Si possono ancora scrivere romanzi storici? Ormai da non pochi anni siamo entrati nella stagione dell’alta velocità della comunicazione audiovisiva, offerta “in tempo reale” e “presa diretta” ad una percezione facilmente onnivora, abbagliata dai molti vantaggi illusori e poco avveduta dei possibili pericoli. Così l’enorme dilatazione del presente – che è signore della percezione in atto – facilmente si volge in danno degli altri due loci di Krono: il passato (ricordi, memoria, storia) e il futuro (speranze, progetti, desideri) a rischio di atrofia: o tutto sùbito o niente mai più… Perciò Ivano Dionigi, passato rettore della nostra università, ammonisce: “ Il presente non basta” (Mondadori, Milano, 2016), dove si legge un’affascinante apologia del latino.
Ora la storia, vuoi quella garantita scientificamente dai suoi cultori, vuoi quell’altra affidata al romanzo dello scrittore, particolarmente versata nella ricerca del significato degli eventi e dei gesti attestati, fatica a trovare il tempo, il silenzio e la meditazione che la sua lettura richiede. La storia, la memoria, ha bisogno della scrittura, e questa chiede la lettura, così come la parola in viva voce aspira naturalmente all’ascolto.
Perché solo acquisendo un senso per le nuove generazioni il peso delle tragedie della storia, sia delle singole persone sia dei popoli, può sottrarsi all’insidia della coazione a ripetersi. Per questo Francesco De Sanctis , già a metà dell’Ottocento ripeteva ai giovani “Io vi esorto alle storie”.
Il dottor Enzo Tardino – giudice, oggi pensionato della Cassazione, giornalista e scrittore di persone e vicende giudiziarie, due volte insignito di premi prestigiosi, è noto anche al nostro Centro Psicoanalitico per aver partecipato qualche anno fa a una delle giornate di studio del nostro Gruppo “Psiche/Dike”. Ora si è cimentato da par suo a una impresa imponente, un romanzo storico: “Rose’s Story, 1943” (Saga di un paese, Europa edizioni, Roma 2016) in due volumi. Il primo, una stagione di storia patria, dal 1915 (la battaglia dell’Ortigara) al 1943 (lo sbarco degli Americani in Sicilia) vista dal natìo paese di Licata, molto guardata e detta da Rosa Balistreri, nota cantante folk, persona reale e vera. Una narrazione sontuosa, per la quale lo scrittore si affida al discorso diretto dei protagonisti sopra le infinite vicende di guerra, di lotte, di intrighi di politica e di amuri.
Il secondo, dal dopoguerra fin quasi al presente, vicino alla cronaca e ai temi dell’attualità, intercettati dalla biografia della protagonista che a giusto titolo dà il nome al romanzo. Come si vede l’Autore sfida vistosamente la frettolosa accidia del nostro tempo, osando proporre la sua “Story” in due volumi di complessive mille pagine, garantite da una spettacolare sapienza e memoria documentale. Una seconda sfida concerne specialmente la scrittura, abitata da una lingua ampiamente fecondata dal lessico dialettale della protagonista: una lingua che rende più credibile la narrazione e più veritieri i fatti.
Su questo punto prevedo due partiti tra i lettori: quelli che non amano la pazienza dell’interpretazione e quelli che ammirano stupiti la polisemìa della parlata siciliana: mi iscrivo a questo partito.
Questo romanzo non sopporta alcun riassunto: mi permetto solo di segnalare al lettore, che ne farà l’uso che vorrà, tre frammenti – tre prelievi bioptici – del pregiato tessuto narrativo della “Story.
Dal Volume uno: La battaglia dell’Ortigara (da pag. 28); il funerale di Carmilina (pag.75); la cantata di “Lili Marlène” (pag.75), una specie di miracolo, un fiore musicale sbocciato tra le bombe e le macerie della guerra: una canzone tedesca, prodigiosamente antibellicista nella sua tenera semplicità, cantata per questo dai giovani militari di tutti i fronti. (Ero un bambino , ma me la ricordo ancora e saprei canticchiarmi mentalmente il tenero motivetto…)
Dal volume due: qui siamo già nel dopoguerra, da poco tempo nell’Italia repubblicana, dopo il Quarantotto, scelgo la sontuosa cena degli intellettuali, allestita dal nobiluomo Alessandro Aloisio. Qui Enzo Tardino - sfoderando tra l’altro una non comune, e divertente sapienza culinaria -- mette a tavola e fa parlare una folla di personaggi, molti dei quali ancora noti al lettore mediamente informato: religiosi, scrittori, artisti, filosofi, poeti, medici, giornalisti, avvocati (l’elenco è a pagina 48). Cito: monsignor Zardoni, esorcista, il vescovo Zuppi, poi Sciascia, Bufalino, Guttuso, Guglielmo Giannini, Lucio Colletti, Manlio Sgalambro, Remo Bodei e altri tanti…
Non sappiamo se lo scrittore abbia mai interpellato i suoi ospiti e se ne sia fatto autorizzare: conoscendo il nostro autore, lo escluderei; siamo comunque certi che la sostanza, se non la forma, dei loro pensieri e discorsi è garantita da una scrupolosa conoscenza e un profondo rispetto delle posizioni etiche, filosofiche o politiche, anche quando non condivise. Uno spaccato di pensieri e problemi alle soglie degli anni cinquanta e oltre.
Gli umori sono sempre gli stessi, anche del nostro tempo, tra chi governa e chi si oppone; ma al pensiero e al discorso politico, spesso pericolosamente rozzo di oggidì, manca – ahinoi – la cultura, l’eleganza, la profondità e lo stile che faceva dire a Togliatti, pur nella polemica: “Ella erra, onorevole De Gasperi” a cui l’altro rispondeva: “E’ l’onorevole Togliatti a essere in errore, e noi lo dimostreremo”.
Come si fa, alla nostra età a non essere laudatores temporis acti? Come si fa a tacere della becera ignoranza che tanto spesso alimenta la gazzarra intorno alla questione dei migranti: come si fa a trascurare che la più parte della nostra storia e cultura ci deriva da due migranti: il “pio” Enea e Gesù Cristo? Per cui Benedetto Croce scrisse, lui non credente, il saggio “Perché non possiamo non dirci cristiani” ?
Adesso, per l’ultimo argomento che mi preme, scelgo di tornare al volume uno, verso la fine (da pag. 396). Seguendo le vicende della sua amata protagonista, Enzo Tardino incontra la questione psichiatrica: con gli accenti di chi riconosce gli aspetti tragici della malattia mentale: mille miglia lontano dalle frivolezze del conformismo antipsichiatrico tuttora diffuso.
Rosa Balistreri, per disgraziate vicissitudini, finisce al manicomio. E qui incontra certo dutturi Zucchini, chissà come colà traslato da Bològna, col quale intreccia un sorprendente dialogo psichiatrico di tipo nuovo. E qui il sottoscritto recensore deve tacersi per l’evidente conflitto di interessi…
Mi auguro solo di essere all’altezza dell’amabile ritratto che l’Autore ne fa in queste pagine.
Agosto 2018
Gino Zucchini