"Tutto si regge sull’equilibrio
di ciò che è pronto a crollare"
L’acqua del lago non è mai dolce
Un libro sugli ultimi, dai personaggi ben stagliati in una mescola intensa di qualità attrattive e respingenti, che sparigliano le identificazioni ai due personaggi principali, madre e figlia impegnate in una spietata lotta per individuarsi.
Antonia è una madre fiera che non si risparmia, che con dignità cerca e attrezza una casa per la famiglia che deve tirare avanti da sola, quattro figli e un marito sulla carrozzina dopo essere caduto da un’impalcatura di un lavoro in nero. Un contesto di povertà che a tratti si mostra anche miseria d’affetti e pensiero concreto. Una donna salda nella sua etica che non concede superfluo o bellezza che non sia legata all’utilità, generosa e ingombrante.
.. quello che manca e quello che c’è dipendono solo da lei.
Cerca di fare anche da padre a Mariano, il primogenito avuto da un altro uomo, e proietta la sue ambizioni sulla figlia, in quello sporgersi sull’altro dov’è spesso difficile distinguere il sostegno dal possesso che usurpa la libertà.
Leggeremo insieme se non capirai, studierò con te, ce la dobbiamo fare per forza …
La mia vita non è la tua… Il ci mi comprende come una prigione, il noi in cui nessuno mi ha chiesto se voglio abitare…
.. mi domando perché si accanisca, cosa voglia da me, cosa stia progettando e proiettando, mi chiedo se c’entri con l’assenza di mio fratello, se adesso si sia resa evidente la mia insignificanza, se lei voglia a ogni costo imbottirmi, come reggiseno, come quaglia…
Questo pensa Gaia, che condivide la ricerca di un riscatto dall’emarginazione, ma prova imbarazzo per quella madre che mostra così goffamente i suoi limiti, per le ristrettezze che sviliscono e alimentano la ferocia dei bulli.
Essere diverso, difettoso, ti danneggia e rimanere perfettamente allineato ti aiuta a mescolarti e a non farti notare, noi siamo già abbastanza rovinati di nostro, non possiamo permetterci becchi o orecchie vistose.
Per crescere bisogna faticare, non si è fanciulli a lungo, non verrai difeso, accudito, abbeverato, ripulito, salvato per sempre, arriva il momento in cui tocca a te stare al mondo, e questo è il mio.
Con quel nome che sente così poco adatto a sé, Gaia cerca le strade dell’anestesia, del tenere a distanza.
Io sono stata un cigno, mi hanno portata da fuori, mi sono voluta accomodare a forza, e poi ho molestato, scalciato e fatto bagarre anche contro chi s’avvicina con il suo tozzo di pane duro, la sua elemosina d’amore.
Una combattente che, quando le rompono la prima cosa nuova e sua, impara la furia.
Forse non sono le rose che strappi dai giardini comunali, i libri che non consegni per tempo in biblioteca, non sono le volte in cui mangi a bocca spalancata, non sono le corsie d’emergenza che usi per il sorpasso, i litigi coi bambini per le gommose alla frutta, non sono le bugie e le male intenzioni, ma è così in realtà che si diventa una donna cattiva.
La violenza di Gaia suona straniante e al contempo la qualità più vera del suo personaggio.
Vilipesa dalla vita, non c’è sostegno per lei, il futuro chiuso.
Siamo materiali di scarto, carte inutili in un gioco complicato, biglie scheggiate che non rotolano più… … liquame delle promesse non mantenute…
In quel riscatto sociale che fallisce penosamente, come a dichiarare che non c’è speranza possibile, il fratello sembra l’alternativa, una figura pasoliniana che si riconosce nella propria condizione e non aspira a una vita borghese, che arriva a farsi cacciare dalla madre ma poi torna quando c’è bisogno di lui. È proprio Mariano a mettere d’accordo tutti nel gruppo, la figura più commovente, in quel rapporto ostile e squalificante con il patrigno che lo ha sempre ingiuriato e che poi porta in braccio nella vecchia casa cui fanno ritorno.
Il loro gioco di sguardi da non padre e non figlio è tenero e quasi allarmante, sottende un affetto tra persone che non sanno comunicarselo, che non troveranno mai le parole.
Anche il rapporto fra madre e figlia pare mutare nel tempo; nella voce narrante di Gaia ritroviamo i labirinti della nostalgia e un rispecchiarsi di cresciute consapevolezze.
Perché sempre si oppone? Si erge come diga, perché non si fa vicina? Come tutte la madri, o almeno la madre che vorrei, e non bacia, non accarezza, non pettina i capelli, non rassicura, non incoraggia, ma solo giudica a pretende, ma solo mortifica con parole e accuse, e sottolinea la fine dei sogni e delle speranze. Mi fa sentire molto da meno, un fallimento, una caduta, un ingranaggio spezzato, un pendolo fermo.
Non mi sono mai pensata capace e volitiva, ho sempre e solo agito per scatti e convulsioni, per sentimenti di rivalsa e per vergogna... il suo agire è progetto, il mio agire è guerra, nel primo caso l’obiettivo è noto, nel secondo ciò che si sa è solo che conviene distruggere prima che siano gli altri a pensarci.
Come se Gaia pensasse che la madre aveva comunque un senso a vertebrarne l’esistenza, per quanto scomposta, una capacità riparativa, mentre lei restava una testa matta, un po’ mela marcia, più impantanata in una distruttività incapace di oltrepassarsi. Forse la malattia di Iris avrebbe potuto risvegliare un’affettività di cura, ma chissà se quel mai rimarcato del titolo sulla dolcezza dell’acqua voleva essere il messaggio dell’Autrice.
Io sono netta e non so aiutare, mi vergogno per la nostra mancanza, per questa ennesima lotta che ci riporta allo scantinato della prima casa, a quando non era scritto da nessuna parte che noi meritassimo riparo. … Non c’è casa per chi non ha cuore.
La Caminito impiega una scrittura elegante, a tratti un ritmo secco e martellante a rendere la concretezza dei climi, degli agiti esplosivi, del pensiero grezzo.
Il finale sospeso ha aperto fantasie, è sempre una scelta che offre a ciascuno di leggere le proprie proiezioni. In un romanzo che non ha risparmiato un tessuto di asprezze, cedere alla facile lusinga di un lieto fine di speranza non sarebbe apparso altrettanto veritiero.
… la vita gira, la vita restituisce quello che coltivi, quello che sbagli.
DF