“Hai mica fatto un agìto?! (con cipiglio severo)
“Ebbene sì: ho fatto un agìto…(con aria contrita)
Dialogo non infrequente tra due psicoanalisti (non solo giovani...): il primo con l’aria di
rimproverare il collega per un fatto improprio, quando il contesto della seduta avrebbe consigliato un’interpretazione; il secondo per ammettere che sì,non ha saputo far di meglio e allora ha messo un agìto al posto di un’interpretazione…
È probabile che i due colleghi abbiano ragione sulla natura dell’errore tecnico: può darsi;
e però sbagliano entrambi, colpa di una disinvoltura lessicale invero diffusa: sbagliano la parola. (se la psicoanalisi è talking cure – cura con le parole – saremmo tenuti  anche ad aver cura delle parole…).

Ora, nella nostra bellissima lingua (a rischio di quotidiana rottamazione) il verbo “agire” -
latino ago, egi, actum, agere – non ha alcun agitum per participio passato, bensì actum, atto, poi sostantivato a indicare tra altre cose anche il gesto-parola dell’attore. A sua volta il gesto è da gerere e indica tra gli atti quello particolarmente eloquente; e quando a compierlo sono personaggi o gruppi rilevanti, le gesta entreranno nella storia.
Quanto all’attore, questo non  presenta alcuna realtà fattuale, ma si studia di rappresentare una verità attesa.
Nel “teatrino analitico” (grazie Spadoni…) non si pratica nulla ma si interpreta – e cioè si mette in scena – una ipotesi di realtà (res extensa, cose e fatti spesso di là e allora) perché nel qui e ora della scena (res loquens) questa possa transustanziarsi in verità pensabile (res cogitans).
Così l’antico terremoto può essere ricordato senza che la terra torni per questo a traballare sotto i piedi. E il male, percepito nel muscolo cardiaco (quante volte vanamente elettrocardiografato…)  può finalmente transitare nel cuore, luogo simbolico degli affetti. (Freud, 1914, Ricordare, ripetere, rielaborare).
Pirandello lo ha spiegato con la geniale trovata registica dell’incipit dei “Sei personaggi”: tutto il caravanserraglio della psicopatologia è affollato da personaggi in cerca di autore, che salgono dalla platea della nuda realtà al palcoscenico, in cerca di verità infine vestita di gesti e parole adeguate: nuda e cruda la realtà non è ancora verità.

E come chiamarlo, allora, questo benedetto “agìto” per metterci in regola con il vocabolario? Chiamiamolo “fatto” che, può accadere, ha preso il posto di un “atto” di parola.
Lo psicoanalista non agisce, ascolta e, quando può, traduce. E il suo paziente parla, via via incontrando argomenti quasi mai prima pronunciati, eccetera, eccetera, ma prima del divano–e –poltrona?...  In realtà i due hanno fatto (pardon: agìto) un bel po’ di cose: il contratto, i giorni, le vacanze, il pagamento (pacamento, atto di pace…). Insomma tutta la cornice fattuale (il mitico setting) che organizza il quadro della comunicazione (etimologicamente scambio di doni, cum-munus).
Non è dunque il caso d’essere troppo schizzinosi intorno a questo benedetto “agire”. Basterà rispettare un principio: ciò che si fa non si interpreti; ciò che si interpreta non si faccia.
Distinguere senza scindere la platea dal palcoscenico e questo e quella dal mondo interno di ciascuno.

Giugno 2018
Gino Zucchini

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