“La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto”
F. Pessoa
Non c’è nome per la perdita di un figlio.
La parola Vilomah, dal sanscrito, significa disordine, caos, letteralmente: “contro l’ordine naturale”.
È attraverso lo sguardo di Daria, madre attonita per il suicidio della figlia, che veniamo calati nel labirinto del dolore che teme di aver mancato qualcosa. La ricerca dell’incompreso di quel gesto carrella nel presente congelato il flashback dei ricordi.
“Dì a mamma che lei è perfetta.”
Il biglietto di scuse lasciato da Giada pare sgomberare il campo da ogni atto d’accusa. È come se la tessitura dei torti su cui ciascuno si interroga (Daria, il fidanzato con cui Giada litiga prima di ingoiare le pillole, lo psichiatra che non intuisce le sue intenzioni) non fossero che riflessi sfocati di un vuoto primigenio. Perché il cuore cui il romanzo pare condurre è in quell’essere una figlia adottiva che silenziosamente affonda nei fantasmi del suo abbandono originario.
Giada che da bimba non sopportava i puzzle cui mancava un pezzo, che lo costruiva in cartone per avere la figura intera, risuona dell’affanno di tenere dentro i vuoti senza soccomberne.
“Come ho potuto essere così cieca, così chiusa nella mia stupida, ingenua convinzione che fossimo felici, che il mio amore ti bastasse, che tappasse ogni buco?” Sequestrata nello smarrimento di non aver saputo riparare, Daria echeggia la propria fragilità riattraversando i suoi ricordi infantili della stanchezza della propria madre, del rifiuto dell’allattamento, delle giornate affidata alla nonna. Si è immaginata figlia per caso, nell’età di una maternità per convenzione più che per desiderio, ed è cresciuta nell’ostinata spinta alla differenza: “Io non ho nient’altro, se non questo desiderio di diventare mamma.” Così a 25 anni, con qualche dubbio di poter riuscire a far figli suoi, lei e Andrea adottano e l’arrivo della figlia fa pensare a Daria che tutto sia finalmente a posto: “Ti ho preso in braccio, e il mondo si è riparato.”
“Nessuno salva nessuno...”
Giada si suicida nella stessa età in cui Daria diventa madre ri-generandosi (“Ho cominciato a festeggiare il giorno del mio compleanno solo quando sei stata tu a chiedermelo”), la stessa età cui la nuova legislazione sull’adozione consente di richiedere i documenti riguardo la propria nascita.
Le radici e lo sradicamento, è questione di senso e della propria collocazione nel mondo, sembra questo il messaggio forte della Marzano: “L’immaginazione deve potersi ancorare a un asse solido.”
Giada di fronte al pancione dalla madre aveva chiesto di sé e Daria non voleva mentirle: “La mamma voleva tanto una bambina ma non arrivava. Così è venuta a cercarti in un posto dove c’erano tanti bambini senza mamma..”. La bimba era rimasta pensosa poi le si era buttata al collo: “Ma quando sei venuta a prendermi era perché volevi una bambina o perché mi volevi bene?”
La domanda umana di riconoscimento: vedi me o sono solo l’oggetto narcisistico dei tuoi bisogni?
“Questo vuoto che l’amore non colma, anche se l’amore è necessario.”
Un romanzo curato, una scrittura efficace a rendere lo sconcerto e i cambi d’atmosfera. L’intreccio è denso di particolari a evocare l’urto invisibile dei segreti e le aderenze di ciò che si ripete:
“Mamma, mi ascolti?”
“Amelia, pulcina. Prima il tuo nome era Amelia.”
“Amelia come la nonna?”
“Già, Amelia come nonna Amelia.”
“E allora perché me lo hai cambiato?”
Eredità della perdita, Daria arriverà anche a confrontarsi con la propria madre, scoprendo un’altra storia nelle sue radici. Lo scorrere delle elaborazioni, le sue in primo piano e quelle di Giada sullo sfondo, confluiscono in un finale che ricompone i pezzi esattamente come un puzzle.
Forse il bisogno di ordinare il caos in una figura dove tutto ha una precisa collocazione fa perdere mordente alla chiusa.
Evocato l’amore che resta, orbato di futuro, mi è venuta voglia di andarmi a rileggere Grossman, una delle scritture dopo la morte del figlio in Libano.
“Solo ora capisco, / non è mio figlio che voglio rianimare, / far fremere. È su me stesso / che devo far forza / con parole, visioni / spauracchi / di personaggi / tenuti insieme con paglia / e argilla, e con il senno dello stolto... / per non cessare di esistere e pietrificarmi. / Ed è il mio respiro, / a essere falciato / nel gelido biancore / fra una parola / e l’altra. Sono / io, / io a fremere come una preda / nelle fauci / dell’assoluto. / Combatto per me stesso, / solo per la mia anima, / contro ciò che annichilisce / offusca / e sminuisce. / Tutta la mia vita / ora, / tutta la mia vita / sulla punta / di questa penna.” (Caduto fuori dal tempo, Mondadori)
Daniela Federici
Luglio 2018