... c’è un’arte di raccontare, solidamente codificata attraverso mille prove e errori,
così c’è pure un’arte dell’ascoltare, altrettanto antica a nobile,
a cui tuttavia, che io sappia, non è mai stata data norma.

Levi, La chiave a stella

Discutere questa ‘opera prima’ di un Levi che, dismessi i panni del chimico, si da alla scrittura come professione, per alcuni membri del gruppo ha significato scoprire un libro che altrimenti non sarebbe mai finito nella propria libreria e per altri l’occasione di verificare se si sarebbero ritrovate le medesime risonanze della prima lettura, più o meno lontana. Perché è sicuramente un libro molto distante dalla sua scrittura di testimonianza sull’esperienza dei campi di concentramento.
È un libro acuto, ironico e profondo insieme; e soprattutto un grande racconto di ascolto.
Il Levi chimico e intellettuale incontra un montatore, un homo faber che narra episodi della sua vita, persone e paesaggi, attraverso l’esperienza di ciò che ha costruito in giro per il mondo.
L’intendersi dell’umano, come le correlazioni fra elementi chimici naturali ed emotivi, come le ricorrenze della natura che rispondono a medesime leggi, nell’infinitamente piccolo e nell’infinitamente grande.
Tutti e tre i nostri mestieri, i due miei e il suo, nei loro giorni buoni possono dare la pienezza... insegnano a essere interi, a pensare con le mani e con tutto il corpo, a non arrendersi davanti alle giornate rovesce ed alle formule che non si capiscono, perché si capiscono poi per strada; ed insegnano infine a conoscere la materia e a tenerle testa. Il mestiere di scrivere, perché concede (di rado: ma pure concede) qualche momento di creazione, come quando in un circuito spento a un tratto passa corrente, ed allora una lampada si accende, o un indotto si muove. Siamo rimasti d’accordo su quanto di buono abbiamo in comune. Sul vantaggio di potersi misurare, del non dipendere da altri nel misurarsi, dello specchiarsi nella propria opera. Sul piacere del veder crescere la tua creatura.. solida, necessaria adatta allo scopo, e dopo finita la riguardi e pensi che forse vivrà più a lungo di te, e forse servirà a qualcuno che tu non conosci e che non ti conosce.
Una scrittura colloquiale, tessuta sul gergo tecnico e dialettale dell’operario, con il suo arguto fiorire di metafore.
A me i sogni mi piace farli venire veri, se no rimangono come una malattia che uno se la porta appresso per tutta la vita, o come la farlecca di un’operazione, che tutte le volte che viene umido torna a fare male.
Una galleria di camei. Come il committente di una torre che la sera lo raggiunge in cima e raccoglie la polvere di stelle, le stelle cadenti che avevano finito di cadere e che in alto, in un posto pulito e isolato, si trovavano sempre. Commovente pensare quelle stelle filanti che sembrano le comete del presepio, uno le vede e pensa un desiderio, e poi cascano giù, si raffreddano, e diventano pallini di ferro da due decimi. O la gigantesca colonna che appena installata incammina una crisi, e lui mette l’orecchio sulla lamiera per ascoltare quel gorgoglio come un bimbo che non sappia ancora parlare ma si vede che ha male. O la cicatrice claustrofobica: mi sentivo come un peso qui alla bocca dello stomaco, e la gola chiusa come quando da bambini si ha voglia di piangere. Più che tutto mi sentivo la testa andare in giostra.. mi sembrava che quel tubo diventasse sempre più stretto e che mi soffocasse come i topi nella pancia dei serpenti, e guardavo su e vedevo la cima lontana lontana.. e mi veniva una gran voglia di farmi tirare fuori.. devo dire che dopo di allora, ogni tanto, così all’improvviso, quel senso di topo in trappola mi ritorna.. non sono più stato buono di tornare come prima.
Ma la voce di Tino Faussone è soprattutto la limpida immagine dell’etica del lavoro.
Il termine libertà ha notoriamente molti sensi, ma forse il tipo di libertà più accessibile, più goduto soggettivamente, e più utile al consorzio umano, coincide con l’essere competenti nel proprio lavoro, e quindi nel provare piacere a svolgerlo.
Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono.

Il lavoro come espressione di libertà, fonte di incontro, scoperta del mondo. È realizzazione creativa, come un bimbo che giochi col suo meccano, è il piacere di padroneggiare i materiali, conoscendone la natura profonda e le reazioni, è dedicarsi alla lenta edificazione di ciò che sarà che prende vita, forma, è avere la visione prospettica di come diventerà.
Viene in mente Loewald, quando parlava dell’attesa fiduciosa di un’essenza emergente di ognuno. Funzione genitoriale che investe, dedita, maieutica.
Il lavoro si impasta di piacere, struttura l’identità, marca il valore dell’aver cura.
Io credo che gli uomini siano fatti come i gatti, .. se non sanno cosa fare, se non hanno topi da prendere, si graffiano tra di loro, scappano sui tetti, oppure si arrampicano sugli alberi e magari poi gnaulano perché non sono più buoni a scendere. Io credo proprio che per vivere contenti bisogna per forza avere qualche cosa da fare, ma che non sia troppo facile; oppure qualche cosa da desiderare, ma non un desiderio così per aria, qualche cosa che uno abbia la speranza di arrivarci.
In quegli anni ’70 in cui il tema del lavoro era di grande attualità, Levi mostrò le sue abilità di narratore declinandolo in una chiave di grande modernità, e ancora oggi ha molto da offrire allo spirito dei tempi.
Io l’anima ce la metto in tutti i lavori, anche nei più balordi, anzi, con più che sono balordi, tanto più ce la metto. Per me, ogni lavoro che incammino è come un primo amore.
A ciascuno ritrovarci le proprie risonanze.

 

DF

 

 

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