Ne è passato di tempo da quando, all’arrivo della nostra Rivista, già sbirciata nella cassetta della posta, curiosamente ne iniziavo la lettura qua e là trascegliendo gli scritti più appetitosi. Ne è passato di tempo: ora dispongo, trimestre dopo trimestre, le copertine in bella vista in uno scaffale privilegiato e aspetto…Aspetto che siano i titoli, graficamente sempre più accattivanti, a rimproverarmi l’indolenza e a costringermi a rompere gli indugi.
E’ accaduto così anche per il numero 4 del 2015: la voce Heidegger, tra verità e attaccamento, mi richiamava da molte settimane: di filosofia sono da sempre più curioso che competente, anche perché abituato a pensare che per affrontare la complessità del mondo occorra semplificare gli attrezzi concettuali impiegati nell’impresa (Socrate e Freud hanno semplificato i guazzabugli del mondo e del cuore umano).
Purtroppo i filosofi molto spesso sembrano avere in orrore la semplicità e il senso comune; così manipolano talora il lessico universale – essere, tempo, soggetto, oggetto, persona, ente, corpo, anima, verità e coscienza… - tutte parole garantite da una convenzione plurimillenaria che le costituisce come patrimonio dell’umanità. Ora accade spesso che i filosofi se ne appropriano autarchicamente e senza chiedere il permesso ne usurpano il valore per allegarvi significati oscuri e non sempre onesti: un po’ come falsificare una moneta corrente.

Così, consapevolmente dubbioso mi accingevo a leggere i quattro testi (Vanzago, Bottiroli, Bonazzi, Cabestan) naturalmente disposto a mettere sul conto della mia inadeguatezza la difficoltà di comprendere concetti come “rivoluzione modale in filosofia”, “logica dei correlativi”, “dimensione ontica dell’Essere”, ecc.
Mi interessava cercare di capire se fosse mai possibile e desiderabile un dialogo tra la filosofia di Heidegger e la psicoanalisi di Freud in vista di un reciproco arricchimento dei mondi e dei modi messi a confronto. In realtà i nostri autori, ciascuno a modo suo, lasciavano presto intendere la difficoltà dell’impresa: come mettere insieme il diavolo con l’acquasanta… epperò non si sa mai…

A questo punto, inopinatamente, sulle nostre pagine innocenti, a scoppio ritardato, è esplosa una bomba (in verità già nota agli addetti ai lavori da circa un anno): la pubblicazione dei “Quaderni neri” di Martin Heidegger.
Uno scandalo nella cultura filosofica europea e oltre che sta scuotendo mezzo mondo da un anno a questa parte.
(Cliccare:http://espresso.repubblica.it/plus/articoli2014 oppure: http://wuz.it/articolo-libri/8560/Heidegger-Quaderni-Neri/Filosofia-Nazismo.html)
Intendiamoci: un po’ di mal di pancia Heidegger lo ha sempre procurato ai suoi discepoli e ammiratori (tra loro molti italiani): la mancata presa di distanza dal regime nazista dal quale aveva anche accettato qualche medaglia, e poi l’interminabile silenzio sulla Shoa: e però quale grand’uomo può mai essere esente da qualche debolezza o difetto il cui peso spariva bellamente di fronte al fulgore luminoso del più grande pensatore del Novecento…

Ora non si può più ragionare così: ora è lo stesso Heidegger che nel corso di una vita intera ha affidato la questione a questi appunti di cui ha organizzato la pubblicazione post mortem. Ora è lui stesso a giustificare more philosophico lo sterminio degli ebrei. In quanto senza terra essi non appartengono all’Essere ma si identificano con l’ente, inanimato, meccanico, scientifico: “L’elica dell’aereo è inanimata, è “Weltlos”, non appartiene alla storia a meno che su quell’aereo non ci sia il Fuhrer che va a trovare il Duce. Ecco: gli ebrei sono come l’elica, non appartengono né alla Storia né al mondo: l’ebreo è una specie di artefatto che costituisce un impedimento alla storia dell’Essere: non “essere” ma “ente”, cosa inanimata.”
Di qui il mostruoso teorema: l’olocausto non è altro che il risultato metafisico di un progetto di auto annientamento degli stessi ebrei, la cui esecuzione era precisamente affidata al popolo tedesco, incautamente interrotto nell’impresa dall’intervento delle potenze occidentali.
Chiaro e tondo.
Ne è nato un drammatico dibattimento, anche a seguito di un libro “Heidegger e gli ebrei” di Donatella Di Cesare, filosofa docente alla Sapienza di Roma, da cui sono tratte le citazioni di cui sopra.
Tra i difensori di Heidegger Gianni Vattimo sul “Fatto Quotidiano”, 12 Dic. 2015: “Non basta un Quaderno Nero a liquidare Heidegger, antisemita indispensabile” (?!).
All’opposto Martina Gambarotta (30-4-2016) scrive: chi mai potrebbe anche solo pensare che la Shoa sia stata l’autoannientamento degli ebrei?
E però aggiunge: “Per chiunque ami la filosofia oggi è un giorno triste. Triste perché non riusciamo a immaginare come il più grande – perché Heidegger, inutile negarlo, è il più grande dopo Platone – l’unico che abbia mai veramente posto nei termini giusti il problema mai risolto dell’Essere, abbia potuto non solo assentire ma fondare filosoficamente le atrocità che il terzo Reich ha perpetrato”
Eppure: hic Rodos, hic salta.
Amici filosofi, la vostra tristezza è troppo elegante: preferisco la mia indignazione davanti alla criminale arroganza di questo “maestro” che scientemente doveva aver già programmato di gettare in confusione la maggior parte dei suoi devoti estimatori, costretti oggi a maledire il maestro per salvarsi dalla totale confusione: quest’uomo ha immerdato la filosofia prostituendola a un proprio malsano disegno.

Ma non gli farei l’onore di considerarlo un mostro: preferirei usare per lui quel titolo che la sua immeritata amante (tardivamente pentita) Hannah Arendt aveva già usato per Adolf Eichman, l’organizzatore ferroviario della deportazione di sei milioni di ebrei: un burocrate, perfetto rappresentante della banalità del male: i mostri godono d’essere tenuti tali, oscuri, impenetrabili e misteriosi. Nossignori: Martin Heidegger è un banale malfattore di filosofia.

Dopo la pubblicazione dei Quaderni Neri nessun dialogo è più possibile tra Heidegger e Freud.
Potremmo semmai disporre di una nostra chiave di lettura dell’immonda teoria essere la Shoa niente altro che opera di autoannientamento degli ebrei, affidata per l’esecuzione al popolo tedesco: la razionalizzazione di una personale pulsione omicida dell’autore, garantita d’onnipotenza grazie all’essere e al permanere inconscia.
Ora però, come si può ben vedere, questa “interpretazione” non può essere assistita dalla neutralità, troppo a rischio di apparire indifferenza: di fronte ai delitti della storia non possiamo, non vogliamo essere indifferenti. Et de hoc satis.
Molto cordialmente
Gino Zucchini.

(Bologna, 5 maggio ’16)

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