Sono numerose le mostre cittadine che hanno fatto da cassa di risonanza ad Arte Fiera 2016 oramai giunta alla sua 40ª edizione. Nell’incertezza che assale quando ci si trova ad operare una scelta all’interno di un’ampia gamma di proposte, mi sono attenuta a un duplice criterio: da un lato una personale risonanza estetica davanti alle opere, dall’altro la possibilità di applicare loro con qualche esito gli strumenti del nostro operare. Ho così selezionato due artisti, entrambi presenti in fiera, le cui rispettive cifre stilistiche hanno tuttavia ricevuto più ampio risalto dalle esposizioni personali a loro dedicate. Sono Francesco Candeloro e Marco Tirelli: l’uno in mostra alla Galleria Studio G7, l’altro presso Otto Gallery. Il primo quanto mai efficace nel catturare lo sguardo con luci, colori, trasparenze e rutilanti giochi di riflessi; il secondo con un che di ieratico che emana da forme pure ed eleganti, algide nel loro stagliarsi - per lo più nere - su sfondi chiari.
Francesco Candeloro. Altri Passaggi
Galleria Studio G7, 23 gennaio - 8 aprile 2016
Bologna, via Val d’Aposa 4A
Altri passaggi è il titolo di un’opera che Francesco Candeloro dedica a Bologna: una tappa del suo ricorrente andare per terre ed esperienze, alla scoperta di luoghi dove sostare, guardare e giocare con la fantasia. A questa si aggiungono altre immagini di città: strutture essenziali, al confine con l’astratto, se non fosse per il saltuario emergere di qualche skyline familiare (Figg. 1-3).
Ma ancor prima che dalle identità dei singoli luoghi l’occhio è colpito dalle qualità globali del complesso espositivo: i colori accesi, la luminosità, la leggerezza, la trasparenza. Si è attratti da oggetti fantasmagorici che invitano a un’esplorazione ravvicinata e che paiono risplendere di luce propria. Ma così non è. Sono infatti costruiti con lastre di plexiglas tagliate col laser e tra loro variamente accostate e sovrapposte.
Solo quando vengono colpiti dalle luci ambientali prendono vita, esibendo profili lucenti di torri, chiese, palazzi; e poi fessure, stratificazioni, intercapedini e spazi reconditi, nonché nuove nuances di colore. Complici, in questo gioco cangiante di riflessi e rifrazioni, anche i movimenti dell’osservatore. Ne derivano effetti di forte pregnanza percettiva, benché per lo più illusori.
A un certo punto ci si accorge, ad esempio, che sulla parete che fa da supporto alle opere compaiono ombre diafane dai colori tenui: sono immagini proiettate delle opere stesse, che ne accrescono la corposità. Nell’insolito percorso fruitivo in cui ci si trova coinvolti, acquistano rilievo anche i volti riprodotti sulle facce di cubi trasparenti dislocati in vari punti della sala (Fig. 4).
I loro occhi, talora velati da lenti, puntano da diverse direzioni sul visitatore impegnato a sua volta a scrutare. Allusione forse al potere dello sguardo e alla soggettività di ciò che si vede; alla lente trasformativa e insieme illusiva dell’arte; ai rispecchiamenti reciproci tra l’artista e il fruitore entro un’area intermedia.
Altro effetto di grande efficacia è quello della trasparenza che consente di vedere simultaneamente i diversi piani dei luoghi rappresentati. Sovviene l’uso che ne fanno i bambini molto piccoli quando, nel disegnare ad esempio una casa, la raffigurano non solo nel suo aspetto esteriore, ma anche in tutto quanto presumibilmente essa contiene. Capaci di rappresentare quello che «sanno» più che quanto effettivamente «vedono», secondo il parere di autorevoli studiosi; forse a ciò mossi anche da un impulso epistemofilico di kleiniana memoria: la curiosità di penetrare la struttura intima delle cose.
Gioco sapiente quello dell’artista, che rende fluidi i confini tra livelli di realtà differenti e grazie ai ritmi incrociati di riflessione, rifrazione e proiezione svela alcuni dei moventi e dei processi del nostro conoscere.
Marco Tirelli. Sculptures and Drawings
Otto Gallery, 28 gennaio - 28 marzo 2016
Bologna, via D’Azeglio 55
Quanto diverso il percorso nelle sale ove sono esposte le opere di Marco Tirelli. Si è colpiti da qualcosa di solenne, di austero e misterioso. Ci si trova di fronte a segni nuovi che non si lasciano facilmente decifrare. In parte sono disegni e tempere, per lo più in bianco e nero, appese alle pareti; in parte sono sculture poggiate su imponenti parallelepipedi neri. Nere loro stesse.
Ci si aggira intorno cercando di penetrare il senso di questi piccoli totem dalle geometrie variabili: gabbiette dalle fitte inferriate; parallelepipedi dalle pareti di specchio riflettente oppure di un vetro che lascia trasparire il vuoto dell’interno; sfere che protrudono in un’appendice arcuata; scalette che non portano a nulla se non a qualche ripiano conchiuso o, viceversa, ad uno spazio indeterminato; una piccola architettura colta nella sua forma integra e poi nella decomposizione operata da qualche agente distruttivo (Figg. 1-3).
Finché non viene la curiosità di capire di che materiale siano fatte queste piccole sculture; ci si informa e si scopre che si tratta di bronzo o di ottone talora con aggiunta di argento, il tutto ricoperto di una patina nera. Allora si prova a immaginare quest’anima interna fatta di una materia lucente: una lega, una commistione di metalli diversi, che rimane segreta e oscurata alla vista di chi guarda. Intimità composita e misteriosa; crogiolo interiore di fusioni creative.
Sorprende - e insieme consente di chiudere il cerchio delle associazioni - il tornare con lo sguardo, talora solo col ricordo, su alcune altre opere.
Ad esempio, la tempera in cui uno schermo nero fa da barriera al fascio di luce che si indovina provenire da un’apertura retrostante (Fig. 4). E ancora un dipinto (a tecnica mista) pieno di fascino: una “scatola aperta” che miracolosamente si svela in prospettiva all’interno di uno spesso contenitore nero, racchiuso a sua volta entro una cornice di un freddo grigio-ottanio (Fig. 5). Cavità dai morbidi toni giallo-ocra-bruni, con spigoli netti e con ombre che si stagliano sulle pareti: a delimitare e insieme a mostrare la contiguità tra aree oscure e zone di luce piena.
E a permettere in tal modo di gettare uno sguardo in profondità, penetrando l’apparente bidimensionalità della struttura.
Così dice l’artista dei suoi lavori: «sono frammenti di un percorso di raccolta di esperienze, pagine di un diario, tracce del mio stare al mondo […] come l’acqua che scendendo dalla montagna trova la strada per giungere a valle».
Le cose, nel loro modo di apparire, sono definite dalla luce che «diversamente le distingue a seconda della loro specifica materia», nonché dall’angolazione dello sguardo che le incontra. Così Antonio Paolucci in una delle sue osservazioni di storico dell’arte.
Candeloro e Tirelli - ciascuno a suo modo - ne danno testimonianza. L’uno ci pone davanti a una materia solida ma trasparente, che la luce ambientale e l’occhio del visitatore percorrono e trapassano con facilità: esplorandone contorni, pareti, fenestrature, anfratti, profondità; dando corpo pure a quell’alone che si proietta all’esterno: estensione percepibile benché impalpabile, che integra l’opera così come il profilo dell’artista.
L’altro si presenta a noi con una materia ugualmente solida, ma opaca alla vista, fasciata com’è con spessi strati di spenta acromia. Questi celano tuttavia un nucleo interno ricco, prezioso, dalle luci e dai colori insospettabili: matrice di processi vitali difficile da raggiungere, se non attraverso un paziente lavoro di avvicinamento e di scavo.
Li accomuna, malgrado le differenze, il senso dell’arte come di un viaggio nel proprio mondo esterno e interno, e di un impegno a narrarne le vicende.
F. Candeloro (1974), veneziano di nascita e formazione, inizia la carriera presso la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia nel 1997. Espone in gallerie italiane ed europee aperte alla ricerca e sperimentazione in campo artistico. Interviene inoltre su ambienti naturali, nonché su complessi architettonici storici tramite l’inserimento di installazioni appositamente create e messe in dialogo coi luoghi.
M. Tirelli (1957), romano di nascita, è cresciuto all’ombra della Fondazione culturale “Istituto Svizzero di Roma” con sede nella splendida Villa Maraini. Diplomatosi all’Accademia di Belle Arti, alla fine degli anni Settanta è stato tra i fondatori della Nuova Scuola Romana. Presente più volte alla Biennale di Venezia, continua ad esporre in mostre personali e collettive di rilievo nazionale e internazionale.