Lo storico Nicola Tranfaglia, commentando nel 1997 l’uscita del romanzo di Manuel Vazquez Montalban Io, Franco, autobiografia immaginaria del dittatore spagnolo, si chiedeva per quale motivo in Italia nessuno avesse ancora scritto un Io, Mussolini “con le intenzioni e la scrittura di Montalban”. Intenzioni e scrittura che, aggiungeva la poetessa Hado Lyria nella postfazione, andavano ricercate entro la necessità di dare futuro alla memoria. L’esempio spagnolo diveniva, dunque, paradigmatico di un rischio: la rimozione collettiva del ricordo storico, con l’esito consueto nelle mancate elaborazioni, il riproporsi, cioè, di dinamiche politiche e sociali affini a quelle vissute dalle generazioni precedenti. E, se le dittature europee del ‘900 rappresentano agli occhi di molti un passaggio inevitabile della storia, il loro peso rischia di farsi avvertire ancora nel presente. La censura sui fatti tragici del passato coinvolge, infatti, carnefici e vittime, così da appiattire sia la prospettiva storica sia quella etica. La riconciliazione imposta dall’incalzare della ricostruzione ha consentito la coesistenza di vinti e di vincitori senza una chiara ammissione di responsabilità, anzi con la tendenza a rivendicare e ad accusare, dando prova della persistenza di un conflitto sempre vivo sotto la cortina in apparenza pacificata del tempo presente. Aggiungeva la Lyria: “Dimenticare, non voler ricordare, deridere i propri ricordi ed evitare di trasmetterli a chi come propri non ha potuto viverli, non diventa quindi trasparente complicità con il passato e con ogni sua colpa, anche con quelle mai personalmente commesse?”
A questa necessità pare rispondere il voluminoso romanzo di Antonio Scurati, pubblicato alla vigilia del centenario dei fasci di combattimento. Non opera storiografica, in quanto non mirata alla ricostruzione dei fatti, ma alla loro descrizione dall’interno, il testo trae le fondamenta dalla consultazione di cronache e resoconti che raffigurano con dovizia di particolari il quadro degli anni tra il 1919 e il 1925 sullo sfondo di una Italia convulsamente immersa nelle violente dispute tra partiti e movimenti all’indomani della Prima guerra mondiale. Protagonista è Mussolini (M), figlio (dunque espressione naturale) di un secolo lacerato dai tormenti ideologici e dalle improvvise transizioni che percorrono il continente.
Dalle pagine di Scurati emerge come la violenza sia il tema che scandisce i tentativi di acquisire il potere, violenza intimamente e forse inconsciamente giustificata dal conflitto mondiale appena concluso: sorta di onda implacabile che non trova né argine né pacificazione. Volontà di dominio, propensione a seguire tendenze bolsceviche oppure imperialiste, debolezza di una politica nazionale priva di guide autorevoli: l’Italia del tempo appare un coacervo di forze indistinte dove non i principi etici, non l’amor di patria e nemmeno il rispetto dell’umana natura trovano spazio. Da questo fango, dal sangue delle vittime immolate sull’altare delle distruzioni, emerge la figura di Mussolini e la sua necessità di un trasformismo che lo porta dal socialismo all’interventismo, dal giornalismo di rottura alla creazione di un movimento rivoluzionario e infine alla presa del potere. La ricomposizione di elementi costruttivi risulterebbe, se non possibile, almeno auspicabile entro il “balenio di colori” di goethiana memoria in cui si riconosce la vita. Così, il fascismo appare nuova luce di gloriosa giovinezza a fronte degli intrighi compiuti dai vecchi governi. Ma è una parvenza. Dopo la marcia su Roma, il riordino dei poteri statali contiene, sotto la superficie, una costante pretesa di violenza che continua a dar segno di sé: violenza ufficialmente deprecata, poi imbrigliata nella Milizia, infine esplosa brutalmente e resa palese al mondo dal delitto Matteotti, che l’autore racconta come un romanzo nel romanzo. E’ l’eloquio di Mussolini a tenere in pugno il paese e il parlamento, un eloquio sfrontato per la sincerità degli intenti e la spavalda ostentazione della forza viscerale: “poteri scaramantici con cui talvolta le divinità minori della parola, a dispetto dei fatti, concedono agli uomini di tenere a distanza la realtà” (pag. 573). E’ il Mussolini accompagnato dal mito degli appetiti sessuali insaziabili a possedere la nazione con l’impeto carnale con cui egli è solito accostarsi ripetutamente alle amanti da cui attinge vitalità, forza, cultura, ispirazione. Si avverte l’eco delle imminenti derive fasciste verso un militarismo che codificherà l’addestramento giovanile come preparazione a una guerra inevitabile con l’esibizione di teschi, labari e pugnali elevati a strumenti liturgici di una morte annunciata: propria o altrui non importa, ma esito finale di una distruttività non soggetta ad alcuna elaborazione. Il Mussolini del romanzo veste ancora in borghese, vive in albergo, esibisce “una nobiltà da grandi magazzini” (pag. 377).
Si contrappone a lui, figlio di un fabbro romagnolo, Giacomo Matteotti, discendente da una famiglia polesana di latifondisti. In un vortice mutevole di posizioni e di destini, la costante tensione etica del parlamentare socialista lo rende martire predestinato, rifiutato anche dai compagni del suo partito, braccato dai fascisti lungo l’intera penisola, vittima di un sacrificio i cui i colpevoli verranno ricercati per decenni tra dubbi e incertezze. Nel testo di Scurati, Mussolini appare il mandante inconsapevole dell’omicidio, come di un’azione desiderata ma non esplicitamente comandata, sfuggita al suo controllo e incarnata dal braccio armato del potere negli elementi più truci.
Il 3 gennaio 1925 un parlamento annichilito non troverà il coraggio di mettere sotto accusa il presidente del consiglio, dandogli via libera per il ventennio successivo.
Resta volutamente al margine la presenza discreta e incombente del re d’Italia. Non elemento passivo, ma omissivo del potere monarchico, finisce per assumere un ruolo determinante: evita di firmare lo stato d’assedio alla vigilia della marcia su Roma così come ignora le accuse al governo per le efferatezze compiute dagli squadristi. Il patto implicito tra Vittorio Emanuele e Benito Mussolini circola sulle pagine del romanzo come il collante principale tra la dittatura e la monarchia destinate a precipitare, sotto il peso della violenza e delle rimozioni, verso la disfatta, verso un destino di dissoluzione: “Continueranno a combattere, da una parte e dall’altra, senza sapere che abitano già una casa di morti. I nostri, i fascisti in camicia nera con i teschi ricamati in bianco, la abitano da sempre, gli altri, cresciuti per secoli nel rispetto dell’essenza umana, non la conoscono […] Mi sono giustificato dinanzi alla storia, ma devo ammetterlo: è struggente la cecità della vita riguardo a se stessa. Alla fine si torna all’inizio. Nessuno voleva addossarsi la croce del potere. La prendo io” (pagg. 826-827).

Pierluigi Moressa

 

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