Edward Hopper
Bologna, Palazzo Fava, 25 marzo - 24 luglio 2016
Catalogo: © 2016 Skira (a cura di B. Haskell in coll. con L. Beatrice)

Propongo qualche altra osservazione sulla mostra che Genus Bononiae ha dedicato a Hopper e che già Rossella Valdrè ha recensito per esteso su Spiweb. Ne traggo spunto dal risalto che in Palazzo Fava viene dato alle opere giovanili dell’artista, quasi tutte risalenti ai suoi soggiorni parigini: meno conosciute dal grande pubblico, ma forse utili a completarne il profilo.
Sono vedute d’ambiente che hanno come protagonisti - salvo qualche raro personaggio sommariamente accennato - la luce, il vento, atmosfere solari appena velate da un pulviscolo luminoso (di indiscutibile risonanza impressionista). Sono presenti fin d’allora le tipiche ombre lunghe di alberi e costruzioni, nonché i cortili angusti e gli interni di case oscuri.

Le Pont des Arts, 1907

Ombre e oscurità sono facilmente correlabili a vissuti di malinconica solitudine, ma per una sorta di felice contrasto qui mettono in maggiore evidenza l’animazione degli spazi esterni, le fioriture primaverili, il soffio della natura. Ne scaturisce l’impressione dominante di un’immersione gioiosa nel flusso vitale. Del resto già nello scrivere alla madre lontana Hopper esaltava la bellezza, l’ordine e l’antichità di Parigi, così diversa dalla caotica New York, fino a confessarsi gradevolmente sorpreso dell’allegria spensierata e della propensione al piacere della sua gente: lui cresciuto all’ombra di una rigida educazione battista.

Più tardi, nel rievocare il felice periodo francese, annoterà ancora: «La luce era diversa da qualunque cosa avessi mai visto prima. Le ombre erano più luminose: c'era più luce riflessa. Perfino sotto i ponti c’era una certa luminosità».

Le Pavillon de Flore, 1909

Colpisce la tonalità di queste opere che le fa apparire così lontane da quelle della maturità e che viene facile collegare a un’autonomia non ancora pienamente raggiunta dall’artista rispetto alla pittura en plein air degli impressionisti e in particolare a quella dell’amato Degas.
Ma l’originalità successivamente conquistata, con l’affinarsi di uno stile personale veramente inconfondibile, non impedisce di coglierne la continuità con l’antico: in quel rappresentare le facciate delle case quasi abbagliate dalla luce del sole, i bianchi fari fonte di luce loro stessi, le corpose architetture viste di scorcio. E poi donne e uomini: ora immersi in notti misteriose appena scaldate dalle luci artificiali di qualche posto di ristoro; ora protési, dal chiuso di stanze anguste, verso finestre da cui entra la luce piena del mattino.

Sembrano in attesa di qualcosa, si è detto; forse l’attesa nostalgica di una stagione luminosa ormai irripetibile. O forse più pragmaticamente disposti a coglierne gli sprazzi residui, pronti - a ogni ricomparir del giorno - a intraprendere una nuova tappa del loro percorso di vita. Come suggeriscono le consuete rappresentazioni di strade, ponti, binari, passaggi a livello, barche a vela, porti, alberghi, stazioni di servizio.

Le Bistrot, 1909

Ne emerge un ritratto d’artista denso di forti contrasti: né ingegnere, come avrebbe desiderato il padre, e nemmeno architetto-progettista di barche, come a lui stesso sarebbe piaciuto. Adolescente, ne aveva costruito una in legno, che però - a suo dire - «non navigava molto bene». Fu piuttosto costruttore di scene di vita, variamente ambientate in un curioso alternarsi di interni ed esterni.

Hopper, ancora, come celebrato cantore dell’assenza, della solitudine e dell’attesa; pur tuttavia i ponti, le scalinate, i viottoli e le strade ferrate da lui così spesso ritratte evocano modi di comunicare destinati a vincere barriere di separatezza e lontananza e ad aprire un varco alla ripresa di contatti difficili o perduti. Complice il “ponte delle arti”.

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