Il precipizio.
Primo Levi è stato una delle figure più grandi del nostro Novecento, nobile persona, dolente e mite, testimone tenace di Auschwitz, scrittore altissimo (ancora non abbastanza onorato nei nostri licei). Nelle sue pagine sul lager la profonda ricchezza narrativa accompagna, dalla distanza ravvicinata del sopravvissuto, l’orrenda tragedia della Shoah. Nuda e cruda la realtà è muta: solo vestita di parole adeguate può farsi verità e sfidare le insidiose tentazioni della rimozione e l’arroganza del negazionismo.
In un mondo presto distratto da un consumismo già frettoloso e tutto incentrato sull’ipertrofia del presente in atto (“life is now”) non amico della memoria e a corto di speranze lungimiranti, Primo Levi si trovò a dover lottare per salvare la storia persino contro incomprensibili accidie dei suoi editori.
Due sentimenti hanno dominato l’animo suo: l’angoscia di non essere creduto in ciò che raccontava e l’insidiosa, paradossale vergogna d’essere sopravvissuto.
L’11 Aprile 1987, all’età di sessantotto anni, Primo Levi si è suicidato precipitandosi dalla tromba delle scale di casa sua. Anche questa sua tragica fine è tuttora in attesa d’essere definitivamente onorata di verità. “Lo strano suicidio di Primo Levi” fu scritto (e ancora si vorrebbe ripetere).
Rita Levi Montalcini, ad esempio, la celebre cugina premio Nobel, intervistata dalla televisione pochi giorni dopo, dichiarò di non credere al suicidio: qualcuno, interessato a far tacere quella voce, l’avrà precipitato (questa ipotesi fu poi lasciata cadere in favore di un involontario incidente).
L’amico scrittore Ferdinando Camon, che stava intrattenendo con Primo Levi una appassionata conversazione (poi raccolta in un “librino”) riceve con infinita tristezza la notizia della morte dell’amico e, due giorni dopo, una sua lettera. “Mi dico: adesso mi spiega perché ha deciso di uccidersi; mi aspetto la confessione che vivere gli è impossibile, che dopo Auschwitz lui non viveva ma sopravviveva. Questo mi aspetto. La apro: un inno alla vita, un vortice di programmi, speranze, attese, da riempire settimane, mesi, anni…”
Troppo clamorosa la contraddizione tra quella scrittura e l’ipotesi suicidaria, poco accettabile da chi gli voleva bene e lo stimava. Più credibile un banale, tragico incidente per una qualche manovra incauta.
Dieci anni dopo quella morte Elio Toaff, il rispettato, autorevole rabbino di Roma, fece una straordinaria rivelazione: raccontò che Levi lo aveva chiamato al telefono dieci minuti prima di morire: sembrava depresso, ma non disse di avere l’intenzione di uccidersi e il rabbino ancora si rammaricava di non aver intuito ciò che stava per accadere. E dire che Primo Levi si era pur lamentato di non poter più andare avanti con questa vita, con la madre malata di cancro e il cui viso gli faceva venire in mente le facce di quegli uomini in fila dietro i reticolati di Auschwitz.
Aggiunge di non aver parlato prima dell’episodio per doverosa discrezione e d’essersi deciso a farlo per amore della verità, “anche per reagire a troppe cose assurde che si continuano a dire”.
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Interrogato sul perché a suo parere Primo Levi avrebbe dovuto ricorrere a un suicidio così scomposto pur avendo alternative più semplici, il rabbino risponde: “la mente di un suicida può trovarsi in uno stato che rende impossibile analizzarla con criteri razionali”.
Sorprendentemente quel suicidio fu – e ancora è – considerato strano.
Ora, chi scrive ritiene di aver trovato un complesso rilevante di indizi (prove certe non si dànno in questa materia) in favore della tesi suicidaria di Primo Levi: anche in un racconto fantascientifico, parte della raccolta “Vizio di forma” (1971, ripubblicata con una amabile prefazione dell’autore nel 1987, pochi mesi prima della morte).
Altri indizi troveremo in altri scritti.
Verso il tramonto.
“Verso occidente” è il racconto di un esperimento psicofarmacologico. Walter e Anna, la sua compagna, entrambi ricercatori di chimica, hanno il compito di saggiare l’efficacia antidepressiva di una sostanza recentemente individuata nel sangue di molti mammiferi - “il fattore L” (love?) - di cui sono invece carenti certi roditori, i lemming, la cui inquietante caratteristica è un incoercibile impulso suicida che sembra attivarsi quando la colonia, altrimenti vitale, raggiunge una certa massa critica.
A quel punto la torma lascia il proprio territorio e si avvia, di vallata in vallata, “verso occidente” per raggiungere il mare e lì gettarsi ad annegare.
Analoga carenza del “fattore L” i due ricercatori avevano riscontrato in una loro esplorazione in Amazzonia, nel sangue di una popolazione – gli Arunde - : questo popolo era destinato a una lenta ma sicura estinzione per via di una diffusa, e però pacifica, propensione al suicidio di quanti fossero giunti a constatare che tra i piaceri e i dolori della vita il bilancio era stabilmente declinato in favore della sofferenza, secondo un giudizio debitamente ratificato dal consiglio degli anziani. I desiderosi di morte, in numero crescente, venivano dunque legittimati e accompagnati accuratamente con una complessa anestesia verso una fine indolore.
Il decano del villaggio confermò ai nostri protagonisti che gli Arunde erano privi di convincimenti metafisici: vivevano pacificamente e anche festosamente, senza chiese, senza sacerdoti e senza stregoni; non si aspettavano né premi né punizioni in un aldilà inesistente…
Rientrati in patria, Walter provvide a spedire oltre oceano un pacco con una adeguata quantità del “fattore L”, supposto efficace contro l’epidemia suicidaria degli Arunde.
La descrizione dell’esperimento sui lemming è preceduta da un pensoso dialogo tra l’uomo e la donna intorno al senso della vita e della morte, della felicità e dell’angoscia.
Impariamo che la donna, subito dopo la nascita della loro bambina, è andata incontro a “quel buco, quel vuoto. Quel sentirsi tutto inutile intorno, annegati in un mare di inutilità”.
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Dal canto suo l’uomo riflette che “fra chi possiede l’amore di vita e chi lo ha smarrito non esiste un linguaggio comune: l’uno ne ricava gioia, l’altro tormento: ognuno ne trae conferma per la propria visione del mondo”.
Prosegue la narrazione.
Giunto sul luogo precedentemente individuato, Walter si dispone a somministrare il farmaco mediante un nebulizzatore assicurato dietro le spalle, posizionandosi sul bordo di uno stretto canalone, passaggio obbligato per la massa dei lemming verso il mare. La prima ondata dei roditori, raggiunta dalla nuvoletta chimica, effettivamente si arresta (efficacia del farmaco, dunque); ma alle spalle dei primi una mostruosa ondata delle bestiole orribilmente travolge, ricopre e soffoca l’incauto sperimentatore. Anna assiste da lontano impotente alla tragedia.
Le ultime righe del racconto chiedono la trascrizione letterale:
“Quello stesso giorno, ritornò al mittente il pacco che Walter aveva spedito oltre oceano […] Conteneva un laconico messaggio indirizzato a Walter “y a todos los sabios del mundo civil”; diceva così: “Il popolo degli Arunde, presto non più popolo, vi saluta e ringrazia. Non vi vogliamo offendere, ma vi rimandiamo il vostro medicamento, affinché ne tragga profitto chi tra voi lo vuole: noi preferiamo la libertà alla droga, e la morte all’illusione”.
Interpretare.
Non possiamo non interpretare.
Primo Levi si iscrive al popolo degli Arunde: mite, rispettoso, pacifico, tollerante, non credente. Come il Decano preferisce la libertà di suicidio all’illusione dell’immortalità .
Dal dialogo tra Walter e la sua compagna veniamo informati che l’Autore aveva cognizione molto precisa della depressione puerperale come abissale svuotamento di senso, proprio di quell’atto di creatività carnale abitualmente assunto come forte metafora del misterioso desiderio di vita.
Da dove avesse acquisito questa conoscenza tanto puntuale non sappiamo: possiamo solo ipotizzare che possa essersi trovato a vivere accanto a una puerpera depressa.
Ugualmente sorprendente la cognizione dello stato dell’animo del depresso, che si avverte radicalmente incompreso da quelli che amano la vita; così come questi tanto spesso non sanno dialogare con chi quell’amore abbia smarrito.
Ancora: l’orribile ondata dei lemming che travolge e uccide il chimico Walter, esplicita controfigura dell’Autore, può ben leggersi come metafora di ondate di angoscia (colpa e vergogna) che sabotano ogni moto di difesa personale.
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Come nell’episodio già raccontato di Elias, il nano robusto che gli serrò la gola fino a strozzarlo e desistette spontaneamente senza che lui tentasse un solo gesto in propria difesa. Glielo vieta “una norma trasmessami da innumerevoli antenati alieni dalla violenza […] Preferisco, nei limiti del possibile, delegare punizioni, vendette e ritorsioni alle leggi del mio paese. E’ una scelta obbligata: so quanto i meccanismi relativi funzionino male, ma io sono quale sono stato costruito dal mio passato, e non mi è più possibile cambiarmi” (“I sommersi e i salvati”, pag.111).
Uno strato inconsapevole di colpa e di vergogna preesisteva dunque al lager: qualcuno mi aiuti, chè io non so difendermi da solo…
La vergogna.
“I sommersi e i salvati (i delitti, i castighi, le pene, le impunità)” è l’ultimo libro scritto da Primo Levi nel 1986, dunque un anno prima della sua morte: un testo altissimo e tragico per contenuto e forma, dove l’universo concentrazionario, già raccontato in “Se questo è un uomo” e ne “La tregua”, viene ripensato con passione veritativa e immenso dolore, attraversati dalla vergogna del sopravvissuto.
A questo sentimento è dedicato un capitolo impegnativo: il senso comune, più o meno legittimamente ingenuo, non può esonerarsi dallo stupore: ma quale colpa? Ma quale vergogna? Questa spetta semmai agli assassini, ma non alle loro vittime. Ed ecco la risposta di Levi: “La condizione di offeso non esclude la colpa, e questa è spesso obiettivamente grave, ma non conosco tribunale umano a cui delegarne la misura” (corsivo mio, op.cit. pag.31).
Così questa misura viene “delegata” al tribunale interno (Super Ego, dopo Freud) il quale ha sul povero Ego il vantaggio dell’onniscienza a cui nulla sfugge: di qui l’implacabile severità dei suoi giudizi.
E qui Levi sfida il paradosso: “Lo ripeto, non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri […] Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gòrgone non è tornato per raccontare, o è tornato muto; sono loro, i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato generale. Loro sono la regola, noi l’eccezione”. Ergo: la verità è impossibile; appartiene solo alla morte.
Così è difficile ignorare questa ipotesi: che Primo Levi, sull’orlo del precipizio suicida, abbia inteso porre rimedio alla distrazione di qualche kapò che risparmiandogli la vita lo aveva consegnato ad una penosa sopravvivenza.
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La zona grigia.
Seguitando la lettura “indiziaria” del testo citato, richiamiamo “La zona grigia”. E’ un capitolo impegnativo e ardito, dedicato all’etica nei territori della vita e della storia nei quali non è possibile “ripetere il gesto di Cristo nel Giudizio Universale: qui i giusti, là i reprobi”. Il mondo del lager, già di per sé terrificante, era altresì indecifrabile: impossibile distinguere l’amico dal nemico, il giusto dall’ingiusto, il vero dal falso, il bene dal male.
Poiché le SS avevano messo molta cura nel far sì che ciascun prigioniero percepisse come nemico il suo vicino, con l’istituzione di una feroce maligna gerarchia del potere,accattivarsi un frammento del quale poteva salvarti la vita, di solito in danno del tuo vicino.
Ciò impediva il costituirsi di un “noi”, un gruppo amicale tra i prigionieri, rendendo impossibile ogni progetto di rivolta solidale.
Dall’altro lato sordidi personaggi della gerarchia potevano concedere qualche privilegio salva-vita a questo o a quel prigioniero il cui lavoro risultasse ancora utilizzabile o prezioso per il regime. Lo stesso Levi, esperto chimico, fu addetto al lavoro presso la I.C.Farben industrie, senza nulla mutare nella sua condizione di prigioniero, ma con indubbio risparmio delle forze fisiche. Fu un bene o fu un male?
(Questo concetto della “zona grigia” è stato richiamato in tutt’altro contesto – l’etica nella relazione analitica – da Luigi Zoia, autorevole analista junghiano, in “Al di là delle intenzioni”, Bollati Boringhieri 2007) L’assunto è, mutatis mutandis, quello stesso di Levi: nel complicato groviglio delle cose umane si dànno persone e situazioni entro le quali può essere assai problematico distinguere con un taglio netto il bene dal male.
Ora l’invito alla prudenza nel giudicare, rinunciando alle arroganti pretese dei verdetti assoluti, è naturalmente condivisibile. A una condizione però: se il bianco e il nero del reale sono spesso confusamente miscelati nel grigio, tanto più dovrebbe poter essere limpida la lente dei concetti e degli affetti attraverso la quale guardare: distinguere senza scindere, collegare senza confondere i singoli granelli del bianco e del nero. Una lente affumicata rischierebbe di proiettare il proprio grigio sulla realtà stessa, annebbiandone la verità umanamente possibile.
Questo potrebbe essere accaduto a Primo Levi, impedendo la festa della liberazione, rapidamente mortificata dalla paradossale colpa e vergogna d’essere sopravvissuto. Come se i comportamenti più o meno esplicitamente censurati come colpevoli, si fossero attuati in un regime di almeno sufficiente libertà (presupposto dell’etica) e non nell’orrore antiumano del Lager.
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L’angoscia, cattiva consigliera della coscienza, deve aver usurpato il posto che spettava al dolore sano e riparativo, non nemico della gioia della rinascita. (Qualcosa del genere accade nel paradosso della depressione puerperale, ricordata più sopra).
E dire che lo scrittore aveva pur affidato ad una pagina sopra le altre indimenticabile (da “Se questo è un uomo”, diario del 15 Gennaio 1945, pagg. 141/142) la resurrezione dell’umano, e dell’etica, dall’antiumano, dove l’etica era sospesa.
I tedeschi non c’erano più: incalzati dall’avanzata del fronte russo, erano fuggiti abbandonando il lager. In un panorama di morti e distruzioni pur tuttavia i gesti riacquistano significato:
“Quando fu riparata la finestra sfondata e la stufa cominciò a diffondere calore, parve che in ognuno qualcosa si distendesse, e allora avvenne che Towarowski (un franco-polacco di ventitrè anni, tifoso) propose agli altri malati di offrire ciascuno una fetta di pane a noi tre che lavoravamo e la cosa fu accettata. Soltanto un giorno prima un simile avvenimento non sarebbe stato concepibile. La legge del Lager diceva: “mangia il tuo pane e, se puoi quello del tuo vicino” e non lasciava posto alla gratitudine. Voleva dire che il lager era morto. Fu quello il primo gesto umano che avvenne tra noi. Credo che si potrebbe fissare a quel momento l’inizio del processo per cui, noi che non siamo morti, da Haftlinge siamo lentamente diventati umani.”
In fine.
La chiarezza e lucidità di questa memoria sembrerebbe promettere l’esonero dalla colpa d’essere sopravvissuti, dato che nel mondo antiumano le cose accadevano assai più per casuale violenza che per libera scelta. Se Primo Levi non riuscì ad assolversi da colpa e vergogna, pare lecito ipotizzare che le radici di questo penoso sentimento, infine fatale, si ritrovino, di là dall’orrore del Lager, anche nella severità delle “norme trasmesse da innumerevoli antenati” più sopra richiamata.
A questo punto la “zona grigia” acquisterebbe lo statuto allegorico di un’area depressiva della mente e del cuore di questo uomo.
Non ritroviamo qui lo scrittore vigoroso che nella dedica di “Se questo è un uomo” imponeva al lettore di meditare “che questo è stato” e, ove questi avesse disobbedito all’ingiunzione di credere, lo investiva con una maledizione di sapore dantesco: “Vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi…” né l’amabile poeta che rivolge agli amici attempati…”Ora che il tempo urge da presso / che le imprese sono finite / a voi tutti l’augurio sommesso / che l’autunno sia lungo e mite”.
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Una sanità alta e nobile abitava dunque l’uomo, e però non abbastanza forte da contrastare gli assalti proditori di un’angoscia depressiva che gli rodeva l’anima (i lemming sono dei roditori). Ancora poco visibile in quegli anni la cultura psicoanalitica, la sola che cerca parole interpretanti tra modi e mondi reciprocamente disconoscentisi. D’altronde in quel tempo anche a Torino si celebravano le frivole processioni di Marco Cavallo ad opera di un’antipsichiatria incapace di riconoscere e contattare la dignità drammatica della malattia mentale.
Primo Levi non aveva tutti i torti: qui nessuno mi può capire.
Al modo di tardiva, devota, riparazione, si può azzardare un’ipotesi non ignota alla psichiatria più avveduta: la clamorosa contraddizione tra la testimonianza del rabbino Toaff e la lettera contemporanea spedita da Levi all’amico Camon, fa pensare a un rapido voltafaccia della scissione maniaco-depressiva, o bipolare che dir si voglia. Ivi, all’interno della medesima persona si trovano due personaggi, l’eccitato ottimista e il tragico pessimista, che non sanno intendersi tra loro, come Levi sapeva bene. Troppo fuggevole l’incontro tra i due modi sulla soglia della coscienza: quando l’uno entra l’altro esce e viceversa. Impossibile allora la gramsciana sintesi tra il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà, reciprocamente capaci di temperarsi.
(Il suicidio detto maniacale non è frequentissimo ma non è ignoto).
Sul parapetto del precipizio il pessimista deve aver rubato al suo dirimpettaio un impulso fulmineo messo al servizio di uno stagionato, sotterraneo progetto autodistruttivo, di cui crediamo di aver individuato gli indizi: numerosi, concordanti e significativi.
Con quella morte Primo Levi ha dolorosamente accorciato quell’autunno che pur si era augurato lungo e mite…per se stesso e per tutti noi.
Gino Zucchini