Amerigo e Oliva
Come sulla pensilina di una stazione un brulicare di voci . “Gli altri?”, “Siamo in pochi”
“e Mario ?”, ”Chi ha visto Petit Maman ?”
L’oggetto su cui il gruppo si interrogherà è già in campo: capire la Storia attraverso gli occhi e le domande dei bambini che ne sono stati protagonisti: Amerigo e Oliva. Scrive M. Serra “la letteratura è meglio della politica. L’ho capito leggendo “Il treno dei bambini””.
Saliamo sul treno. I primi scambi sono sul fatto storico: la vicenda poco conosciuta di migliaia di bambini meridionali che nel secondo dopoguerra, grazie al Partito Comunista, vennero strappati alla miseria e affidati alle famiglie del Nord e del Centro.
Amerigo è uno di questi. Lo vediamo arrancare dietro sua madre, donna dignitosa ma poco incline alle parole e alle carezze: “Non è arte sua”. La giustifica Amerigo.
Eccola la sua povertà: i pidocchi, le scarpe usate, la mela rubata, i piedi gelati come pezzi di baccalà, la sua scatola di giochi: una trottola di legno, tappi di birra americana, il guscio di una noce su cui è montata una piccola vela, una spilla da balia e una piuma. Chissà cosa diventavano nelle mani della sua fantasia. Seguendolo per i vicoli apprezziamo tutto quel mondo di relazioni innervato della solidarietà: le due lire della Pachiochia, l’acqua con l’idrolitina che è consolazione e non elemosina, le chiacchiere infinite delle comari sulle porte dei bassi, i bambini che si rincorrono…
Lo strappo da tutto questo, sentirsi un dente caduto ma anche il buco lasciato dal dente, sentire la tristezza nella pancia e il salato delle lacrime che “azzeccano” in bocca e cancella il sapore della cioccolata, cercare con la mano la mela di mamma e la struggente nostalgia di risentire “Amerì, vieni cammina a casa” ed essere quel cappottino che la mamma stringe tra le braccia come quando lo proteggeva dalla paura dei bombardamenti.
Il viaggio lungo a farsi coraggio con Tommasino e Mariuccia tra i fantasmi dei comunisti che mangiano i bambini.
E poi l’altra realtà: Derna, la casa calda, i vestiti nuovi, le scarpe, la mortadella, avere paura di sentirsi solo nel buio e addormentarsi con i canti della resistenza, la scoperta della musica e il violino (Qualcuna ricorda la nonna che la portava alle riunioni dell’Udi ad ascoltare la compagna venuta da Roma) Poi separarsi di nuovo, sentirsi diviso a metà. Ma quando Amerigo ritorna alla realtà di origine, niente è come prima. ”te lo devi togliere quel sogno dalla testa” gli urla la madre. Quando oltre al sogno, alle provviste portate dal Nord, gli toglie anche il violino - e quindi la sua possibilità di differenziarsi, essere originale contando sulla sua sensibilità musicale - Amerigo scappa, riprende il treno e torna al Nord, dove “riconosciuto” può studiare e diventare un famoso violinista.
C’è un salto temporale: lo ritroviamo grande, straniero nelle vie di Napoli dove lo ha riportato la notizia della morte della madre. Nel vecchio basso lei non c’è più ma sul tavolo c’è la pasta con la genovese, il suo piatto preferito. Le mamme lo sanno e ti aspettano così. Con quel sapore in bocca tornano gli odori e i suoni di una volta. Sembra abbia bisogno di un bagno sensoriale per rimettersi la pelle di allora. E’ anche un viaggio interiore per ritrovare dentro di sé la sua mamma: “ho dovuto percorrere a ritroso la strada fino a te mamma… tutti gli anni che abbiamo passato distanti sono stati una lunga lettera d’amore, ogni nota che ho suonato, l’ho suonata per te… quello che non ci siamo detti non ce lo diremo mai più, ma a me è bastato saperti dall’altra parte di quei chilometri di strada ferrata, per tutti questi anni, con le braccia strette a croce sul mio cappottino. Per me è lì che resti. Aspetti e non vai più via”.
Ed è lì che ritroverà ad aspettarlo il nipotino Carmine, che con le sue manine fiduciose avvinghiate alle sue, insieme agli articoli di giornale e al vecchio violino, gli ha fatto riscoprire la fiducia in quel “amore pieno di malintesi” che lo legava e continuerà a legarlo alla madre.
Di nuovo un fatto storico al centro del secondo romanzo di Viola Ardone: la vicenda particolare di Franca Viola, che dopo essere stata rapita rifiutò di accettare il matrimonio riparatore. Anche per Franca il sostegno del padre che disse “se tu ci metti una mano io ce ne metto dieci” fu determinante.
Come ne “Il treno dei bambini” riesce a dare alla vicenda la voce di Oliva Denaro, una ragazzina che sta attraversando la linea d’ombra tra infanzia e adolescenza in un paesino della Sicilia degli anni sessanta. Ce la vediamo secca, scarmigliata, correre a perdifiato con i suoi zoccoletti, lanciare pietre con la fionda ai ragazzini che offendono il suo amico zoppo, con il quale, stesi sull’erba, erano soliti giocare a dare nome e forma alle nuvole. Sentiamo la sua voce verde, timida e sfrontata snocciolare i suoi tanti “Io non sono favorevole” cercando così di differenziarsi come singolare dal plurale femminile che la vuole fragile e bisognosa della protezione maschile: “la femmina è una brocca: chi la rompe se la piglia”. Ed insieme alla sua, risuona potentissima la voce del silenzioso padre, il grande coprotagonista, che non si impone, “non preferisce”, pronto a fare spazio ai desideri della figlia, a sostenerla “se tu cadi io ti do una mano a rialzarti”. Invece la madre, terrorizzata dal plurale femminile che vede, controlla e condanna attraverso le maleforbici, detta regole che ingabbiano la libera espressione del corpo e del desiderio femminile: “Non sta bene alzare le spalle sopra la linea delle spalle, alzare gli occhi, farsi bella….mantieniti pulita, stai ritirata…”
Il gruppo si chiede perché le donne attraverso il meccanismo del pettegolezzo, funzionante come un’istanza moralista e giudicante, si fanno complici di un potere maschile che le priva della libertà di desiderare e scegliere di conseguenza. Il corpo dicevamo. Sognarlo, disegnando i volti delle attrici, scoprirlo bello per la prima volta riflesso nello specchio regalatole dall’amica o nella foto scattata a sua insaputa. Ma soprattutto sentirlo vivo, mosso dal sentirsi investita dallo sguardo desiderante del suo pretendente, averne paura. Sentirlo riconosciuto come femminile dalla madre: “Ti stai facendo bella”. “All’improvviso smisi di sentirmi difettosa: se per mia madre ero bella, lo diventavo veramente. Se mia madre mi vedeva, mi vedeva il mondo. Avevo attraversato la soglia dell’invisibilità. Ero una donna, come lei.” E come lei doveva restare pulita ed onorata.
Incontro del 10/11/21