Il gruppo rilegge un classico con un ospite d’eccezione, Paolo Nori, che di recente è uscito per Garzanti con una sua traduzione del romanzo di Dostoevskij.

Chi è il personaggio senza nome che abita il sottosuolo?
“Non sono stato capace di diventare cattivo, non sono stato capace di diventare niente: né cattivo, né buono, né disonesto, né onesto, né un eroe, né un insetto. Adesso vivacchio, oramai, nel mio angolino, dicendo che sono cattivo, eccitandomi con una malvagia, inutile idea consolatoria, che un uomo intelligente non può seriamente diventar niente...”
Ma l’uomo del sottosuolo non è un testimone attendibile di sé: dichiara e ritratta, mente e si impastoia in un tormentoso soliloquio di frustrazioni e risentimento.
Un racconto in Skaz, spiega Nori, che riproduce una narrazione orale, dove, più del protagonista, conta il modo in cui parla. E a partire dalla memorabile girandola sonora che apre il romanzo, il ritratto che emerge è quello di un uomo cui preme raccontare degli inganni di un mondo spregevole e degli assalti di una sofferenza che non chiede compassione ma anzi si fa godimento della propria volgarità compiaciuta (condizione per indicare la quale c’è una parola specifica in russo).
Un labirintico viaggio interiore che non ha forse paragoni di profondità in tutta la letteratura né nella precedente produzione di Dostoevskij, che attraverso i veleni dei desideri insoddisfatti e della malignità, i viluppi di vendetta e punizione, umiliazioni e morbosi piaceri, porta l’Autore russo a cogliere verità umane profonde.
“Per quel che mi riguarda, io non ho fatto altro, nella mia vita, che portare all’estremo quel che voi vi siete degnati di portare fino a metà, prendendo poi la vostra viltà per buon senso, e consolandovi, così, e imbrogliandovi da soli.”
Quella dell’uomo del sottosuolo è la coscienza di come la volontà non segua solo il bene, di una ragione che sa soltanto quello che ha fatto in tempo a conoscere, mentre la natura umana agisce con l’intero, con tutto quello che c’è in lei, cosciente e incosciente.
“E anche se la nostra vita, nelle sue manifestazioni di volontà, sembra spesso una porcheria, è comunque poi vita, e non l’estrazione di una radice quadrata.”
“Forse all’uomo non piace soltanto il benessere. Forse gli piace altrettanto la sofferenza.”

Nori richiama Šklosvkij, che ne L’arte come procedimento, parla dello scopo dell’arte di trasmettere l’impressione dell’oggetto come visione e non solo come riconoscimento, come se si vedessero le cose per la prima volta e ‘fuori dall’imballaggio’ di uno sguardo abituale e statico. E sottolinea l’importanza di un pensiero che dice la sua, di un esistere che ‘parla’ invece di ‘essere parlato’.
Ma la coscienza può diventare una malattia, si dice l’uomo del sottosuolo. Perché la coscienza lo portava a rendersi conto che tanto più era in grado di percepire tutte le sottigliezze ‘del bello e del sublime’ e delle cose che non andavano fatte - per quanto probabilmente tutti le facessero - tanto più gli veniva da farle, affondando nel fango, ma come se per lui non fosse una tara ma la sua condizione normale. Così aveva combattuto a lungo questa propensione fra grandi sofferenze, tenendola dentro come un segreto vergognoso che non credeva riguardasse anche gli altri. Finché gli era passata la voglia di lottare, e lasciava accadere quel misterioso diletto di tornare a fare meschinerie e poi rodersi “coi denti, a lisciarmi e tormentarmi fino a che la sofferenza non si trasformava, alla fine, in un vergognoso, maledetto piacere.. (...) Per questo mi son messo a parlare, perché voglio sapere, davvero, con certezza: ce li hanno anche gli altri questi godimenti? (...) Il godimento veniva proprio dalla coscienza troppo evidente della propria umiliazione; dal fatto che senti, tu stesso, che sei arrivato all’ultimo stadio; che non va bene, ma che non può essere diversamente; che non hai vie d’uscita, che ormai non diventerai più un altro uomo; che se anche restassero ancora tempo e fede per diventar qualcos’altro, probabilmente tu stesso non vorresti diventare nient’altro.” (...) Cosa c’è da spiegare di questo godimento? Ma io lo spiego lo stesso! Io ci arrivo in fondo! Ho preso la penna in mano apposta...”
Il nostro protagonista sostiene che l’uomo intensamente cosciente non è nato dalla natura ma da una storta, ed è l’antitesi dell’uomo normale. Perché se anche ci fosse in lui della generosità non sarebbe in grado di perdonare o dimenticare le offese; se offeso desiderasse vendicarsi, di malignità in lui se ne svilupperebbe di più che ne l’homme de la nature et de la vérité. Per questo e per la coscienza delle malvagità compiute, egli, in tutta buona fede, non si considera un uomo ma un topo nella brodaglia fatale del suo fetido fango, dei dubbi, delle ansie, del disprezzo da cui sempre si sente contornato. Gli uomini normali che dice di invidiare, quelli che possono perseguire i loro scopi e sentimenti in modo diretto, possono essere solo stupidi, non gravati dall’intelligenza superiore che accende la coscienza di quel che si è. A lui invece, all’atto di una vendetta, “non resta che scuotere la zampa e, con finto sorriso di disprezzo al quale non crede neanche lui, infilare, vergognoso, la propria tana. Là, nel suo schifoso, fetido sottosuolo, il nostro topo offeso, colpito e deriso si sprofonda subito in una fredda, maligna e, soprattutto, perenne cattiveria.” E nella propria fantasia, ruminando i più vergognosi dettagli delle offese, alimenterà rabbiosi copioni di vendetta, senza credere né al proprio diritto di vendicarsi né alla riuscita della propria vendetta, sapendosi condannato a soffrire cento volte più dell’altro.
Da quell’eccesso di coscienza di non poter diventare qualcos’altro, dall’inerzia che forse è il suo più diretto frutto, l’uomo del sottosuolo si sente condannato a una febbre di irresolutezza e al seppellirsi vivo, cosciente, consapevole, nel sottosuolo.

Nel gruppo resta sospesa la domanda su cosa possa rappresentare quel muro delle leggi di natura e della matematica che due più due quattro, quello che se l’uomo del sottosuolo non ha la forza di sfondare, comunque non ci si rassegna.
“Mettiamo che l’uomo non faccia altro che cercare questo due più due quattro, e attraversi gli oceani e sacrifichi la vita in questa ricerca, e che di trovarlo, di trovarlo sul serio, per Dio, ne abbia, in qualche modo paura. Perché sente che se lo trovasse non ci sarebbe più nient’altro da cercare.”
Davvero è questo che fa mancare la presa? Che battezza legge di natura storta il sottosuolo dove desiderare solo di stare tranquilli, senza nessuno che disturbi?
“So benissimo, come due più due, che non è il sottosuolo il meglio, ma qualcos’altro completamente diverso, qualcosa di cui sono assetato e che non troverò mai!”
Cos’è che si brama di trovare nella risolutezza di non poterlo raggiungere davvero?

“O eroe o fango, vie di mezzo non ce n’erano. Era questo che mi rovinava, perché nel fango mi consolavo pensando che poi sarei stato un eroe, e, da eroe, avrei cancellato il fango...”
“È significativo che questi entusiasmi per quello che è bello e sublime mi prendessero nei momenti di depravazione, e proprio quando ero caduto più in basso, arrivavan così, a raffiche separate, come se volessero ricordarmi che c’erano, ma non è che con la loro presenza debellassero la depravazione: al contrario, era come se la vivificassero per contrasto e arrivavano proprio nella quantità necessaria per fare una buona salsa.”

Salsa di contraddizioni e sofferenza, tormenti che davano senso: “Avrei forse potuto accettare una semplice, volgare, immediata depravazione da impiegatuccio e sopportare tutto questo fango? Come avrebbe potuto sedurmi e farmi uscire per strada, di notte? No, in ogni cosa avevo una nobile scappatoia…”
“Avrei trasformato il mondo intero in qualcosa di bello e sublime; nel fango più incontestabilmente ripugnante avrei trovato il bello e sublime.”

“Cos’è meglio, una felicità da quattro soldi o delle sofferenze inaudite? Eh? Cos’è meglio?”

L’illimitata vanità, delle esigenze che avevo nei confronti di me stesso, la stessa vanità attraverso cui mi guardavo spesso con una furibonda scontentezza che andava fino al disgusto. E la vanitosa cattiveria coltivata in un sottosuolo fangoso e fradicio, privo di frequentazioni - quindi sprovvisto di confronti che consentano altre vie ai solchi delle proprie narrazioni.

Nell’uomo del sottosuolo infuria la bufera fra grandiosi propositi e mortificati ripensamenti, fra timore dello scherno e desideri di immani punizioni che possano estinguere lo strazio. Le “brutte figure”, come il bottone in Povera gente, quel passeggiare sprezzante avanti e indietro con un gran rumore di tacchi, di fronte ai compagni che lo ignorano: “volevo dimostrare, con tutte le mie forze, che potevo benissimo fare a meno di loro…”, carrellate di scorni in cui ciascuno si può riconoscere, abrasive lese maestà della nostra rappresentazione di noi.
Sono catene di furia che cercano vanamente scarica per estinguersi: da lui al vetturino e da questi al cavallo. Fino a Liza, la giovane prostituta cui sconvolge l’anima e spezza il cuore, umiliandola per il suo vendersi a degli ubriachi indifferenti.
Ma l’ingovernato incontra sempre i limiti della propria coscienza: “ero così abituato a rappresentarmi le cose nel modo in cui me le ero costruite prima nell’immaginazione”, da non comprendere come Liza, con i suoi scarsi mezzi, lo veda semplicemente per quel che è: un uomo infelice. La ragazza non fugge al suo declamare le proprie atrocità, alle urla svilite e svilenti con cui la respinge sentendosi ripugnante: perché non te ne vai?
Viene in mente la frase di Terenzio: nulla di ciò che è umano mi è estraneo. Lei che conosce le miserie della vita, le nefandezze del postribolo così come la purezza del sentimento. Lo guarda seria e partecipe della sofferenza che lo anima e quando gli tende le braccia, a lui si scioglie il cuore.
Ma poi con che coraggio rialzare lo sguardo da quei singhiozzi, ora che “era lei l’eroina e io la creatura umiliata e oppressa che lei era stata davanti a me quella notte… Io fino ad oggi sono convinto che, proprio perché avevo vergogna a guardarla negli occhi, nel mio cuore, d’un tratto, si accese e divampò un altro sentimento… il sentimento del dominio e del possesso. I miei occhi brillarono di passione, e le strinsi forte le mani. Come la odiavo in quel momento, e come mi sentivo attratto da lei. Un sentimento rafforzava l’altro. Sembrava quasi una vendetta.”
Come sarebbe andata se invece di perderla nella neve fradicia del rifiuto, avesse saputo tenerla dopo averla incontrata?
“Nei miei sogni del sottosuolo non sono stato in grado di rappresentarmi l’amore se non come una lotta, in cui cominciavo sempre con l’odio e finivo con l’assoggettamento morale, e poi non sapevo più cosa fare dell’essere assoggettato...”
Perché il gioco può solo ricominciare, a parti reversibili ma fisse.
“Mi era insopportabile che lei fosse lì. Volevo che sparisse. Volevo essere tranquillo, volevo restare da solo nel sottosuolo. La ‘vita vera’, per mancanza di abitudine, mi angosciava talmente tanto che perfino respirare, era diventato difficile”.
“… siamo tutti zoppi, chi più chi meno. Siamo così poco abituati che sentiamo adesso, per la “vita vera”, una specie di repulsione, e non sopportiamo che ce la ricordino. Siamo arrivati al punto che la vera “vita vera” la consideriamo quasi una fatica, quasi come un lavoro, e siamo tutti d’accordo che è meglio se ci viene presentata nei libri”.

Queste “Memorie”, si chiede l’uomo del sottosuolo, il lungo racconto sul modo in cui ho sprecato la mia vita, è forse una pena rieducativa?

Nori racconta la forza della giovane Anna Grigor’evna che sposerà Dostoevskij poco dopo essere stata assunta come stenografa. Per loro molte traversie, dalla morte della figlia al demone del gioco con cui il romanziere perde tutti i loro averi e torna vergognoso a dirle quanto poco valga come uomo. Come risuona con il suo immaginario di confessione colposa che si aspetta il rigetto... Ma lei lo riconosce nella sua umana grandezza e imperfezione e lo rimette in piedi, aiutandolo a rinunciare ai suoi demoni.
Geni e impiegatucci. Siamo tutti zoppi, chi più chi meno.
Alla fine ha trovato uno sguardo che gli ha offerto una diversa possibilità di coabitare con il proprio sottosuolo.

 

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