“Corra! Corra! Perlamordiddio, corra! Al pronto soccorso! Sto male, molto male! Mi manca l’aria, passi col rosso, pagherò io la multa!”

Così gridava al taxista la giovane paziente: “Mi sento morire! Il cuore a mille, il respiro corto, la testa che gira e nessuno intorno a me: sola! Sola!”

Poi, con qualche imbarazzo: “Finalmente!” arrivati davanti alla grande scalinata del Maggiore, col suo ampio portone a vetri e tutta quella gente che va, che viene, e tanti in camice bianco, indaffarati…”Ci sarà pure qualcuno che mi vorrà salvare!” Già respirava meglio…

Noi lo chiamavamo attacco di “angoscia abbandonica“: una al mese alla portineria del Roncati, Santisaianovanta, il manicomio, che finallora, anni ‘80, svolgeva pure la funzione di pronto soccorso psichiatrico: il sùbito sollievo all’arrivo dei soccorsi evocava, secondo noi, l’antico angoscioso grido del lattante ancora fresco di nascita, che si svegliava solo e al buio, presto sedato dall’arrivo della mammella; oppure, all’opposto, avviato ad un affanno senza più voce se il pronto soccorso tardasse ad arrivare: angoscia abbandonica.

Ora si chiama attacco di panico, dedicato a un’antica divinità greco-romana, vistosamente bipolare d’angoscia e d’eccitamento maniacale… (“E Pan, l’eterno che su l’erme alture / a quell’ora e nel pian solingo va”…: Così Giosuè Carducci, davanti a San Guido.)

Ma non è la nomenclatura che qui ci importa. Rileva un dato clamoroso: nel tempo presente, più o meno a partire dagli anni novanta, una crescita imponente di questi attacchi, non ancora pervenuta all’apice della curva incrementale: tre-quattro al giorno al pronto soccorso del ”Maggiore”!  Immediato il trattamento ansiolitico-antidepressivo, esami di sangue, cuore e polmoni e rapido rinvio al curante, con più o meno confermata la cura già in atto, spesso malamente ubbidita. Cos’è accaduto in questi pochi anni a determinare tale clamoroso incremento? L’urgenza stessa che accompagna l’attacco interroga l’eterno enigma del tempo: Crono, divoratore dei suoi figli, fin da neonati…

“Se mi domando cosa sia il tempo, non so rispondere; lo so se non me lo domando”: così viene spesso citato Sant’Agostino. Proviamo: dicasi “presente” il nome che diamo alla percezione  o all’azione in atto (<attualità>) e dicasi “passato” la somma dei <passi> impiegati dai fatti e dagli eventi per arrivare al cuore dei ricordi, figli della memoria madre; e dicasi “futuro” la fantasia previsionale, abitata di speranze, desideri, attese e trepidi timori. Ciò premesso, non possiamo ignorare che nel corso degli ultimi decenni, su su fino all’attualità, con un moto vistosamente accelerato, la trasmissione audio-visiva di voci, immagini, figure e scene, ha annullato le distanze, azzerando la durata (o durezza?) che in passato teneva divaricati i segmenti spaziali e temporali tra persona e persona, eventi e loro percettori: con un <clic>, praticamente a costo zero, siamo fulmineamente altrove: vedenti e visti, parlanti e udenti, il tutto ad alta velocità. Sparisce l’attesa, sorella della pazienza, sintesi preziosa di memoria degli assenti e speranza di reincontri.

Così il presente si dilata enormemente in danno sia del passato che del futuro: “O tutto subito o niente mai più”.… L’ipertrofia dell’azione percettuale schiaccia la memoria e atrofizza il desiderio (“de sideris”) che per sua natura sarebbe tollerante delle distanze, persino “siderali”… Così il maniacale trionfo contro il tempo si disvela come l’altra faccia dell’angoscia abbandonica, o panico che dir si voglia? Molti indizi autorizzano questa ipotesi, peraltro utilizzabile in un progetto di igiene mentale: come educare a un quantum d’onnipotenza in meno per un tantum di memoria e di speranza in più?  

Ottobre 2018.

G. Zucchini.

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