agnese Moro “porte girevoli del dolore”, che ci riconducono ad un passato dagli effetti così disorganizzanti per il nostro Sé da non poter essere neppure pensati.

Molti altri autori dopo Freud si sono occupati del trauma ed hanno esplorato le potenzialità trasformative della cura nei pazienti traumatizzati. È stato cosi possibile cogliere, nel tempo, differenti valenze e significati della ripetizione, oggi considerata non più soltanto come un’inconsapevole coazione a ripetere, ma anche come incessante ricerca al fine di trovare nel presente una via nuova e virtuosa rispetto ad una situazione del passato.

Uno psicoanalista ungherese di nome Sandor Ferenczi, ha studiato i sogni ricorrenti di pazienti traumatizzati e ne ha evidenziato la funzione traumatolitica: la ripetizione nella vita onirica del trauma vissuto, ha una funzione curativa.

Così come tornare negli stessi luoghi in tempi ravvicinati ci consente di distinguere le variazioni minime dell’ambiente, rivisitare con qualcuno gli scenari interiori permette di scoprirne diverse e nuove sfaccettature ed aiuta a intraprendere un cammino in direzioni di possibilità evolutive.

Tutto questo avviene all’interno di una relazione che funge innanzitutto da contenitore, uno spazio sicuro in cui le cose possono essere sperimentate di nuovo e rielaborate, da osservatorio privilegiato in cui poter esercitare uno sguardo strabico, capace cioè di guardare con un occhio al passato e con uno al presente, ed infine da enzima, in grado di attivare reazioni trasformative e porre parole dove prima c’era solo dolore muto.

Ci possiamo chiedere: tutto questo è finalizzato alla ricerca della verità? Certo non di una verità fattuale, quanto piuttosto di una realtà interiore, intrapsichica, fatta di vissuti, di emozioni a volte anche iscritte nel corpo, più che di evidenze e di prove.

È una ricostruzione? Diremmo più una rinarrazione, frutto della relazione che è la vera e propria essenza della cura. In analisi è proprio l’ascolto di eventi non memorabili e la rivisitazione di fatti più o meno traumatici, a ricondurci verso un conferimento di senso trasformativo.

Passiamo poi a parlare della riparazione. Riparare è una parola che richiama lavori manuali, artigianali che richiedono tempo, pazienza ed esperienza e che consentono di non buttare oggetti che possiedono una storia e che proprio per questo ci sono cari. Noi psicoanalisti ci occupiamo di riparazione simboliche, che hanno a che fare con la morte, con la vita, con l’amore, con l’odio, in ambito psichico ma non solo, perché, ricordiamolo, siamo un tutt’uno con il nostro corpo. Non esiste una mente staccata dal corpo, tanto è vero che di frequente i traumi li viviamo dolorosamente proprio in esso attraverso delle manifestazioni dolorose: affanno nel respiro, vertigini, sensazioni cutanee.

M. Klein, psicoanalista ungherese di grande rilievo, fu colei che per prima parlò del concetto di riparazione. Grazie al suo prezioso lavoro con bambini anche molto piccoli, arrivò a considerare come sin dai primi mesi di vita vi sia una costante interazione tra sentimenti di odio e amore del bambino piccolo verso la madre.

Secondo la Klein ogni bambino dovrà trovare la sua personale strada rispetto a questi sentimenti cosi contrastanti; l’odio che egli percepisce infatti evocherà intensi sensi di colpa e solo così potrà cominciare a preoccuparsi per l’altro e poi prendersene cura. Questo meccanismo è alla base non solo delle relazioni d’amore ma anche di amicizia, dei legami sociali e della cosiddetta vocazione terapeutica.

Infine una piccola menzione la merita la gratitudine, importante sentimento strettamente collegato con la riparazione. Quando questo affetto, per nulla scontato, compare per esempio al termine di un’analisi, ci segnala un’importante trasformazione data dall’integrazione tra i sentimenti di odio e di amore ed dal tramonto del narcisismo più distruttivo.

La riparazione quindi non nasce semplicemente dall’amore, ma dall’interazione tra l’odio e l’amore. “Non si può essere capaci di amare, se non si è stati capaci di odiare nelle nostre esperienze infantili precoci” diceva Winnicott. Egli chiamava la riparazione la capacità di preoccuparsi degli effetti dei nostri attacchi e del nostro odio sull’altro.

Parliamo infine della trasformazione, i cui strumenti sono l’ascolto, la relazione, la funzione di testimonianza, la capacità riparativa ed il riconoscimento dell’altro. Wilfred Bion, psicoanalista britannico, ha formulato una teoria delle trasformazioni che descrive i modi in cui il pensiero oscilla e si trasforma nel corso dell’analisi all’interno della relazione che si crea tra paziente ed analista.

Quando noi psicoanalisti riusciamo a pensare e poi trasformare la personale sofferenza in qualcosa che abbia una valenza terapeutica, ciò significa che il nostro lavoro è stato proficuo e solo allora possiamo definirlo trasformativo. L’essenza della parola trasformazione può essere resa in modo molto efficace, secondo la Dottoressa Masina, leggendo un racconto di Primo Levi, intitolato Il sistema periodico. Ogni capitolo è un racconto che ha come protagonista un elemento della tavola periodica; in quello dal titolo carbonio, che è l’ultimo, si narra la storia di un atomo di carbonio e delle sue trasformazioni. In esso viene descritto come la roccia calcarea, giunga al mondo delle cose che mutano grazie all’intervento del piccone dell’uomo e come in seguito riscaldato divenga volatile, poi organico quindi parte della vita, da prima in forma vegetale ed in seguito come costituente di un corpo umano, e poi di nuovo nel vento, legato all’anidride carbonica e trasformato in legno, tarlo, farfalla, diamante, latte sangue e infine neurone, insomma: pensiero.

Segue un arricchente e vivace dibattito.

Giugno 2017

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