Se ne parla poco: il concetto di sanità del dolore sembra contraddire la sua sintassi: se è sano come fa a essere doloroso; se è doloroso come fa a essere sano. Eppure fu scritto: “E tu, donna, con dolore partorirai i tuoi figli.” Sia lecita una lettura laica del celebre pronunciamento biblico. Se il dolore accompagna la più sana delle competenze umane - ricreare la vita – un po’ di quella sanità non può non ricadere sul dolore che l’accompagna: d’altronde altre metafore del parto (partire, spartire, spartizione, dipartita) sembrano ospitare la consapevolezza, malinconica, che la totalità del tempo e del mondo non può appartenere al singolo, che solo di una parte si dovrà contentare.
Come psicoanalisti ci occupiamo più spesso dell’angoscia (che propriamente sana non può essere mai, dato che già nella parola sembra strozzare il respiro). Conviene perciò distinguere senza scindere, e collegare senza confondere, l’angoscia e questo dolore. Facciamo ricorso a Dante, il sommo (sissignori, finora nessuno lo ha eguagliato.)
Il quinto canto dell’Inferno contiene una vistosa contraddizione: dopo i lussuriosi (Semiramide, Elena, Achille, Paride, Tristano, Cleopatra) orribilmente abbaiati da Minosse e tormentati dalla “bufera infernal che mai non resta”, Dante vi incontra Paolo e Francesca (“quei due che insieme vanno, e paion sì al vento esser leggieri”). Da questo verso in poi l’Inferno è sorprendentemente sospeso e tutto il resto del Canto assume un andamento da Purgatorio. Il racconto di Francesca si apre con le tre terzine d’amore più celebri di tutta la Commedia: “Amor che al cor gentil ratto s’apprende…. Amor ch’a nullo amato amar perdona… Amor condusse noi ad una morte”. Prosegue con la rievocazione della lettura del “libro galeotto”, del bacio tremante, della vita spenta dal marito assassino, ora atteso dalla Caina. La rilettura completa è d’obbligo, fino agli ultimi quattro versi: “Mentre che l’uno spirto questo disse, / l’altro piangea , sì che di pietade/ io venni men, così com’io morisse / e caddi come corpo morto cade”. E’ qui di scena il dolore sano, di Francesca, di Paolo, del Poeta e, a suo modo, anche del lettore: e la commozione, affidata alla condivisione, ne garantisce il senso, e in questo modo ne alleggerisce il peso. Vedremo come l’angoscia sia governata da tutt’altro statuto.
Ancora Dante: andiamo al canto XXXIII: “La bocca sollevò dal fiero pasto / quel peccator, forbendola a’capelli / del capo ch’elli avea di retro guasto. / Poi cominciò...” Il conte Ugolino racconta qui l’atroce morte per fame dei suoi figli e di se stesso in Pisa, nella torre dopo d’allora detta “della fame”. Senza dubbio è la pagina più tragica di tutta la Commedia. Il fiero pasto sul cranio dell’antico nemico traditore, contrappasso perfetto a vendicare la fame assassina dei suoi figli e di se stesso. La rievocazione dell’incubo premonitore, con quelle “cagne magre studiose e conte / cacciando il lupo e i lupicini al monte“ e poi il sinistro rumore della chiave che serra l’uscio di sotto l’orribil torre; e poi la lunga morte dei figlioli ad uno ad uno, il cieco brancolare sopra i loro cadaveri e, in fine, la propria stessa morte: “Poscia più che il dolor potè il digiuno”. Poco più su Ugolino aveva ammonito Dante: “Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli / pensando ciò che ‘l mio cor s’annunziava; / e se non piangi, di che pianger suoli?”
Ora però Dante, sopraffatto da tanta angoscia, questa volta non piange e prorompe anzi in una maledizione terrificante: “Ahi Pisa, vituperio delle genti / del bel paese là dove il sì sona…” ecc. E arriva a chiedere addirittura quell’evento tellurico che Ugolino, al culmine della sua angoscia, aveva invocato: “Ahi dura terra, perché non t’apristi?” “Muovasi la Capraia e la Gorgona / e faccian siepe in Arno in su la foce / sì ch’elli annieghi in te ogni persona!”

Sia lecito utilizzare la scrittura dantesca per illustrare la facile ambivalenza che attiene al concetto di “difesa” in ogni testo di storia o di cronaca, di filosofia o di diritto, infine di psicopatologia: difese che difendono e difese che promettono di difendere, ma si convertono nell’opposto (tutte le figure della psicopatologia, dalla più “banale” fobia al più drammatico delirio persecutorio, sono difese che non difendono). Ma davanti a Francesca Dante si addolora e si commuove: “Francesca, i tuoi martiri / a lacrimar mi fanno tristo e pio” e quando questo affetto incontra il pianto silenzioso di Paolo, la piena emotiva impone la rapida perdita di coscienza, fino “al tornar della mente che si chiuse / davanti alla pietà dei due cognati”, come sapremo dal primo verso del canto successivo. Dunque il dolore sano mostra d’essere qui la sola difesa che difende: la solidarietà, la tenerezza, e persino la prodigiosa bellezza dei versi più sopra ricordati.
Di tutt’altra natura quell’altra difesa incontrata nel Canto di Ugolino: l’angoscia, cattiva consigliera, impedisce a Dante di accedere a quel pianto che pure Ugolino gli aveva domandato: subito solidale col suo ospite infernale, fa sua la grandiosa violenza vendicativa e scaglia quella maledizione pantoclastica sull’intera città (“ogni persona”), bambini inclusi dunque. Viene voglia di ricordarglielo: “Non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.”
Perciò, mentre il dolore sano, la commozione, propizia il pianto che promuove consolazione, l’angoscia all’opposto tanto spesso lo vieta e consiglia la vendetta onnipotente: questa, proiettando l’angoscia sul dirimpettaio, promette di esonerarne il soggetto; ignorando che il nemico, così costituito, risponderà in modo speculare: ed è la guerra, fattore d’onnipotenza e di morte. Il dolore sano è perciò una forza consigliera di pace che protegge dall’angoscia, qui consigliera di vendetta; una forza che esonera dall’onnipotenza e dalla perfezione, insidiosi fattori di colpa persecutoria e di vergogna. Peccato che questa forza venga spesso fraintesa e censurata: penso agli sgrammaticati applausi che sulle scalinate delle nostre cattedrali accolgono il feretro del noto personaggio pubblico venuto a morte: come se si fosse ad uno spettacolo di teatro. Preferisco il modo di chi, silenzioso, procede un poco a testa bassa, guardando i propri passi di camminatore provvisorio sulla terra comune.

G. Zucchini

Maggio 2019

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