Hannah Arendt, amante tardivamente pentita di Martin Heidegger (il più celebrato filosofo del ‘900, recentemente disvelato come filonazista), ha dato questo titolo alla raccolta dei suoi réportages di inviata a Gerusalemme a seguire il processo (1961) al criminale nazista Adolf Eichmann, condannato e poi mandato a morte nel 1962. Il famigerato organizzatore ferroviario della deportazione di cinque milioni di ebrei avviati allo sterminio, si difendeva asserendo di aver eseguito gli ordini, come ogni buon soldato; dopotutto si era occupato solo di trasporti…
Il sorprendente scritto della Arendt suscitò un discreto scalpore perché l’autrice vi sosteneva, contro tutta l’enfasi pubblicistica circa la mostruosità del criminale, la totale “terribile normalità” di questo ometto, tutto dedito all’obbedienza assoluta e prevedibile e però totalmente esonerato dal pensare il senso mostruoso del suo operare. Si racconta un singolare incidente in cui incappò l’imputato durante il processo: la corte si era ritirata per una certa deliberazione procedurale; al rientro, secondo il rituale, tutti i presenti si alzano in piedi. Eichmann, distratto, rimane seduto.
Il presidente lo richiama: “Signor Eichman, in piedi!”
E subito questo ometto, cinquemilioni di volte assassino, improvvisamente arrossito e visibilmente confuso, si alza rapidamente farfugliando le proprie scuse.

Pensare (ponderare, soppesare) è, dopo Socrate, facoltà di distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, il vero dal falso; ora però nel totalitarismo di massa (“credere, obbedire, combattere”) questa funzione può pericolosamente eclissarsi.
Così un secolo fa, appena ieri, nell’Europa di Dante e di Goethe, accadde questa “terribile normalità”: e se le parole si portano addosso il peso dell’uso che ne fa la storia, sembra necessario evitare l’incauta identificazione tra salute e normalità. E’ un errore assai comune anche nelle scritture mediche. E però la salute, come la bellezza, è una meraviglia e mal sopporta d’essere “normale”. Normali, all’opposto, sono le malattie, talché, vista un’appendicite, viste tutte; vista una polmonite, visto un quadro fobico-ossessivo, idem: i “quadri” morbosi si ripetono, e così le “linee guida” della terapia. Unico, originale, irripetibile è il singolo portatore di quei mali: simile a tutti, ma identico solo a sé stesso e pertanto legittimo titolare di mistero.
Dico mistero un orizzonte, davanti ai passi umani incalpestabile, rispettoso della “ciascunità” dell’Ego, alla quale si inclina il clinico debitamente curioso e perciò capace di curare mettendosi in relazione. Ora negli ultimi due secoli la patologia, scienza del male, ha sottratto al mistero e consegnato alla “banalità” delle norme un gran numero di mali precedentemente oscuri. E però la medicina è tenuta a rispettare la singolarità, indiagnosticabile, dell’individuo in quanto irripetibile. Perciò la sorprendente invenzione lessicale della Arendt sembra acquistare dignità epistemologica: il male è banale, via via che viene catturato e sottratto all’oscurità: solo il bene è legittimamente misterioso e affidato alla meraviglia: ne discende una teoria della conoscenza che prevede la banalizzazione del male, favorendone la sottomissione alla prevedibilità, garantita dal determinismo della scienza; di là dal quale si libera la contemplazione della misteriosa bellezza del bene: del male cerchiamo le cause; del bene ammiriamo le forme. Eppoi “mistero” è parola greca dal verbo “mio”, stringo gli occhi (da cui “miopìa”), come a suggerire che ci sono cose della vita che si vedono meglio ad occhi socchiusi.
Perciò le proposizioni causali attinenti al male e quelli attinenti al bene non hanno lo stesso statuto epistemico. Il bisturi accausativo si applichi sul tumore o sull’ascesso: applicato sul corpo sano sarebbe pugnale. (In algebra meno per meno dà più; meno per più dà meno…)
Un’applicazione di questo principio mi pare di cogliere in un singolare passo di Freud: “Non mi pare affatto che in questo campo l’interesse degli psicoanalisti sia correttamente orientato. Anziché accentrare l’indagine su come mediante l’analisi si ottenga la guarigione (tema che mi sembra già sufficientemente chiarito), farebbero meglio a domandarsi quali ostacoli si frappongano alla guarigione analitica.” (In “Analisi terminabile e interminabile”, OSF11, pag. 504, dove è anche contenuto un sorridente omaggio alla “buona stella”, garbato avvertimento contro le tentazioni dell’onniscienza).

Giugno 2018
Gino Zucchini

We use cookies
Il nostro sito utilizza i cookie, ma solo cookie tecnici e di sessione che sono essenziali per il funzionamento del sito stesso. Non usiamo nessun cookie di profilazione.