Tra le innumerevoli pitture di Madonne con Bambino poche sono quelle che mostrano nudo il seno della Vergine e l’esplicito ciucciamento del Bambino. Una vistosa eccezione è la “Madonna del latte” di Ambrogio Lorenzetti (Siena, 1330, Palazzo Arcivescovile) : qui l’occhio del pargolo guarda dritto in faccia lo spettatore e, mentre dichiara con tutt’e due le manine, il suo fermo diritto di proprietà sulla mammella-madre, con occhio severo rimprovera l’indiscreto pittore-osservatore…
Immensa (= non misurabile), indicibile (= non ci sono parole), meravigliosa (= sorprendente) questa felicità si è guadagnato il diritto all’ineffabilità: davanti ad essa, sorella della bellezza, “ogni lingua deven tremando muta / e li occhi non ardiscon di guardare “ (Dante): così lo spettatore incantato davanti al rimprovero del bambino.
L’etimologia, immensa riserva di libere associazioni di proprietà del preconscio collettivo, ci consegna una curiosa sequenza: il verbo latino ‘felare’ indica ai parlanti due significati speculari: ‘felare’ significa succhiare il capezzolo materno, ma – sorpresa – ‘felare’ dice anche allattare…
Dunque “felice chi fela” da un lato e dall’altro della scena…(*)
Se ne parla poco: un po’ per pudore, un po’ perché non è necessario, anzi è sconsigliato parlare dell’ineffabile, “per la contradizion che nol consente”. Ancora Dante: “Perché appressando sé al suo disire/ nostro intelletto si profonda tanto/ che dietro la memoria non può ire. (Paradiso,I,7-10)
Di tutt’altra natura è il rapporto tra la parola e il male: dell’anima, del corpo e della Storia.
Davanti al male il pensiero affila come può i suoi strumenti: la malattia (mal-habitia = cattivo abito, brutta cera) sia del singolo, sia del gruppo o della massa, tutto il male del mondo, la guerra in primis, sfida la ragione con armi insidiose e potenti: l’odio, la violenza, la paura, il terrore, la colpa, la vergogna, malignamente alleate con l’istinto di morte.
Perciò il pensiero, umana competenza a sollevare pesi (soppesare, ponderare …) si costituisce come strumento di opposizione al male, in primis come definizione e cioè scrittura di confini, atta a circondare il male, cercando di contrastarne l’alluvione sopra la totalità del territorio e del tempo.
Eppoi come diagnosi (conoscenza attraverso ) e cioè riconoscimento di parti costitutive da potersi affrontare separatamente, come prognosi e terapia specifica.
Così la medicina (dal greco ‘mèdomai’,che dice sia ‘meditare’ che ‘prendersi cura’) può assumersi come modello del pensare in senso ampio dalla poièsi alla scienza.
E il pensiero scientifico, da sempre alla ricerca di leggi deterministiche, negli ultimi tre secoli, in questa parte del mondo, ha colonizzato ampi territori della vita e della storia, sottoponendo alla prevedibilità e al determinismo un grande numero di mali di corpo e d’anima, dei singoli e dei gruppi, sottraendoli all’ignoranza e al divieto di sapere per consegnarli alla conoscenza e alla riparazione.
Perciò le proposizioni attinenti al bene (al bello, al buono, all’arte, alla felicità…) e le proposizioni afferenti al male (violenza, malattia, angoscia, guerra…) non godono del medesimo statuto epistemico: le prime sono modali, congiunte dal ‘come’, le seconde sono causali, governate dal ‘perché’, congiunzione accausativa che incatena gli eventi e gli affetti negativi, cercando di impedirne, o almeno limitarne, la propensione epidemica.
Così il male è governato da meccanismi ripetitivi e prevedibili (Annah Arendt, “La banalità del male”) laddove il bene, la felicità, la bellezza, l’arte degna del nome, protette dal mistero, mal sopportano catene causali…( Il greco ‘mysterion’ viene dal verbo ‘myo’, stringo gli occhi, da cui anche ‘miopia’, come a suggerire che certe cose del mondo si vedono meglio ad occhi socchiusi, trasognanti…)
Infine,correggendo un errore assai comune, normalità e salute non sono sinonimi. Si sopporti il paradosso: la salute, come la bellezza, non è normale…Normale è semmai la malattia: vista una frattura al femore, viste tutte; vista un’epatite, o un delirium tremens, idem: e altrettanto normalmente ogni quadro morboso evolve così e così e si cura così e così...Ma ‘visto il signor Rossi, vista la signora Bianchi, portatori di tali malanni, visti tutti,’ sarebbe proposizione blasfema, posto che ciascuno, simile a tutti ma identico solo a se stesso, legittimamente rifiuta d’essere ridotto a numero…( Di lì cominciava la mostruosità del Lager)
Perciò il pensiero medico è fondato su un principio obbligante: la patologia è uguale per tutti, ma la clinica si inchina alla “ciascunità” dell’individuo, della quale ogni medico si fa a sua volta testimone e garante. In estrema sintesi: la patologia è una scienza, la clinica è un’arte.
E questo principio,assistito da non minore “evidenza”, sorveglia il rischio di un uso dittatoriale delle “linee guida” della cd. medicina “evidence based”, competente sulla patologia, ma non sulla clinica, come più sopra definita…
Il Bambino del pittore ha dunque ragione: occupatevi della sofferenza, lasciate in pace la felicità: felice chi fela, infelice chi no.
(*) Il ricorso all’etimologia, caro allo scrivente come campo di libere associazioni depositate nelle lingue e nella loro storia, è autorizzato dal seguente, perentorio, passo di Freud: “E a noi psichiatri s’impone, come congettura irrecusabile, il fatto che la nostra comprensione e traduzione del linguaggio onirico sarebbe migliore se fossimo più informati sull’evoluzione della lingua” (OSF 6 pag.191)
Gino Zucchini