“Le cose che ci sono più care sono fragilissime.
Una nazione che combatte contro il terrorismo
non lotta solo per la sicurezza dei propri cittadini,
ma anche per tutto ciò che fa di loro degli esseri civili
e umani nel vero senso del termine.”
D. Grossman La guerra che non si può vincere
Aramburu dipinge un coinvolgente affresco della sua terra nel tempo dilaniato dalla lotta armata indipendentista dell’ETA attraverso un romanzo familiare che racconta le vicende di due famiglie basche legate da profonda amicizia. Txato e Bittori, Joxian e Miren, crescono insieme i loro figli finché Txato, piccolo imprenditore, rifiuta di continuare a pagare l’imposta rivoluzionaria con cui l’organizzazione si finanzia e viene ucciso. L’impatto quotidiano con la violenza e il clima di diffidenza e isolamento per i timori di rappresaglie, sono al centro di un’epoca di sangue che oppone gli uni agli altri, che lacera i legami e costringe all’abbandono delle case.
La trama, nelle sue ellissi temporali, si stende fino al tempo della pacificazione, dopo che l’ETA si dichiara sciolta, abbandonando la lotta e chiedendo scusa alle vittime.
Bittori non ha rinunciato a sapere la verità sulla morte del marito e a volersi far chiedere scusa: “voglio che uno di loro sappia quello che ci hanno fatto e come l’abbiamo vissuto.” La lettera che prova a scrivere è rivolta a Joxe Mari, il figlio di Joxian e Miren, in carcere per diversi attentati compreso l’assassinio di Txato. Miren, l’amica di sempre, accesa alla causa anche per istinto materno, è una delle voci più ostili al riaffacciarsi in paese della vedova, accanto a chi cerca di dissuaderla dal riaprire ferite.
“Vedrai come a noi vittime rinfacceranno che ci rifiutiamo di guardare al futuro. Diranno che cerchiamo vendetta.. Diamo fastidio.”
La contrapposizione fra le famiglie e, al loro interno, fra le diverse visioni e caratteri dei personaggi, consente ad Aramburu di guardare a quel periodo da varie prospettive - pur palesandosi la filigrana di una posizione personale sul seducente invito del nazionalismo impartito nelle menti giovanili fin dai banchi di chiesa. Nel personaggio di uno scrittore che rimarca come la letteratura basca abbia fino a quel momento prestato poca attenzione alle vittime, interessandosi più ai carnefici e ai loro problemi di coscienza, non è difficile rintracciare l’alter ego dell’Autore e le sue intenzioni:
“Ho scritto contro il delitto perpetrato con un pretesto politico, in nome di una patria dove una manciata di persone armate, con il vergognoso sostegno di un settore della società, decide chi appartenga a quella patria e chi debba lasciarla o scomparire. Ho scritto senza odio contro il linguaggio dell’odio e contro la smemoratezza e l’oblio tramati da chi cerca di inventarsi una storia al servizio del proprio progetto e delle proprie convinzioni totalitarie.”
Il racconto rende bene l’inerzia del silenzio di fronte al terrore, così come la condanna che può essere solo un nuovo aderire, senza vere elaborazioni, a una pace che rischia di appoggiarsi sul ‘non è successo niente’. È ben più difficile e necessario fare il punto della propria storia.
“Toglierselo da dentro come chi vomita delle braci vecchie e non ancora spente..”
È un libro con una profonda concentrazione di umanità, senza sentimentalismi, un buon lavoro di introspezione sui personaggi, un intreccio persuasivo che – come ogni buon libro dovrebbe fare – aiuta a pensare questioni che non smettono di essere la nostra attualità, intesa ben al di là delle spinte indipendentiste della Catalogna.
Ciò su cui ci invita a riflettere sono soprattutto gli effetti del terrore sulle nostre menti: “il cittadino terrorizzato diventa più intollerante, più incline a stereotipi e luoghi comuni.. non è difficile prevedere che in circostanze simili fioriranno i partiti xenofobi e razzisti”, dice Grossman. Non si può che dargli ragione, conoscendo i meccanismi schizoparanoidei.
Come coltivare un pensiero sociale che possa scongiurare le soluzioni scissionali e le scorciatoie della violenza?
Nerea, la figlia di Txato e Bittori, mandata a studiare lontano appena il padre viene minacciato dall’ETA, cerca una risposta nella mediazione umanistica e, pur così distante dalle idee della madre, ne echeggia lo spirito: l’importanza di vedersi riconosciuti, il bisogno di una giustizia capace di prendere in carico la riparazione della vittima più che comminare una pena che è la mimesi della violenza che vorrebbe ‘sanare’, ambiguità del pharmakon che non guarisce il vulnus della colpa.
Ciò che sembra suggerire Aramburu è il bisogno di un’elaborazione riparativa della relazione più ancora che dell’offesa, una risocializzazione come compito di civilizzazione.
Sono processi di integrazione e maturazione lenti, cui occorre il contatto con le proprie parti dolorose e feroci. Arantxa, sorella di Joxe Mari, colpita da un ictus che l’ha costretta su una sedia a rotelle a esprimersi digitando sul tablet, diventa simbolo della ferita e della capacità di mettere in comunicazione le parti, accogliendo e mediando le lettere di Bittori e rappresentando “uno scomodo sussurro interiore” per il fratello, spingendolo a “vagare nel buio dei propri labirinti mentali”.
“Qualcosa sta cambiando dentro di lui. Pensa molto. Buon segno.”
Joxe Mari, per il quale il gruppo e l’unità dei compagni era tutto anche durante le torture, che era entrato nell’ETA per difendere delle idee, perorando argomenti che giustificavano quella lotta, mostrandola giusta e necessaria, comincia a riconoscere di aver ucciso e forse di aver perso il meglio della sua vita.
“Un uomo può essere una nave con uno scafo d’acciaio. Poi passano gli anni e si formano delle incrinature. Di lì passa l’acqua della nostalgia, contaminata di solitudine, e l’acqua della consapevolezza di essersi sbagliato e di non poter rimediare all’errore, e quell’acqua che corrode tanto, quella del pentimento che si sente e non si dice per paura, per vergogna, per non fare brutta figura con i compagni. E così l’uomo, ormai nave incrinata, andrà a picco da un momento all’altro.”
Ottenuta una risposta-riconoscimento, Bittori intraprende i suoi lutti, Miren placa la sua furia protettiva e alle due amiche capita di reincontrarsi in paese, fra i bisbigli della gente che ricordava il grande legame fra loro; un abbraccio breve, senza dirsi nulla.
“Insieme abbiamo ottenuto una vittoria molto più grande di quelle che avremmo potuto riportare l’uno a scapito dell’altro.” (Grossman, La guerra che non si può vincere)
Agosto 2018
leggi "Il libro dell'incontro" a cura di G. Bertagna, A. Ceretti, C. Mazzucato (2015) su SpiWeb
leggi "Il libro dell'incontro" a cura di G. Bertagna, A. Ceretti, C. Mazzucato (2015) su Cepsibo